Roberto Leggero  
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O SI TIENE INSIEME TUTTO, O TUTTO VA PERDUTO


Commento al libro di Massimo Venturi Ferriolo



Roberto Leggero


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Spero che mi scuserete se comincerò scrivendo di cose che sembrano molto lontane dall’argomento del volume di Massimo Venturi Ferriolo – Oltre il giardino. Filosofia di paesaggio (Einaudi, 2019) – ma, come accade quando ci si immerge nell’opera di un autore, nascono molte immagini e molte suggestioni. Fin dal titolo, il volume dimostra una chiara impostazione di filosofia politica e fornisce una proposta politica. Dirò di più: mi pare che Venturi Ferriolo abbia voluto scrivere una sorta di manuale ad uso dei politici che spieghi in quale direzione essi dovrebbero muoversi. Almeno questa è l’impressione che ne ho tratto, probabilmente condizionata dalla mia personale esperienza maturata in quell’ambito. L'autore ha infatti scelto di richiamare nel titolo il famoso film diretto da Hal Ashby (Oltre il giardino, 1979), nel quale la figura del protagonista, per l’appunto un giardiniere, evoca non solo la dimensione positiva della leggerezza, ma anche l’incapacità della politica di leggere la realtà in modo diverso rispetto al cinismo delle scelte convenienti che però impediscono di vedere la verità.

Uno degli aspetti del libro che mi hanno più colpito è la riconcettualizzazione dello spazio di vita. Non so quanti di coloro che stanno leggendo queste note si siano trovati in un teatro di guerra. La guerra produce una immediata riconcettualizzazione dello spazio, una risignificazione dei confini determinata dalla perdita di porzioni di territorio (anche per questo parlare di confini in un certo modo prepara la guerra). In una guerra di posizione, com’è stata, ad esempio, la guerra nella ex-Jugoslavia, il fatto che vi fossero città sotto assedio (Sarajevo, Mostar) e i cecchini fossero appostati sulle colline che le circondavano, implicava che i luoghi perdessero la loro fisionomia determinando nuove geografie del pericolo o della salvezza. La perdita della sicurezza negli spazi che ci sono familiari è un elemento del vivere contemporaneo che si può parzialmente e meno drammaticamente sperimentare anche in contesti non bellici e che spinge a riconsiderare e riconcettualizzare lo spazio. Pensate a quanto la politica ha utilizzato il concetto di “insicurezza in casa propria”, associando a essa sia l’idea di “abitazione” sia quella di “nazione”, e quanto questo abbia inciso sulla percezione della vita associata e degli spazi di vita.

Anche quando opera in modo più civile, tuttavia, la politica radicalizza e riconcettualizza lo spazio. Le cartine geografiche con i colori rosso e blu che i giornali utilizzano per spiegarci in sintesi come sono andate le elezioni, sono delle riconcettualizzazioni degli spazi. In effetti la politica ricade – se posso dire così – sullo spazio vissuto, coltivato, lavorato, abitato dagli esseri umani ovvero, come credo direbbe Venturi Ferriolo, sui "luoghi concreti di vita" (p. 11). Il mondo coincide con i luoghi concreti di vita. È questa una definizione che mi piace molto perché mi rammenta alcune espressioni usate da Livio Sichirollo nel suo insegnamento milanese: espressioni che, a loro volta, richiamavano concetti di Antonio Banfi. Ma che cosa sono i luoghi concreti di vita? Come storico trovo molto interessante che si sia sviluppato un filone di ricerca ampio, legato al riconoscimento degli spazi boschivi alpini, dei boschi alpini come spazi storici, che vanno investigati con le tecniche dell’archeologia e della storia nel tentativo di ricostruire e documentare i passaggi legati all’utilizzo delle risorse boschive e delle possibilità che i boschi conferivano nel passato agli abitanti dei comuni rurali.

Purtroppo è difficile spiegare questo concetto, e cioè quanto il bosco possa essere uno spazio storico, e in genere esso viene inteso – quando va bene – soltanto come uno spazio naturale, quando va male come spazio vuoto che può essere sfruttato (e non utilizzato). Spesso la cattiva politica si inserisce proprio a questo punto, pensando di ricavare un immediato dividendo politico dallo sfruttamento degli spazi vuoti, laddove, invece, la pratica del “giardiniere informato e diffuso” della quale ci parla Venturi Ferriolo, legge il paesaggio e il territorio in modo completamente diverso e con una profondità che considera e ricapitola le vicende di quei luoghi. La riconcettualizzazione dello spazio (naturale) nella prospettiva che il libro indica significa, innanzitutto, abbandonare la logica cartesiana e riappropriarsi del significato profondo della realtà. Della consapevolezza della sua unità. Unità tra le forme viventi e le specie, al di là della loro diversità e anzi, proprio attraverso di essa.

