Andrea Villani  
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LA QUESTIONE DELLA CASA, OGGI


Commento al libro curato da Laura Fregolent e Rossana Torri



Andrea Villani


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La questione della casa oggi è ancora sul tappeto. E questo tanto nel nostro paese quanto negli altri paesi sviluppati. Da tanti anni mi interesso del problema. Nel 1966 creammo la rivista «Città e Società» per presentare, discutere, affrontare i temi delle comunità urbane. E i promotori erano i consorzi delle cooperative edilizie Acli, ovvero quanti si occupavano concretamente del problema. C’era stato, a fine anni Cinquanta, il ‘miracolo economico’. Nel Nord Italia, e in Lombardia innanzitutto, era esplosa l’industria e milioni di persone migravano lì dove c’era lavoro. Si ebbe di conseguenza la necessità di nuove case che vennero realizzate mediante l’intervento pubblico - a Milano, in particolare, per una lunga tradizione di intervento sul campo da parte del Comune - ma anche con il contributo delle cooperative edilizie o tramite l’autocostruzione. Ricordo, per esempio, il fenomeno delle ’coree’. La questione casa per i soggetti a basso reddito rimase sulla scena politica in modo fortissimo per decenni e l’azione pubblica - al tempo in cui l’intervento dello Stato nell’economia era particolarmente rilevante - fu continua, dal Piano Fanfani alla Gescal, alle legge 167 del 1962 per acquisire le aree per l’edilizia economica e popolare. Ricordo in proposito la creazione del Cimep (Consorzio intercomunale milanese per l’edilizia popolare). Oppure l’azione dello Iacp (Istituto autonomo per le case popolari) che a Milano, con la gestione di Ripamonti e poi di Venegoni, fu un'istituzione importante sia in termini politici che operativi concreti oltre che per l’elaborazione urbanistica, progettuale, culturale.

In quel tempo, anche nel cuore di Milano, con le abitazioni borghesi di qualità, c’erano ancora le case ‘a ringhiera’, coi servizi igienici (si fa per dire) in fondo al ballatoio, ad ogni piano, e la pompa dell’acqua come servizio collettivo nel cortile. In quella realtà i quartieri comunali di edilizia popolare e quelli dell’Iacp costituivano dei modelli urbanistici oltre che tipologici di alloggi. E un fatto va enfatizzato: i quartieri nuovi erano assegnati e abitati da famiglie giovani, che vedevano quei quartieri, con i loro appartamenti nuovi, come un’espressione importante, innovativa e positiva della loro vita. In quella realtà fisica e sociale, oltre che personale e umana, in ogni nuovo quartiere di edilizia pubblica o privata - come in ogni comune dell’area metropolitana milanese – giocavano un ruolo rilevante la fede e la politica. La partecipazione alla vita dei partiti – in particolare della DC e del PCI, nelle loro sezioni - al dibattito su tutte le questioni collettive (locali, di area vasta, nazionali e anche internazionali) era amplissima, intensa, continua. Ed era anche un’attività di formazione che per i cattolici partiva dall’oratorio. Era cioè la premessa all’impegno civile, culturale, tecnico-amministrativo, con una partecipazione significativa alla realtà delle comunità locali.

Alcune note importanti, anzi fondamentali, per comprendere perchè per trent’anni – dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta – il sistema ha funzionato, nel senso che a livello pubblico, più in generale nella società italiana, una risposta politica al problema dell’abitazione è stata data. Si era in una società povera, con una prevalenza di giovani, con una forte volontà non solo di ricostruire il paese dopo la guerra, ma anche di realizzare qualcosa che non si aveva mai avuto; e insieme con questo, di realizzarsi. In generale si voleva lavorare; obiettivo primario era l’occupazione. Si trattava per la maggior parte delle persone di fuggire dalla fame; non si mirava a obiettivi perfetti; non c’era una miriade di regole perfezioniste da rispettare: a iniziare dalla scala comunale, prima e immediata responsabile per il governo e lo sviluppo del territorio. Spesso non erano ancora stati approvati i piani urbanistici; si era molto spregiudicati nei confronti dell’ambiente naturale, e anche di quello storico. Ricordate la canzone di Celentano Il ragazzo della Via Gluck? Ecco: quella canzone rappresentava l’avvio di una attenzione alle ben evidenti e percepibili trasformazioni del verde in mezzo alle case. Col sorgere di quartieri formati da voluminosi e compatti edifici, davvero “là dove c’era l’erba” si espandeva la città. Ma la stragrande maggioranza della popolazione, specie immigrata, che prevalentemente veniva proprio dalla campagna (che non aveva dato o non dava più possibilità di vita), non provava davvero pena per la sparizione di quel verde urbano. Forse perché non era il proprio, non era quello della propria infanzia. E quindi si potevano tranquillamente trasformare ampi territori in nuovi quartieri di edilizia popolare con significativi esperimenti urbanistici, eredità del razionalismo o di esperienze danesi, svedesi, finlandesi, ben visibili ancora oggi nella realtà urbana milanese. Quartieri di edilizia popolare anche proprio in mezzo alla campagna (cito come esempio particolarmente evidente di un modo di procedere il Quartiere Incis di Pieve Emanuele). E accanto all’iniziativa pubblica, le cooperative edilizie e una forte azione privata di singole famiglie di artigiani e imprenditori piuttosto rapidamente diedero vita a tessuti caratterizzati da una mixité funzionale, dove la piccola industria e la residenza coesistevano, dove casa e lavoro andavano a braccetto. Questo, specie in aree come la Brianza, dove più evidentemente si abbracciò un’importante linea culturale e politica anti-razionalista, anti-specializzazione funzionale, in contrasto esplicito con l’orientamento dominante nel Politecnico o dei politici e degli amministratori del PCI, a Milano come a Bologna. Questo anche dando vita a un dibattito culturale e politico che continuò fino agli anni delle politiche del recupero dei centri storici, dalla metà degli anni Settanta.

