Carlo Olmo  
  casa-della-cultura-milano      
   
 

LA DIVERSITÀ COME STATUTO DI UNA SOCIETÀ


Commento al libro di Giuseppina Scavuzzo



Carlo Olmo


altri contributi:



  giuseppe-scavuzzo-parco-guarigione-infinita-architettura-spichiatria.jpg




 

È difficile oggi terminare la lettura di un libro con un autentico senso di colpa e di inadeguatezza. Come fantasmi, appena posato quello di Giuseppina Scavuzzo sulla scrivania – Il parco della guarigione infinita. Un dialogo tra architettura e psichiatria (LetteraVentidue 2020) – escono dagli scaffali più reconditi della biblioteca e si manifestano Goffman, Foucault, Basaglia, Laing. E quindi: Asylums. Le istituzioni totali, Des espaces autres: utopie et hétérotopie, L’istituzione negata, L’io diviso. Letture non solo quasi quotidiane, concause di discussioni infinite, ma origine profonda della riflessione sull’autorità che anima, con declinazioni diverse, tutti gli anni sessanta e settanta. Non si capisce la radice antiautoritaria che percorre tutti i movimenti di contestazione, non solo studentesca, se non si tengono a mente le sfaccettate posizioni che a partire dalla fine degli anni cinquanta incrociano psichiatria, psicanalisi, filosofia e istituzioni. La centralità che ebbero quei testi nelle assemblee studentesche, sindacali, di quartiere è certo dovuta a semplificazioni che ne furono fatte, ma la ragione è molto più profonda. In particolare, Goffman, Foucault e Basaglia toccano il nodo sempre più politico che interessava il cosiddetto ‘sessantotto’, ma anche il legame che esisteva tra progetto (di giustizia sociale, società, architettura), il potere e il suo esercizio.

Lo stesso slittamento da autorità a potere si è prodotto in quegli anni, in forme e modi che andrebbero indagati, partendo dal dibattito sul caso studio dei manicomi grazie all’abuso di un termine chiave, “liberazione”, che forse apparteneva più al mondo delle metafore che su quelle letture si erano costruite che alla realtà. D’altronde altre parole chiave di quelle ”ricezioni” dei testi di Foucault, Goffman e Basaglia si prestavano ad usi allargati: limite, cura, segregazione, normalità, deviazione, la stessa definizione di follia. Dopo la legge Basaglia e la chiusura dei manicomi, quella straordinaria ricchezza, fatta anche di conflitti (l‘antipsichiatria di Cooper e Laing, ad esempio, fu sempre rifiutata da Basaglia) non c’è più stata una stagione capace di connettere politiche, azioni e morfologie come lo furono quei testi e le sperimentazioni condotte a Gorizia, Udine, Trieste dai coniugi Basaglia. Con la chiusura dei manicomi si operò infatti un’autentica rimozione non solo di riflessioni su autorità, potere, limite, cura, fondamentali ancora oggi, ma persino una dispersione dell’universo di esperienze che si sperimentarono in quegli anni. Basterebbe ricordare due strade, utilizzate poi anche per la cura di chi si drogava: il teatro e la narrazione. E con loro ci “si dimenticò” della presa in carico di chi può e deve essere curato.