Dal mio punto di vista anche l’idea che l’essere umano – come scrive Venturi Ferriolo – non abbia “ancora imparato ad abitare il mondo” (p. 43) è molto interessante (e certamente interesserebbe i miei colleghi all’Accademia di architettura). Che cosa significa? Significa che non è ancora chiaro all’umanità (o forse non lo è più) che l’unica possibilità per continuare a esistere impone l’abbandono di una prospettiva “cartesiana” di oggettivizzazione della natura e di atteggiamenti di dominio sulle realtà naturali. Ovviamente, il fatto che, la relazione tra possibilità di sopravvivenza degli insediamenti e rinnovabilità delle risorse fosse assai più evidente una volta di quanto non sia oggi non implica che, anche nel passato, non si siano presentate forme di sfruttamento intensivo. Carlo Tosco, per esempio, in un contributo di prossima pubblicazione, cita un documento redatto nel 1206, nel quale un abitante di un comune rurale del Saluzzese, teste in un processo che coinvolgeva l’abbazia di Staffarda, ricordava davanti al giudice come un suo compaesano più anziano l’avesse portato presso la selva di Staffarda e gli avesse detto: vedi questa selva? Quando arriveranno i monaci faranno tagliare tutto questo bosco, e con il bosco se ne andranno i maiali selvatici, i cinghiali, e i cervi che noi cacciamo, perché quella è la loro tana. Puntualmente il bosco venne tagliato e con esso scomparvero per le popolazioni locali le possibilità di utilizzo legate alla caccia, al pascolo, alla raccolta, alla coltivazione (Carlo Tosco, Paesaggi cistercensi: armonie e conflitti, in corso di stampa). Un’azione di questo genere ha le caratteristiche della speculazione e dello sfruttamento e se è vero che in tal modo si predisponevano nuove coltivazioni, ciò non significa che non potessero esistere altre forme di utilizzo delle risorse, come eccezionalmente attestato dal ricordo del testimone citato da Tosco.

È tipico degli storici, di fronte a qualcosa di nuovo che viene edificato chiedersi non solo e non tanto “cosa si sta costruendo” ma piuttosto “che cosa stiamo distruggendo”. Ho ascoltato recentemente l’architetto Franz Oswald descrivere le città contemporanee come “sistemi di lacune”, perché esse si presentano come insiemi di pezzi cuciti tra loro. Tuttavia – proseguiva Oswald – la visione di che cosa siano o potrebbero essere le città cambierebbe se si utilizzasse una metafora basata sul bosco. Le città allora diventerebbero “sistemi di radure” con tutto quello che questo cambiamento semantico comporta (1). Si potrebbe aggiungere che ogni lacuna o ogni radura dovrebbe essere trattata e trasformata in un giardino. Questo non implicherebbe necessariamente che lo sia davvero ma che si dovrebbe avere per essa la stessa attenzione che il giardiniere riserva al suo giardino.

Devo dire che la prima volta che mi è capitato tra le mani il volume di Massimo Venturi Ferriolo ho pensato che non ero affatto d’accordo con la frase riportata in copertina: “Trasformare il mondo in un giardino e il giardino in un mondo”. A mia discolpa posso affermare che ero impegnato a organizzare un convegno dedicato a uno dei volumi di Bruno Taut, Alpine Architektur (2) e mi era sembrato che Venturi Ferriolo con tale affermazione stesse sostenendo la completa antropizzazione del mondo naturale. Chi conosce Taut e i suoi schizzi visionari di palazzi di cristallo costruiti sulle vette delle Alpi potrà capire perché, istintivamente, sia caduto in questo equivoco. Del resto, che il giardino, tra XVI e XVIII secolo sia stato instrumentum regni è cosa nota e secondo almeno cinque prospettive diverse: 1) dimostrava che il suo proprietario aveva conoscenze e contatti, sparsi in tutto il mondo, da cui riceveva le piante rare 2) dimostrava che era capace di ricostruire il mondo non solo per quello che esso era ma anche sulla base del proprio volere 3) dominava questo mondo in miniatura attraverso la conoscenza necessaria a farlo prosperare 4) ne traeva omaggi preziosi da inviare ad amici, alleati e patroni 5) usava il giardino per indurre stupore e ammirazione negli ambasciatori suoi ospiti (3). Era un giardino, se posso esprimermi in modo ossimorico, illimitato. Si potrebbe pensare, stante la frase del volume di Venturi Ferriolo che ho appena citato, che anch’egli pensi a un giardino illimitato ma non è così.