È passato mezzo secolo da allora. Oggi siamo in un altro mondo. Cosa è accaduto? Quella che viviamo – dagli anni Novanta e ancor più negli Anni Duemila - è una vicenda diversa della società italiana. E, per quanto attiene la questione della casa, il libro curato da Laura Fregolent e Rossana Torri – L'Italia senza casa. Bisogni emergenti e politiche per l'abitare, con contributi di Daniele Barbieri, Renato Gibin, Laura Pogliani, Marco Guerzoni, Samantha Trombetta, Alessandra Marin, Igor Ciuffarin e Valeria Monno (FrancoAngeli, 2018) – rappresenta un ottimo punto di partenza per una riflessione e una discussione. Il libro assume obiettivi precisi e una filosofia-guida. Presenta una parte documentativa puntuale relativa a tutto il paese; una sua lettura e interpretazione, e una parte critica rilevante per quanto riguarda le politiche seguite dalle istituzioni italiane ai diversi livelli, con un confronto sintetico con le esperienze di altri paesi europei. Viene evidenziata la situazione di crisi economica del paese, in particolare a partire dal 2008 e non ancora totalmente risolta, con le sue conseguenze sulle famiglie italiane; le loro difficoltà, specie per l’incidenza dei costi dell’alloggio sul bilancio familiare. Vengono sottolineati nuovi problemi nelle esigenze abitative determinati dal grande cambiamento nella composizione sociale; le difficoltà peculiari emerse per l’affievolirsi dell’azione pubblica nell’ambito abitativo, sia in connessione alla crisi economica sia dovute al fenomeno dell’immigrazione che ha visto il confluire in alcune città o aree del paese, nell’arco di un brevissimo intervallo di tempo, di milioni di persone provenienti da numerose nazioni del mondo. Oltre a questa fotografia della realtà, nel libro si conduce una valutazione critica delle politiche pubbliche innovative messe in opera dagli anni Novanta, a fronte della crisi conclamata delle istituzioni storiche per l’edilizia economica e popolare. Ultimo, ma non meno importante, emerge un atteggiamento (che credo di poter definire una filosofia, un approccio ideologico) che vede come negativa l’azione pubblica ai diversi livelli volta a favorire l’abitazione in proprietà rispetto a quella in locazione.

Quanto sopra viene messo in evidenza specie nei contributi di Laura Fregolent e Rossana Torri. Nella seconda parte del volume sono presentati casi di studio, relativi all’impatto della crisi economica sull’abitare, con riferimento in particolare al Veneto (Fregolent e Renato Gibin); il nesso tra sviluppo immobiliare su iniziativa privata e le politiche per i ceti sociali in difficoltà nel caso milanese (Laura Pogliani e Rossana Torri); il rapporto tra edilizia residenziale sociale nel quadro regionale delle politiche urbanistiche comunali in Bologna (Marco Guerzoni e Samantha Trombetta) con particolare attenzione al tema della segregazione nell’area metropolitana bolognese e – sia nella parte generale che con riferimento specifico al caso della Venezia Giulia (Alessandra Marin e Igor Ciuffarin) – al tema specifico della casa per immigrati. Tali contributi – caratterizzati da una lettura dei fatti, dalla loro interpretazione critica nonché da un’ampia bibliografia relativa in particolare agli ultimi vent’anni – sono di indubbio interesse e di utilissima lettura. Anche per avere consapevolezza di un punto di vista culturalmente e politicamente ben definito. Ritengo infatti conseguente a uno specifico orientamento il fatto che nell’opera non sia presente documentazione e analisi di come e perchè siano andati in crisi gli istituti pubblici per l’edilizia economica e popolare, nonchè le strutture fisiche e sociali che avevano costituito dei modelli di vita sociale e personale significativi e positivi. E ancora: la mancanza di qualsiasi riferimento all’edilizia abusiva, che in ampie parti d’Italia è costitutiva in modo assolutamente rilevante della realtà abitativa. Aggiungo infine, la carenza di documentazione e riflessione critica relativa alla situazione di coloro che – avendo ricevuto a un certo momento della loro vita un alloggio pubblico in base a qualcuno dei provvedimenti statali o locali attuati nell’arco di decenni – hanno visto nel tempo migliorare la loro condizione economica in modo da non avere più titolo per fruire dell’abitazione pubblica, ma continuano a rimanere nelle abitazioni di edilizia popolare. Secondo alcuni dati non sarebbe un numero trascurabile, a iniziare da Milano. Ho sottolineato questi aspetti perchè li ritengo rilevanti, e penso che queste osservazioni possano costituire uno stimolo agli autori del libro, o ai suoi lettori, per un ulteriore sviluppo di questo utile e interessante lavoro.