Il libro di Giuseppina Scavuzzo opera, quasi con un’involontaria crudeltà, usando il device di un dialogo tra architettura e psichiatria: un lavoro di “analisi” perché, se non altro, ci solleva un po’ dal senso di odierna inadeguatezza che pervade soprattutto chi, con quel mondo, ha condiviso la riflessione sull’autorità, il potere, la cura, il limite che dovrebbe segnare con tanta forza la normalità. Il libro, un po’ diseguale nella scrittura, ha una struttura tradizionale (la storia, le teorie, il caso studio) che però in questo caso fanno ancor più risaltare quel che si è perso in questi ultimi trent’anni. Ogni paragrafo acuisce il nostro disagio per aver abbandonato un piano di ricerca e di cura così rilevante. Lo fa, nel capitolo primo, nel passaggio, sia pur succinto, sul significato delle parole pharmakon e pharmakos nell’esercizio che è il vero tema unificante del testo. Lo fa ancor di più riprendendo tre “classici” della riflessione psichiatrica – Morire di classe, I Giardini di Abele, La favola del serpente – non solo per il valore intrinseco dei testi, ma perché questi ci riportano in una discussione, oggi tutta segnata da un nuovo linguistic turn, al valore della metafora e dell’allegoria, al rapporto tra la parola e la cosa. Soprattutto perché riattualizzano testi fondamentali negli anni sessanta come quello di Hans Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia (1960) e, di Enzo Melandri, La linea e il circolo (1968). Metafora e analogia non rappresentano solo l’universo delle immagini che ci accompagnano almeno dalla metà del Settecento nella rappresentazione della “gente sconveniente” (il titolo del primo paragrafo del libro, Un luogo sconveniente per gente sconveniente, è una splendida metafora). Sono strumenti sia della resistenza che il cittadino confinato esercita nei confronti del potere visibile e invisibile che nel manicomio si esercita sia nei confronti di strumenti di cura e dell’importanza crescente nei decenni della narrazione – bisognerebbe saper leggere Acts of Meaning di Jerome Bruner – nella cura.

La decostruzione del dispositivo manicomiale che soprattutto Basaglia esercita porta non solo a rovesciare metafore – la più famosa è quella del cavallo di Troia – ma a ristabilire un rapporto tra oggetti contenuti in sfondi e spazi vuoti e soggetti narranti per di più con diversi dispositivi di narrazione: ed è una rottura non certo ideologica.

Colpisce cinquantuno anni dopo prendere in mano a questo proposito il fotolibro, Morire di classe – il decimo volume della collana viola dell’Einaudi, curata da Baranelli e Ciafaloni – in cui grazie anche a Berengo Gardin, la narrazione avviene per immagini. Sul libro e sulle immagini si aprì una polemica, che l’autrice ricostruisce, ma è la struttura narrativa a colpire, il passaggio dalla segregazione all’espressione di un diritto di cittadinanza, attraverso l’esercizio di una cura di cui ci si riappropria.

Se un’osservazione può essere fatta al lavoro di Giuseppina Scavuzzo è di non aver lavorato abbastanza sulle declinazioni della parola cura, negli anni e nei diversi testi e contesti che tratta. La vicinanza e la differenza nello svolgersi delle teorie di Foucault e Basaglia e negli “esercizi” che Basaglia conduce si gioca proprio sulla cura come teoria che organizza i luoghi della segregazione (quelli che l’autrice chiama Luoghi della follia e monumenti della ragione) così come nel suo continuo rivedere l’esercizio della cura. Sarebbe troppo lungo in uno spazio come questo restituire la complessità, anche epistemica, che sta dietro il revisionismo continuo della cura che Basaglia porta avanti, da Gorizia a Trieste. Anche perché entrerebbe in gioco la lettura contemporanea del sintagma L’istituzione negata, titolo del testo più fortunato dello stesso Basaglia (il 19° testo della collana Nuovo Politecnico di Einaudi). Esiste infatti la fortuna di un libro (e anche di un titolo) e l‘atteggiamento antidogmatico che ha la cura in tutta l’esperienza di psichiatra di Basaglia. I percorsi della ricezione sono spesso fuorvianti, ancor più lo sono rispetto all’esperienza clinica di Basaglia. Forse sarebbe il momento di provare a scindere i due percorsi.

Il libro della Scavuzzo ha continui rinvii e i due ultimi capitoli dedicati al dialogo, come indica il sottotitolo del libro, tra architettura e psichiatria. Sono riferimenti e capitoli ricchi di esempi, fondati su una storiografia tipologica molto forte, che trova in un testo molto fortunato (Les machines à guérir, 1976), il cui pregio è la restituzione di un lavoro che vede coinvolti tra gli altri Bruno Fortier e Blandine Kriegel, oltre lo stesso Foucault, che oggi si presenta come estremo paradosso. Quei luoghi, la cui fortuna fu segnata dalla fuoriuscita dei pazienti e dalla funzione di segregazione, debbono forse entrare senza aprire enormi problemi in un processo di patrimonializzazione che pare non conoscere limiti. Il portone ancora aperto del manicomio di Gorizia e il riuso, meticcio e non pienamente riuscito, del manicomio di Collegno, lasciano molti dubbi. Come l’estensione del concetto di “istituzione negata” (e di riflesso di “segregazione”) – che oggi ha la sua estremizzazione sia per l’esaltazione del potere sia per l’annientamento della soggettività umana nei reparti Covid degli ospedali – l’architettura è un potentissimo simbolo, ma forse non è un’architecture parlante.