Uno dei temi e, forse, il tema fondamentale del libro è invece quello del limite, inteso in due sensi, secondo quello che potremmo chiamare “il paradosso del giardino”: da un lato il giardino conserva (ed è conservato perché), dall’altro produce cose nuove. Vorrei dire che, in ciò il giardino spiega e legittima le due posizioni politiche dei conservatori e dei progressisti. Queste due attitudini profondamente connesse con l’esplorazione e la sopravvivenza sono entrambe espressione dell’essere umano. Vale la pena di notare, però, che nel volume il tema del perimetrare non ha a che fare con l’esclusione (infatti il mondo è un giardino) ma con la comprensione, rispetto alla frammentazione ovvero all’incomprensibilità degli spazi – naturali o no – sui quali l’essere umano interviene incurante, cioè senza cura. In tal senso, si comprende come Venturi Ferriolo possa scrivere che “il giardino è una forma di conoscenza” (p. 69). Non si riferisce all’arte del giardinaggio, ma all’atteggiamento del giardiniere di fronte al giardino: conoscenza, attenzione, cura, volontà di far prosperare e di far crescere. Il giardiniere, direbbe Alessandro Bergonzoni, non è un consumatore. È un 'aggiungitore', qualcuno che aggiunge. O, come si diceva poco fa, è un ricucitore di lacerazioni e di relazioni. E, proprio per questa ragione, è conscio dell’importanza del limite. Il giardino, dopotutto, incomincia con l’azione del recingere come atto di com-prensione, e così il giardino chiarisce sempre di essere innanzitutto limitato. E ciò è vero anche se il giardino è il mondo. Anzi, è tanto più vero quando il giardino è il mondo. Perché in questo caso nessuna altra risorsa può essere aggiunta. E infatti, il mito – scrive Venturi Ferriolo – sottoponeva l’uomo alla misura (p. 62).

Perciò, ritorniamo all’inizio. Come si diceva, questo libro propone una precisa visione politica e si presenta come un manuale di politica nel quale spiccano, secondo me, nove concetti chiave:
1. Speranza. È inutile che mi soffermi sull’importanza di questa parola in un contesto politico.
2. Relazione, come fondamento dell’azione (passim). In termini politici questo significa innanzitutto rispetto della identità altrui.
3. Responsabilità, nei confronti del mondo-natura unitario (p. 17). Tradurrei questa parola chiave con l’idea della serietà dell’azione politica.
4. Interdipendenza interspecie (p. 61). Il fatto che tutte le specie animali e vegetali sono profondamente e inevitabilmente interconnesse e che dunque c’è una complessità da considerare quando si mette a rischio la sopravvivenza anche solo di una tra esse.
5. Solidarismo comunitario (p. 54). E tendenzialmente universale perché se il mondo intero è giardino i termini comunità e universalità non sono in contraddizione.
6. Utopia dell’istruzione, la quale conduce alla padronanza democratica delle relazioni tra comunità umane, animali, mondo vegetale e mondo fisico (p. 19). E che io interpreto anche come l’idea che la ricchezza non abbia niente a che fare con i soldi che abbiamo in tasca.
7. Ecologia costituzionale (p. 61) con riferimento soprattutto alle costituzioni dell’Ecuador e della Bolivia (p. 54) e al concetto indigeno di Pachamama, la madre terra che non condanna la caccia e la pesca ma l’attività predatoria (p. 54).
8. Progresso (e non sviluppo) sostenibile (p. 49), che forse si può sintetizzare come prevalenza del qualitativo sul quantitativo.
9. Ecosocialismo altermondista (p. 19) che è, naturalmente, il concetto più chiaramente connesso con la politica che voglia prospettare un altro modo di vivere i rapporti tra esseri umani e tra mondo umano e mondo naturale in quanto non esiste differenza.