Uno dei punti nodali, potrei dire il core di questo racconto sulla vicenda della casa in Italia, sta da una parte nella critica al libero mercato cui si è rivolta la stragrande maggioranza dei cittadini italiani per avere la casa; dall’altra nel far emergere l’incapacità pratica e la mancanza di progettualità del sistema pubblico a ogni livello per dare una risposta concreta a quelle persone – cittadini italiani o meno, comunque presenti in Italia – che non sono state e non sono ancora oggi in grado di accedere a un alloggio appropriato. La critica fondamentale che pervade tutto il libro sta nel fatto che l’azione pubblica sul tema della casa negli ultimi trent’anni, anzichè continuare con impegno quanto ereditato dal periodo precedente, è stata orientata a favorire l’abitazione in proprietà, come se l’avere la disponibilità a questo titolo di un alloggio – appartamento o casa monofamiliare – potesse essere, per tutti, la soluzione del problema dell’accesso a una casa dignitosa. Da questo punto di vista, va sottolineato con forza che qualcosa di veramente straordinario è avvenuto nel nostro paese. Si è passati da una situazione in cui – fine anni Sessanta – la stragrande maggioranza degli italiani viveva in abitazioni in affitto, a una situazione completamente opposta, in cui più del 70 per cento degli italiani vive in abitazioni in proprietà.

Ora, una delle cose che con nostra grande sorpresa abbiamo scoperto, è stato di veder sostenute in modo esplicito, ancora in questi ultimi anni, tesi del tutto normali negli anni Sessanta e Settanta, in una realtà politica, sociale, economica, culturale del tutto diversa da quella attuale. Ad esempio: dal mio punto di vista sembra importante oggi non avere predilezioni ideologiche, a priori, tra la casa in proprietà e quella in affitto. Pragmaticamente mi viene da dire – in base a ripetute osservazioni – che una casa in proprietà viene tenuta con molto maggiore cura di una in affitto, e chi ha una casa in proprietà si interessa, in genere, non solo dell’interno dell’alloggio, ma anche dell’esterno, del condominio o del quartiere. Questo mi spinge ad asserire che per che tutti coloro che hanno fatto una scelta di vita di rimanere in un luogo, di mettere in quel luogo le loro radici, sarebbe preferibile, se possibile dal punto di vista economico, optare per una casa in proprietà, se non altro per non correre il rischio di dover essere costretti ad andarsene in base a decisioni altrui, anzichè per le proprie preferenze. Questo, pur essendo ovvio che chi deve alloggiare in un luogo per un periodo limitato di tempo, per uno stage, per un periodo di studi, per affari, per assistenza a persone, perché non ha ancora deciso il proprio progetto di vita, ma anche per propria libera scelta, deve avere la possibilità di accedere a una casa in affitto. In altre parole, dal nostro punto di vista la soluzione migliore sarebbe che ognuno potesse scegliere liberamente quello che preferisce: vivere in una casa di proprietà o in una in affitto, indifferentemente. Il problema sta nell’approccio culturale, ma con immediate implicazioni politiche, se la casa debba essere considerata un servizio sociale, e come tale debba venire messa adisposizione dei cittadini alla maniera di ogni altro servizio collettivo. Ora, le case non sono come le strade, gli aeroporti, e infrastrutture analoghe. Le case sono beni, nella nostra società liberale e democratica, di proprietà di singole famiglie; di istituzioni not-for-profit; di istituzioni pubbliche. E in questa nostra riflessione assumono rilievo fondamentale le istituzioni pubbliche o not-for-profit che mettono a disposizione l’uso della casa come un servizio, a un prezzo non determinato dalle dinamiche del mercato.

Ci sono istituzioni – come Fondazione Housing Sociale di Milano o la Fondazione Cassoni, pure di Milano – che potrebbero costituire un positivo modello di riferimento per un’azione collettiva da parte di Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni in vista della realizzazione gli alloggi per coloro che non sono in grado di accedere al mercato della casa, sia in proprietà che in affitto. Ho riflettuto molto per cercare di individuare i motivi per cui questi enti pubblici non abbiano operato in modo da dare forza a queste iniziative, non con aiuti marginali, ma in modo tale da farle diventare un modello di riferimento da giocare come caratteristico di un “paradigma lombardo” nell’azione volta a risolvere il problema della casa. Queste e altre istituzioni/fondazioni/associazioni/cooperative che non hanno scopo di profitto o rendita – oltre a quelle citate sopra mi vengono in mente anche la Fondazione Casa Amica di Bergamo o la Cooperativa DAR di Milano – si sono mosse efficacemente sia nel realizzare nuovi alloggi sia nel ristrutturare quelli esistenti, ma soprattutto nel praticare nuovi approcci alla soluzione del problema della casa. Si dà il fatto che queste istituzioni abbiano realizzato in concreto molte nuove abitazioni di vario tipo e con importanti innovazioni di rapporti, anche operando in modo da mettere sul mercato alloggi a un prezzo significativamente inferiore rispetto a quelli correnti sul mercato.

