Francesco Erbani  
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CASA E URBANITÀ, ELEMENTI DEL DIRITTO ALLA CITTÀ


Commento alla Carta dell'habitat di Giancarlo Consonni



Francesco Erbani


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“Ogni nuova casa, ogni nuovo edificio contribuisce alla costruzione o alla distruzione della città”. È qui uno dei passaggi chiave della Carta dell’habitat (La Vita Felice, 2019) che Giancarlo Consonni ha redatto su sollecitazione di Confcooperative e che si propone come un decalogo destinato a responsabilizzare diversi soggetti, pubblici e privati, professionali e politici, coinvolti nell’atto di allestire i luoghi dell’abitare, cioè le case e i contesti in cui esse si trovano.

L’intenzione di fondo della Carta non è analitica e la scrittura, dunque, non è saggistica. La Carta tende invece a fissare una serie di principi che debbono guidare l’azione di chi interviene nell’opera di trasformazione di un territorio. Di qui la scelta di uno stile che si fa forza della scrittura saggistica, ed è dunque puntuale e argomentata, controllata e senza concessioni enfatiche, ma a questa aggiunge lo stimolo ad agire.

Il volume in cui compare la Carta contiene anche una presentazione di Alessandro Maggioni, presidente di Confcooperative Habitat, e un’introduzione dello stesso Consonni che traccia una breve storia di come il diritto alla casa debba essere coniugato (e non sempre è accaduto) con il diritto alla città. Occorre dunque battersi perché sia garantito a tutti di avere una casa, come prescrive anche la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), che assimila questo ad altri diritti - alla salute, alle cure mediche, alla sicurezza in caso di disoccupazione o di invalidità…. Ma avere una casa è necessario, però non è sufficiente, perché una casa deve essere parte di un contesto (l’umanista Consonni segnala la bellezza e la congruità degli etimi latini, in questo caso di cum-texere, tessere insieme).

La casa non può essere concepita come una monade, autosufficiente e chiusa in sé stessa. Torna alla memoria l’acronimo scelto dalla coppia Berlusconi-Bertolaso dopo il terremoto dell’Aquila del 2009: il progetto C.a.s.e. stava per Complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili, utilizzava aggettivi alla moda e vuoti di senso, ed evocava la casa come simbolo suggestivo, contrapposto alle macerie e soprattutto nella sua dimensione privatistica, proprietaria, da “padroni in casa propria”, richiamando l’epica imprenditoriale del ‘cavaliere’, il Piano Casa e l’abolizione dell’Ici sulla prima casa, e realizzando, però, contesti fra i più inurbani che si siano mai visti, impropriamente definiti new town.

Altrettanto e ancor più esasperatamente inurbani sono i contesti nei quali risaltano le case costruite abusivamente. Vaste porzioni del territorio comunale di Roma (un terzo dell’edificato, stando agli attendibili calcoli di Carlo Cellamare) hanno origine in questa idea della casa e dell’abitare come ossessivamente privatistica, una volta concretizzata la quale diventa secondaria l’esistenza delle condizioni minime di urbanità, dai marciapiedi all’illuminazione, fino alla sicurezza di restare incolumi in caso di piogge intense. Salvo invocarle successivamente, queste condizioni, quasi che la città debba solo subentrare e risarcire un territorio ferito dalle case.

La casa deve invece trovarsi in una relazione stretta con ciò che la circonda, e cioè con un luogo che assicuri spazi dove convivere e dove incontrarsi, servizi cui accedere, da quelli dell’istruzione a quelli della salute, da quelli dello svago a quelli dello sport, insomma un luogo in cui ci si possa sentire sufficientemente gratificati dal punto di vista funzionale e simbolico. Inoltre questa casa deve essere ben collegata con altri luoghi del quartiere o della città, deve trovarsi in una maglia di trasporti che consenta di spostarsi preferibilmente senza macchina, senza troppa fatica e senza perdere troppo tempo.

A queste condizioni l’abitare corrisponde alla convivenza civile, che è l’essenza dell’urbanità. Ma solo a queste condizioni, altrimenti l’abitare viene subordinato a obiettivi di profitto che, se sono ben temperati, possono coesistere con la corretta costruzione della città e della convivenza civile, ma se se ne cercano di esorbitanti, con l’acquiescenza delle amministrazioni pubbliche e la complicità dei progettisti, dalla costruzione si scivola verso la distruzione.

Ed è un panorama di distruzioni quello che si squaderna davanti agli occhi dell’autore. Né il diritto alla casa né il diritto alla città sono assicurati in tanta parte d’Italia. La consapevolezza del fare città, “è oggi sempre più estranea alla cultura di chi decide gli assetti territoriali”, scrive Consonni. L’architettura degli edifici, aggiunge l’urbanista, prevale sul disegno urbano e l’attenzione ai singoli oggetti s’impone sull’interesse che si presta ai luoghi. Fra gli effetti colpisce il proliferare della non-città diffusa - espressione che Consonni predilige rispetto a quella più in voga di città diffusa, che si regge sull’equivoco di una condizione urbana data per acquisita, sebbene distribuita e polverizzata fra villette e centri commerciali.

Accade qualcosa di inurbano anche nella città consolidata, quando si predilige l’architettura come gesto spettacolare e tanto più persuasivo se violentemente sganciato dal contesto o in aperta e sfacciata contraddizione con esso. O quando nei vuoti che si aprono dove un tempo risiedeva un’attività industriale si avviano operazioni immobiliari dettate dalla rendita e che sono indifferenti rispetto ai contesti, che invece manifestano sia bisogni sia aspirazioni che restano senza ascolto.