Tutte queste espressioni inducono nel lettore l’idea della necessità di superare l’ego-azione (non so se a qualcuno vengano in mente esempi nel campo della politica) a favore dell’eco-azione (p. 112), cioè di un’azione collettiva nella sua genesi ma anche nei suoi obiettivi. Un’azione ricucitrice. Scrive Venturi Ferriolo: “Pensare l’unità significa includere ogni elemento in un insieme complessivo indiviso [corsivo mio] con un nuovo atteggiamento mentale nei confronti delle cose e degli altri, con uno spirito aperto al mondo” (p. 113). Se questo non è un programma politico non so quale possa esserlo.

Mi ha colpito molto un’immagine presente nel volume e contenuta nell’ultimo capitolo, intitolato Un’etica per domani. Qui Venturi Ferriolo ricorda come i presidenti della Corea del Sud e del Nord, incontrandosi nel 2018 e ponendo formalmente fine alla guerra tra i due paesi, abbiano messo a dimora un pino, completandone la ricollocazione con alcune palate di terra e irrigandolo. Una pietra collocata presso il pino ricorda – assieme ai nomi dei due presidenti – che in quel luogo sono state piantate la pace e la prosperità (p. 117). La scelta della simbologia è singolare e interessante. Si tratta di un atto dai molteplici significati che Venturi Ferriolo presenta e spiega al lettore ma, senz’altro, l’atto del piantare è anche un indicatore della precarietà dei processi simboleggiati, della delicatezza e delle cure che essi richiedono per poter prosperare.

Mi avvio a concludere ma vorrei restare su questo tema dei due politici-giardinieri che mettono a dimora un albero. Qualche tempo fa, parlavo con un collega dell’elezione del sindaco di Mendrisio, dove ha sede l’Accademia di architettura dell’Università della Svizzera italiana per la quale lavoro. Dopo avermi spiegato le caratteristiche dei due candidati – uno più giovane e meno conosciuto, l’altro più anziano e di grande esperienza – e i loro programmi, ha concluso dicendo: “del resto, cosa vuoi, alla fine uno dei due sarà sindaco… e l’altro vicesindaco”. È un esempio della politica di concordanza, uno strumento della democrazia svizzera nato tra gli anni Venti e Quaranta. Nel momento di massima divisione del mondo, la politica di concordanza ha costituito uno strumento per mantenere l’unità del Paese. Nella sua espressione istituzionalmente più alta, essa coincide con la ripartizione proporzionale dei seggi di governo, in base alla forza elettorale dei vari partiti.

Questo accade in Svizzera, ma vorrei illustrare un altro aspetto della vita sociale di questa nazione per comprendere bene il senso di questa prospettiva che mi pare si sposi con i temi del volume di Venturi Ferriolo. In Svizzera si pratica lo Schwingen o “lotta svizzera”, nella quale due atleti si affrontano cercando di bloccare con le spalle a terra l’avversario. La lotta si svolge su un capo circolare di dodici metri ricoperto di segatura. È chiaro, dunque, che lo sconfitto si ritrova la schiena ricoperta di segatura. È il segno visibile della sua condizione. Bene, le regole dello Schwinghen (art. 8 del regolamento) chiariscono che il vincitore debba ripulire la schiena dello sconfitto con qualche rapida manata. Che cosa significa? Che l’unico titolato a farlo, il vincitore, rimette in gioco il suo avversario togliendogli di dosso il segno stesso della sconfitta. Questo significa coltivare una relazione di riconoscimento e operare una ricucitura di ciò che potrebbe essersi strappato. Lo Schwinghen, a norma di regolamento, non implica né l’ “annientamento” dell’avversario né la sua umiliazione, e non è un caso che tale disciplina sportiva venne inserita come "sport nazionale" nel programma della festa federale di ginnastica (Losanna) nel 1855 quando la Svizzera, come insieme di cantoni più o meno grandi e popolosi, stava cercando di dare di sé una definizione più unitaria in termini nazionali, e di superare la sua condizione di insieme di stati sovrani uniti da patti e trattati. Come si ricollega questo al discorso di Venturi Ferriolo? A mio modo di vedere, il patto sociale svizzero tiene proprio perché esso cerca di non escludere nessuno dal punto di vista della partecipazione e delle responsabilità. Ora, il discorso sarebbe lungo e complesso – neanche la Svizzera è il giardino dell’Eden – e non abbiamo la possibilità di farlo ma, per restare al libro, mi pare che una delle linee prospettiche fondamentali di Venturi Ferriolo sia quella per la quale o si tiene insieme tutto (l’unità del mondo-giardino) o tutto va perduto.