A questo punto ritengo di dover esprimere una prospettiva. Sono convinto che la questione della casa diverrà ancora più grave nel tempo, perché aumenterà ulteriormente la popolazione, specialmente intorno alle grandi città. Popolazione proveniente da migrazioni interne o – ancor più e in modo continuo nel tempo – da migrazioni internazionali, da paesi dell’Unione Europea e soprattutto dal resto del mondo. A fronte di questo probabile aumento del fabbisogno abitativo non vedo motivi per pensare che le risposte esemplari del tipo di quelle a cui ho fatto esplicito riferimento non possano diventare patrimonio comune e siano stimolate e valorizzate producendo ulteriori frutti quanto mai necessari. Questo non toglie che da parte di queste istituzioni/fondazioni/associazioni/cooperative ci si debba mettere nell’ordine di idee che sia positivo e meritorio non solo continuare il modo di procedere concreto fin qui praticato, ma anche cercare di giocare in modo innovativo un’azione culturale – posso dire di impegno civile? – perché le grandi istituzioni pubbliche maturino la consapevolezza dell’importanza di uscire della frammentarietà e casualità degli interventi; si convincano della necessità di elaborare una strategia necessariamente di lungo respiro, capace di tener conto di esperienze e modi di procedere che hanno avuto esiti verificati come decisamente positivi.

Ora un fatto rilevante di fronte a cui ci troviamo – che il volume giustamente enfatizza – è che i vari governi del periodo che stiamo considerando, mentre riducevano la dimensione finanziaria complessiva dell’intervento pubblico per la casa, moltiplicavano le norme di ogni tipo e a ogni livello – dalle direttive dell’Unione Europea alle leggi nazionali e regionali, fino alle norme provinciali e comunali per quanto riguardava i provvedimenti di sostegno ai cittadini in difficoltà nell’accesso a un alloggio. Con queste norme, e in modo ancor più esorbitante, ne sono state stabilite numerose altre, per quanto riguarda la qualità degli edifici di ogni tipo, incluse ovviamente le residenze. E questo per obiettivi di tutela della salute; per il risparmio energetico; per la tutela ambientale, a iniziare dalla riduzione dell’inquinamento. Tutti questi vincoli, se e in quanto rispettati, insieme con un indubbio miglioramento della qualità degli edifici, hanno determinato e determinano un significativo aumento del costo di produzione e, parallelamente, per l’acquisto del bene o per il suo uso attraverso l’affitto. Una simile bulimia normativa – anche quando posta con le migliori e teoricamente giustificabili intenzioni – ha un costo, innanzitutto per la produzione medesima delle regole; poi per gli operatori che si misurano con lo studio e l’interpretazione di regole spesso poco chiare e contraddittorie; poi per il tempo per ottenere verifiche e autorizzazioni relative agli aspetti architettonici, urbanistici, tecnologici, strutturali, igienico-sanitari e magari anche estetici. Si pensi anche ai costi relativi agli addetti delle istituzioni per ognuno di questi aspetti. E, nel caso di enti pubblici impegnati nella realizzazione di alloggi sociali – che pure in talune fasi storiche avevano dato, almeno in alcune aree del paese eccellenti risultati – si pensi al il costo dell’apparato tecnico e amministrativo e al conseguente indebolimento della sua capacità operativa e gestionale. Ora mentre si è verificato tutto questo, non si può non considerare che è avvenuta un’enorme trasformazione nella struttura produttiva – nella sua dimensione fisica ed economica e nel processo tecnologico – e con questa mutamenti di concezioni culturali, di sentire personale e collettivo e – a un certo momento in modo drammatico – a livello politico. La svolta neo-liberista e il trionfo del libero mercato alla scala mondiale con la globalizzazione, dalla seconda metà degli anni Novanta, sono frutto di una scelta umana. E questo processo ha determinato molti e importanti cambiamenti: il generale mutamento nelle condizioni di vita; l’avvento della società del benessere, una affluent society, com’erano gli Stati Uniti già alla fine degli anni Sessanta descritti da John Kenneth Galbraith. Se le persone, almeno in Italia e altri paesi occidentali, in grande numero, non abitano più nelle case in affitto ma in quelle di proprietà, è perché si sono costruiti milioni di vani e questi sono stati resi disponibili a un prezzo commisurato alle possibilità. Questa realtà andrà pure studiata e analizzata da ogni punto di vista.