 

Nell’introduzione Consonni fornisce alcuni riferimenti storici che mostrano come l’urbanità sia il risultato di un confronto che vede agire tendenze contrapposte. Nella Bologna dell’XI secolo si fronteggiano il modello di città turrita, in cui le torri gentilizie sono innalzate con la funzione di proteggere e di offendere, e il modello della strada porticata che, laddove prende il sopravvento, non solo a Bologna e ben oltre l’età medioevale, garantisce un effetto urbano, pur contribuendo all’edificazione della città privata. Un esempio altrettanto calzante è inscritto nell’architettura che si fa urbanistica a Venezia, dove – come documenta Franco Mancuso – non esiste un suolo a prescindere dall’edificio e dove anche il più egoista dei mercanti quando tira su un palazzo crea il campo o il campiello, l’approdo sul canale, realizza un sottoportego e fa omaggio alla città di una facciata che non possiede una funzione portante, ma offre alla città la sua bellezza.

La strada da perseguire è tutt’altra rispetto a quella intrapresa negli ultimi decenni. Occorre, scrive Consonni, “un progetto educativo al vivere civile” adeguato a questi tempi fatti di disuguaglianze crescenti presenti nei divari che storicamente il nostro Paese trascina con sé da secoli, e anche in quelli che si spalancano in una città, fra un quartiere e l’altro, dentro lo stesso quartiere. Senza ricorrere a categorie usurate e ormai poco pertinenti, come la coppia centro-periferia, è necessario riconoscere l’esistenza di una condizione periferica e di una marginalità che gravano su porzioni di città spesso indipendentemente dalla loro distanza da un centro, superando l’equivoco che persiste in tanta parte del discorso pubblico e in particolare nell’informazione, ancora affezionata all’idea che la periferia sia identificabile solo topograficamente. Come pure che le disuguaglianze e la condizione periferica si misurino solo in base al reddito e non anche perché ci sia chi ha più diritto di altri alla città, all’istruzione, a una decente medicina territoriale, a un ambiente sano, al trasporto pubblico.

Le disuguaglianze e la condizione periferica possono trovare un potente acceleratore o, al contrario, una significativa riduzione nel modo in cui sono costruiti gli edifici, nel modo in cui sono disposti fra loro, nell’attenzione e nella cura che si presta agli spazi collettivi e agli spazi pubblici, nel rilievo attribuito alle connessioni con la città nel suo complesso. Da queste articolazioni dell’abitare dipendono fattori decisivi per la qualità del vivere come la coesione sociale e la sicurezza.

Altro punto discriminante fra urbanità e inurbanità è la presenza nei contesti costruiti di qualcosa che è in apparente contrasto con essi, vale a dire il terreno agricolo. Le esperienze in questa direzione vanno diffondendosi ai bordi delle città e, fin dove è possibile, anche dentro le città. Propongono un concetto dell’abitare forte di componenti ecologiche, nutritive, occupazionali e di svago che corrispondono all’idea di un’agricoltura polifunzionale. Il tutto a condizione, sottolinea Consonni, che ci si imponga il divieto di consumare altro suolo agricolo.

 

Due considerazioni in conclusione. La prima rimanda allo “scandalo della speranza” di cui parla nei suoi versi David Maria Turoldo. La Carta dell’habitat, così come formulata da Consonni, mi sembra possa diventare o già sia il riferimento forse anche implicito di gruppi e associazioni che agiscono proprio in quei contesti in cui più marcate sono la condizione periferica e le disuguaglianze. È in questi ambienti dove fioriscono le più interessanti forme di autorganizzazione che è possibile veder maturare un’idea dell’abitare concepita come diritto alla casa e diritto alla città insieme. La pandemia ne ha evidenziato la freschezza intellettuale e l’energia dell’azione. La Carta dell’habitat si propone ad esse come un manifesto, un’utile piattaforma politica e culturale.

La seconda segnala l’operatività d’impresa della Carta, che cammina sulle gambe della cooperazione. Una cooperazione che, scrive Maggioni nella presentazione, deve recuperare le tracce originarie del proprio agire, che è quello, appunto, di fare città e non solo case. Troppo spesso, si può aggiungere, anche la cooperazione si è allineata con il mondo dell’immobiliare, della speculazione e delle grandi opere. Per cui, ammette con onestà Maggioni: “Non solo si sono prodotti in taluni casi edifici di pessima qualità, ma si sono generati anche disastri economico-finanziari, con il risultato di ridurre in brandelli valori e principi guida su cui si era impostata e si era estesa un’azione di grande rilevanza civile”.

Francesco Erbani

 

 

 

N.d.C. - Francesco Erbani, giornalista, ha lavorato per venticinque anni nella redazione culturale de «la Repubblica» e attualmente collabora al sito web di Internazionale occupandosi, in particolare, di paesaggio e patrimonio culturale. Ha vinto il premio Cederna e il premio Bassani.

Tra i suoi ultimi libri: Roma. Il tramonto della città pubblica (Laterza 2013), Pompei, Italia (Feltrinelli 2015) e Non è triste Venezia (Manni 2018); L'Italia che non ci sta. Viaggio in un paese diverso (Einaudi 2019).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.


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15 GENNAIO 2021

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Luca Bottini
Oriana Codispoti
Filippo Maria Giordano
Federica Pieri

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powered by:
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Le conferenze

2017: Salvatore Settis
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2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021:

P. Pileri, Il consumo critico salva territori e paesaggi, commento a, A. di Gennaro, Ultime notizie dalla terra (Ediesse, 2018)

 

 

 

 

 

 

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