Ho tralasciato moltissimi altri aspetti del volume che non mi sentivo di trattare, soprattutto laddove si parla di romanticismo e della sua carica spirituale. La mia dimensione spirituale è praticamente assente. Più che “spirituale” sono “terreno” e perciò, come direbbe Alessandro Bergonzoni, mi devo ancora coltivare, e non solo da questo punto di vista.

Roberto Leggero

 

 

 

Note
1) Franz Oswald, Fabbricare e immaginarsi la città. Nuova Lugano – caso esemplare d’oggi, Tempo e territorio, un'iniziazione - Giornata di studio – Mendrisio, martedì 22 ottobre 2019).
2) (Re)building the Alps? 100 years from the publication of "Alpine Architektur" by Bruno Taut, 7-8 November 2019, Mendrisio
3) Alessandro Pisoni, La politica in giardino. I ‘luoghi fioriti’ nella diplomazia del Seicento milanese, in Salus in Horto, convegno di studi 22-23 marzo 2018, Mendrisio-Novara

 

N.d.C. Roberto Leggero insegna all'Accademia di architettura di Mendrisio. Laureato in Filosofia all’Università degli Studi di Milano, dottore di ricerca in Storia medievale (Padova), ha collaborato con la cattedra di Storia della chiesa medievale e dei movimenti ereticali dell’Università degli Studi di Milano. È membro della Commissione scientifica dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società contemporanea Pietro Fornara di Novara e svolge attività di ricerca presso il LabiSAlp dell’Accademia di architettura occupandosi di storia medievale, delle Alpi, della città e di beni comuni.

Tra i suoi libri: con Arianna Brandolini e Massimo Debernardi, L'età antica e medievale (Laterza, 2005; 2007); con Arianna Brandolini e Massimo Debernardi, L' età moderna (Laterza, 2005; 2008); con Arianna Brandolini, Massimo Debernardi e Valentina Montanari, L'età contemporanea (Laterza, 2005); Dando eis locum idoneum. Identità politica delle comunità rurali del Novarese in età medievale (Lampi di stampa, 2008); con Mirella Montanari, San Colombano al Lambro e il suo colle. Dalla signoria viscontea al dominio sforzesco, 2009; (a cura di), Montagne, comunità e lavoro tra 14. e 18. secolo (Mendrisio Academy Press, 2015); (a cura di), Lavoro e impresa nelle società preindustriali (Mendrisio Academy press, 2017); Domatori di prìncipi e altre note di storia svizzera (secoli 12.-16.) (Forum, 2018).

Sul libro oggetto di questo commento, v. anche: Carlo Tosco, Il giardino tra cultura, etica ed estetica (1 luglio 2019)

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.


© RIPRODUZIONE RISERVATA

13 MARZO 2020

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

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L. Ciacci, Pianificare e amare una città, fino alla gelosia, commento a: L. Mingardi, Sono geloso di questa città, (Quodlibet, 2018)

L. Zevi, Forza Davide! Contro i Golia della catastrofe, commento a: R. Pavia, Tra suolo e clima (Donzelli, 2019)

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M. Del Fabbro, La casa tra diritto universale e emancipazione, commento a: A. Tosi, Le case dei poveri (Mimesis, 2017)

A. Villani, La questione della casa, oggi, commento a: L. Fregolent, R. Torri (a cura di), L'Italia senza casa (FrancoAngeli, 2018)

P. Pileri, Per fare politica si deve conoscere la natura, commento a: P. Lacorazza, Il miglior attacco è la difesa (People, 2019)

W. Tocci, La complessità dell'urbano (e non solo), commento a: C. S. Bertuglia, F. Vaio, Il fenomeno urbano e la complessità (Bollati Boringhieri, 2019)

S. Brenna, La scomparsa della questione urbanistica, commento a: M. Achilli, L'urbanista socialista (Marsilio, 2018)

L. Decandia, Saper guardare il buio, commento a: A. De Rossi (a cura di), Riabitare l'Italia (Donzelli 2018)

 

 

 

 

 

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