Il problema casa di cui si sono interessati nella loro ricerca Laura Fregolent e Rossana Torri è affrontato sia dal punto di vista di come fare in modo che tutti possano disporre di un alloggio sia, più in generale, rispetto ai modi con cui un qualsiasi bisogno considerato socialmente rilevante possa essere soddisfatto. Ma per far sì che un bisogno individuale socialmente rilevante venga soddisfatto, non basta affermare che ne esiste il diritto per tutti. Diritto al lavoro? Diritto alla tutela della salute? Diritto nei confronti di chi? Diritto a ricevere un bene o servizio da chi? Dallo Stato? E gratis? E ancora: da parte di ogni persona presente nel paese? Quale che sia il suo reddito, la sua nazionalità, condizione sociale? Mi viene alla mente qui il saggio di Philippe Van Parijs, inventore della teoria del reddito di cittadinanza – Why surfers should be fed. The liberal case for an unconditional basic income («Philosophy and Public Affairs», 20, 2, 1991, pp. 101-131) – e pongo quindi provocatoriamente il problema: basta immigrare in Italia (o in Europa), ci siano o non ci siano possibilità di lavoro, per avere il diritto alla casa? E magari come quelle delle case popolari del Gratosoglio, di Rozzano, Ponte Lambro, Quartiere degli Olmi, per esemplificare?

Ritengo di dover esprimere il mio punto di vista su questo problema sociale comunque difficile. Proprio anche perché molto controverso per i fattori in gioco. Intanto devo sottolineare che la necessità di un alloggio decente non riguarda soltanto persone in stato di grave povertà, cioè che non dispongono di nulla e hanno bisogno di aiuto per ogni necessità della vita, ma anche persone che per difficoltà transitorie o di lunga durata che, pur disponendo di un reddito, si trovano in una situazione per la quale la parte di reddito da dedicare all’alloggio è eccessiva, come viene messo bene in luce anche dalla ricerca che stiamo considerando. Il problema – come si sottolinea nel libro – è come realizzare alloggi da dare in locazione a canoni non elevati e presumibilmente differenziati in base alle condizioni dei beneficiari. Questo richiede, evidentemente, un aiuto della collettività: non solo da parte dello Stato o altri enti pubblici, ma anche da parte di istituzioni not for profit, di cui esistono valide esperienze. Oppure con iniziative di imprenditori privati, che abbiano la capacità e possibilità di realizzare alloggi meno costosi, anche se necessariamente con varie forme di intervento collettivo, inclusi grants-in-aid, vale a dire sussidi monetari.

A questo proposito devo essere chiaro. Ritengo che si debbano costruire nuove abitazioni, con caratteristiche tipologiche di essenzialità, e recuperare quelle esistenti ma dismesse. Questo accettando l’idea che non tutti i cittadini possano avere il medesimo tenore di vita. Piaccia o non piaccia si deve essere maggiormente consapevoli che esiste una realtà di diverse classi sociali; c’è sempre stata, anche nelle società comuniste e in ogni realtà umana. L’obiettivo, dunque, deve essere non l’uguaglianza delle condizioni abitative, ma quello di garantire un alloggio decoroso per tutti i cittadini. E questo seguendo una linea che ritengo progettabile, costruibile e realizzabile anche in un medio periodo.

Considero invece diversa la situazione per quanto riguarda gli immigrati; facendo ovviamente riferimento non a quelli già presenti da tempo e integrati nella struttura sociale e che partecipano alle attività produttive del paese, ma agli irregolari, che non hanno possibilità e probabilità di lavoro, e il cui flusso in arrivo - soprattutto in una prospettiva di lungo periodo – potrebbe aumentare a dismisura. Una questione che dovrà essere affrontata e superata razionalmente che si scontra con questioni etiche, religiose e, soprattutto, con le risorse disponibili in rapporto alle esigenze e ai costi di produzione della casa. Ora, nella formazione del prezzo, senza dubbio nel breve periodo è determinante l’impatto della domanda; ma certamente in termini generali gioca un ruolo importante la capacità delle imprese di adeguare o non adeguare l’offerta; di introdurre o non introdurre in misura rilevante innovazioni tecnologiche, tali da consentire incrementi di produttività e quindi riduzione di costi che si possono anche tradurre in riduzioni di prezzi. In modo peculiare nella produzione di abitazioni gioca un ruolo fondamentale il prezzo del terreno. Il suolo edificabile è costoso perché è scarso, ed è scarso perché le istituzioni pubbliche che governano il territorio limitano le aree disponibili per l’espansione residenziale. Nostra tesi fondamentale è che – quanto meno per soddisfare il fabbisogno arretrato – da parte delle amministrazioni pubbliche si debbano mettere maggiori aree edificabili a disposizione, e incentivare all’operatività quei soggetti – cooperative, associazioni not-for-profit e anche privati – che hanno esperienza e quindi capacità e intenzione di operare per realizzare abitazioni in proprietà o in affitto per soggetti economicamente incapaci di ottenere l’alloggio attraverso il mercato così come è oggi.

Accanto a quella indicata sopra, va considerata la condizione di persone che hanno bisogno di tutto, non solo di un alloggio decente. Tra queste, a porre problemi particolari, gli immigrati senza lavoro, che magari non avrebbero diritto di rimanere nel paese, ma sono presenti, a centinaia di migliaia; che presumibilmente aumenteranno nel tempo. Non è infatti da escludere che quanto avvenuto in altre città del mondo di diecine di milioni di abitanti non possa verificarsi anche in Italia, anche in Europa. Dove si ritiene – o forse si vuole ritenere – che siccome la popolazione invecchia e le nascite diminuiscono, mentre altri continenti esplodono in termini demografici, certi spazi di opulenza possano durare in eterno. Quello che personalmente ritengo, in modo poco convenzionale e certo poco facilmente accoglibile in una prospettiva non di breve periodo, riguarda il modo di realizzare abitazioni in quantità significative, affinché queste vengano a costare di meno e siano davvero disponibili per chi ne ha bisogno. E questo anche avendo in mente una situazione economicamente dinamica, che consenta una forte mobilità sociale ma anche territoriale per studio e lavoro. Questo implica innovazioni tecnologiche, organizzative, gestionali, con un’azione pubblica, e anche – forse soprattutto – del privato for profit e not for profit. E in questa prospettiva penso che la difficoltà maggiore sia individuabile nella resistenza alla riduzione delle regole pubbliche quanto alla modalità di realizzazione degli edifici, sia nella disponibilità delle aree fabbricabili.

Qualche anno fa, nel 2007, avevo scritto un libro – I luoghi dell'accoglienza. Per un nuovo welfare dell'alloggio (Osservatorio regionale sulla condizione abitativa, 2007) – e avevo interpellato tutti gli operatori del settore. A quell’epoca mi sembrava possibile trovare la soluzione di una casa per tutti. La ragione fondamentale era che in quel periodo non lontano sostanzialmente quasi tutti, compresi gli immigrati e almeno nelle regioni industrialmente più sviluppate, trovavano lavoro. Le fabbriche funzionavano; il reddito per sé e per la famiglia consentiva, se non a tutti a molti, la disponibilità di un alloggio. Il mio sforzo fu quindi di individuare le vie possibili per raggiungere un obiettivo che sembrava a portata di mano, anche se i problemi da affrontare erano di una certa entità anche allora. Poi però – sappiamo – si è abbattuta su tutti noi una grandissima crisi economica, e centinaia di imprese hanno dovuto chiudere. Moltissime persone hanno perso il lavoro e si sono trovate così in povertà. E spesso hanno perso la casa. Mentre tutto questo accadeva, l'immigrazione dai paesi più poveri (o, meglio, dove i popoli vivono in condizioni di povertà) aumentava perché a livello internazionale crescevano le situazioni di crisi e di pericolo per la sopravvivenza dovute a ragioni politiche, economiche, ambientali. Abbiamo così assistito, nelle nostre città, al moltiplicarsi di alloggi popolari occupati, alla creazione di alloggi di fortuna allestiti in fabbriche dismesse, in edifici abbandonati o in spazi pubblici o privati che potessero garantire un minimo di protezione. Ma non ci civiltà. E questo per uomini, donne e bambini. In che prospettiva ci poniamo come società di fronte a una simile realtà? Quale tipo di azione pubblica immaginiamo? Chiudiamo gli occhi? Teorizziamo l’impossibile? È pensabile la realizzazione di case popolari – anche distanti da determinati standard ideali – per tutte queste famiglie o singole persone? Provo ad avanzare una proposta, anche se socialmente e politicamente rischiosa, sulla base dell’esperienza del Sudafrica. Il punto più problematico – che per molti sarà sconcertante – è se sia possibile e magari necessario pensare nell’ambito di piani urbanistici per lo sviluppo delle grandi città, ad ‘aree di disordine creativo’. Vale a dire aree per la realizzazione di informal settlements. Per intendersi, come quelli realizzati a Città del Capo o in diverse altre metropoli del mondo

È molto ben ordinato il territorio da Cape Town all’International Airport, e si può vedere molto bene il tentativo che si sta compiendo per rottamare le baracche degli informal settlements costruendo moltissime case a basso costo. Questo sforzo del governo del Sudafrica mi pare altamente apprezzabile ed è volto a creare una nuova realtà urbana. In un certo senso è l’avvio della realizzazione di un’utopia, l’idea di rompere un circolo vizioso della povertà umiliata del popolo nero nella sua terra. In questa Nazione Arcobaleno sono presenti al contempo parti di città di altissimo livello qualitativo e anche quartieri di normale qualità come quelli delle nostre città; ma per milioni di persone tutte di colore, l’abitare coincide ancora con gli informal settlements. Va inoltre sottolineato che per queste persone che vivono in quelle parti di città, molti, la maggior parte, lavora nei settori pubblici e privati; e in queste shanty-towns lo Stato ha portato l’energia elettrica, l’illuminazione, l’acqua potabile, servizi igienici, e anche le scuole. E ora sta attuando, seppur lentamente, programmi di sostituzione o miglioramento dell'edilizia. La mia idea – semplice e drammatica al contempo – è che anche in Italia si accetti la creazione di informal settlements, progettandoli in modo da realizzare una innovativa realtà urbana anche puntando sull’autocostruzione. Queste non sarebbero case, ma poco più che baracche, è evidente. Tuttavia, sarebbero, almeno provvisoriamente e almeno finché non si riuscirà a sciogliere questo nodo cruciale per la nostra società, un riparo dotato dei servizi essenziali. C’è modo e modo anche di costruire 'baracche' (perdonatemi il termine che non vuole essere dispregiativo); c’è modo e modo di disporle sul suolo; per far sì che questi settlements abbiano una forma minimamente organizzata, quanto meno nei suoi elementi essenziali, e siano migliori delle baraccopoli create senza regola alcuna; e divengano una realtà dove, come in Sudafrica, si possano incontrare comunità di immigrati consapevoli e anche, per certi versi, orgogliosi del loro stile di vita. Certo, il rischio di creare dei ghetti è forte; il pericolo che le cose poi nel tempo non mutino in meglio, anche. Ma che alternative abbiamo?

Per concludere: Cape Town non è il Paradiso Terrestre; ma se vogliamo guardare in faccia la realtà dobbiamo essere consapevoli che le persone in gravissime difficoltà, soprattutto per effetto della crisi ambientale e delle conseguenti ondate immigratorie, aumenteranno a dismisura nelle città italiane ed europee. Se accettassimo l’idea che potrebbero coesistere aree residenziali di bassa, media, alta qualità e, con queste e in forma il più possibile provvisoria, anche informal settlements, forse avremo almeno cominciato ad affrontare il problema. La sfida sarà di realizzarli con un livello civile e organizzativo dignitoso, in base a una essenziale pianificazione urbanistica e in vista di un futuro che, si spera, possa essere migliore per tutti.

Andrea Villani

 

 

 

N.d.A. – Per un approfondimento su questi temi, poiché non è certamente possibile in poche pagine toccare in modo adeguato tutte le questioni aperte, mi permetto di rinviare ai miei scritti - recenti e meno recenti - che ritengo utili per comprendere l’evoluzione delle questioni concrete e del dibattito teorico e politico sulla questione casa, soprattutto nel nostro paese. Dunque, in part., si vedano i miei:
- Migrazioni interne e insediamento urbano. L’evoluzione delle ‘coree’ del comprensorio milanese dal 1950 a oggi, ‘Aggiornamenti sociali’, luglio-agosto 1964, pp. 529 – 548;
- Edilizia popolare e congiuntura, "Edilizia popolare", n.62, 1965, pp.19-26;
- Standard urbanistici e pianificazione locale, "Edilizia popolare", n.72, 1966, pp. 3-7;
- Verso una regolamentazione del canone dei fitti, "Città e Società", vol.1, n.1, gennaio-febbraio 1966, pp. 14-33;
- Politiche e strumenti per le scelte sul territorio, "Città e Società", vol.1, n.3, maggio-giugno 1966, pp.43-49;
- Il problema dell'abitazione e degli affitti. Linee teoriche e proposte per una politica con particolare riferimento alla situazione italiana, "Città e Società", vol.2, n.1, gennaio-febbraio 1967, pp. 3-43;
- La politica dell'abitazione, Franco Angeli, Milano 1970. Un volume di pp. 304;
- Culture, Politics, and Urban Sprawl, Paper presented at ‘Conference on Comparative Studies of European Planning, Coventry 5th – 8th June 1973;
- Nuove strategie per l'abitare, "Vita e Pensiero", n.2, 1973, pp.158-184;
- Dopo i pianificatori, "Città e Società", vol.8, n.4, luglio-agosto 1973, pp.10-25;
- Tesi per una politica della casa in Italia, "Città e Società", vol.8, n.5, settembre-ottobre 1973, pp. 66-97;
- Tesi sulla casa e la città, Franco Angeli, Milano 1974, Un volume di pp. 435;
- La maison et la ville. Eléments pour une stratégie des choix, "Aménagement du territoire et développement régional", vol. VII, Grenoble 1974;
- Aspetti congiunturali e fenomeni strutturali dell'attività edilizia in Italia, "Città e Società", n.3, maggio-giugno 1974, pp. 33-69;
- Il ruolo di una città metropolitana. Milano nella proposta di piano regolatore del 1975, "Edilizia Popolare", n.125, luglio-agosto 1975, pp. 29-37;
- Speranza progettuale e disordine creativo, "Edilizia Popolare", n. 126, settembre-ottobre 1975;
- Leggi urbanistiche e riforme nel regime d'uso dei suoli, "Edilizia popolare", vol.22, n.127, novembre-dicembre 1975, pp. 2-8;
- Piano e razionalità urbana, Celuc Libri, Milano 1975. Un volume di pp. 433;
- L'urbanistica della partecipazione, "Vita e Pensiero", n.1, 1977, pp. 51-71;
- Realtà e miti della progettazione, Franco Angeli, Milano 1978. Un volume di pp. 200;
- La politica dei quartieri nella "città dell'imperfezione", "Città e Società", n.2, aprile-maggio 1982, pp. 99-160;
- Gouvernement local et politiques urbaines en Italie, in S. BIAREZ, J - Y NEVERS (éds.), Gouvernement local et politiques urbaines, Actes du colloque international, Grenoble, 2-3 février 1993, CERAT, Grenoble 1993, pp. 243-256;
- La Città del Buongoverno, ISU Università Cattolica, Milano 2003. Un volume di pp. 345;
- La casa nella città del mercato, in G. Mazzocchi, A. Villani (a cura di), Sulla città, oggi. La questione casa, Franco Angeli, Milano 2003, pp. 220-278;
- Impegno civile e politica per la città, in G. Mazzocchi, A. Villani (a cura di), Sulla città oggi. La periferia metropolitana. Nodi e risposte, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 41-60;
- L’edilizia residenziale pubblica in Italia e in Europa, in R. Pugliese (a cura di), La casa sociale. Dalla legge Luzzatti alle nuove politiche per la casa in Lombardia, Unicopli, Milano 2005, pp. 63-82;
- Alloggio e marginalità urbane, in V. Guerrieri, A. Villani, Sulla città, oggi. Per una nuova politica della asa, F. Angeli, Milano 2006, pp.139-333;
- Recensione a J.-M. Stébé, Le logement social en France, Presse Universitaire de France, Paris 2002, “Rivista Internazionale di Scienze Sociali”, vol. CXIV, luglio – settembre 2006, pp. 491 – 501;
- Recensione a A. Tosi, Case, quartieri, abitanti, politiche, CLUP, Milano 2004, “Rivista Internazionale di Scienze Sociali”, vol. CXIV, ottobre-dicembre 2006, pp. 616-621;
- I luoghi dell’accoglienza - Per un nuovo Welfare dell’alloggio, Osservatorio Regionale sulla Condizione abitativa. Studi e Ricerche, Milano 2007. Un volume di pp. 120;
- Politiche urbanistiche e politiche per la casa, in E. Zucchetti (a cura di), Milano 2007 - Rapporto sulla città, Fondazione Ambrosianeum, Franco F. Angeli, Milano 2007, pp. 63-84;
- Politiche dell’abitazione nelle politiche della città. Disegnare la casa pubblica, ‘i Martedì’, vol. 32, n. 1, gennaio – febbraio 2008, pp.10 – 15.

 

 

N.d.C. - Laureato in Scienze economiche all'Università Cattolica di Milano, in Filosofia all'Università Statale di Milano e in Architettura al Politecnico di Torino, Andrea Villani ha insegnato Economia urbana e Economia politica all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e ha svolto attività di ricerca presso l'Università di York, la Research School of Social Sciences della Australian National University di Canberra, il Public Choice Center della George Mason University di Fairfax (Virginia), il Department of Economics dell'Università di Toronto (Ontario), il Department of Economics dell'Università di Tucson (Arizona).

Ha diretto il Centro Studi Piano Intercomunale Milanese (PIM), i periodici Città e Società e Quaderni Bianchi ed è stato condirettore di Edilizia Popolare. È stato membro della Giunta esecutiva della XVI Triennale di Milano e attualmente è co-coordinatore delle attività della Urban and Territorial Research Agency (ULTRA) nel Dipartimento di Sociologia dell'Università Cattolica.

Tra i suoi libri editi da ISU Università Cattolica: La pianificazione della città e del territorio (1986); La pianificazione urbanistica nella società liberale (1993); La gestione del territorio, gli attori, le regole (2002); Scelte per la città. La politica urbanistica (2002); La decisione di Ulisse (2000); La città del buongoverno (2003). Per i tipi di FrancoAngeli, nel 2018 ha curato, con Enrico Maria Tacchi, Parchi, giardini, riserve naturali.

Per Città Bene Comune ha scritto: Disegnare, prevedere, organizzare le città (28 aprile 2016); Progettare il futuro o gestire gli eventi? (21 luglio 2016); Arte e bellezza delle città: chi decide? (9 dicembre 2016); Pianificazione antifragile, una teoria fragile (10 novembre 2017); L'ardua speranza di una magnificenza civile (15 dicembre 2017); Post-metropoli: quale governo? (20 aprile 2018); Democrazia e ricerca della bellezza (29 novembre 2018); È etico solo ciò che viene dal basso? (28 marzo 2019).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 

 


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07 FEBBRAIO 2020

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

powered by:
DASTU (Facebook) - Dipart. di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020:

P. Pileri, Per fare politica si deve conoscere la natura, commento a: P. Lacorazza, Il miglior attacco è la difesa (People, 2019)

W. Tocci, La complessità dell'urbano (e non solo), commento a: C. S. Bertuglia, F. Vaio, Il fenomeno urbano e la complessità (Bollati Boringhieri, 2019)

S. Brenna, La scomparsa della questione urbanistica, commento a: M. Achilli, L'urbanista socialista (Marsilio, 2018)

L. Decandia, Saper guardare il buio, commento a: A. De Rossi (a cura di), Riabitare l'Italia (Donzelli 2018)

 

 

 

 

 

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