La stessa esperienza di Basaglia – alle prese a Gorizia, come in quasi tutti i manicomi in cui opera, con reparti in cui il soggetto torna ad esistere e la cura si può davvero esercitare e reparti che rimangono chiusi alla sua esperienza – ci dice di procedere con i piedi di piombo su un dialogo che la storia dello Steinhof di Vienna o del progetto incompiuto di Daniele Calabi per il manicomio di Verona ci dicono essere molto più complessa. Anche l‘architettura è una struttura stratificata, dove diritti, economie, simbologie e usi hanno temporalità diverse e che non si possono ridurre a un tempo e uno spazio unico e che reagiscono ad usi diversi con resistenze che nascono proprio da quelle diverse storie che ne generano tipologie e morfologie.

Il libro di Giuseppina Scavuzzo ci porta indietro nel tempo e, nello stesso momento, ci fa capire quanto il tempo trascorso tra la legge Basaglia e oggi non abbia solo ribaltato sulle famiglie e su strutture inadeguate una cura così complessa come quella psichiatrica, ma quanto la cultura, non solo italiana, sia arretrata, rimuovendo soggettività ed esperienze o libri come Asylums o Morire di classe. Ma ancor più ci abbia fatto perdere la coscienza della messa in discussione di un esercizio di potere, attraverso la continua revisione degli strumenti che ne sancivano l’unidirezionalità: la narrazione, la rappresentazione, l’elaborazione della propria condizione di diversità come statuto di una società, non di un luogo di segregazione.

Carlo Olmo

 

 

 

 

N.d.C. - Carlo Olmo, professore emerito di Storia dell'Architettura del Politecnico di Torino, è stato preside della Facoltà di Architettura e ha coordinato il dottorato di ricerca in Storia dell'Architettura e dell'Urbanistica. Ha insegnato all'École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, al Mit di Boston e in numerose università straniere. Ha inoltre curato mostre di architettura a Torino, Venezia, Roma, Parigi, Bruxelles e New York.

Tra i suoi libri: Politica e forma (Vallecchi, 1971); Architettura edilizia. Ipotesi di una storia (Torino, 1975), con Roberto Gabetti, Le Corbusier e L'Esprit Nouveau (Einaudi, 1975); con Riccardo Roscelli, Produzione edilizia e gestione del territorio (Stampatori, 1979); La città industriale. Protagonisti e scenari (Einaudi, 1980); Aldo Rossi attraverso i testi (Mazzotta 1986): tr. ing. in "Assemblage", 5, 1988: Turin et des Miroirs feles, in "Annales", 3, 1989; con Roberto Gabetti, Alle radici dell'architettura contemporanea. Il cantiere e la parola (Einaudi, 1989); con Linda Aimone, Le esposizioni universali, 1851-1900. Il progresso in scena (Allemandi, 1990; ed. fr. Belin 1993); con Luigi Mazza (a cura di), Architettura e urbanistica a Torino, 1945-1990 (Allemandi, 1991); (a cura di), Cantieri e disegni. Architetture e piani per Torino, 1945-1990 (Allemandi, 1992); Urbanistica e società civile. Esperienza e conoscenza, 1945-1960 (Bollati Boringhieri, 1992); Gabetti e Isola. Architetture (Allemandi, 1993); (a cura di), La ricostruzione in Europa nel secondo dopoguerra (Cipia, 1993); (a cura di), Il Lingotto: 1915-1939. L'architettura, l'immagine, il lavoro (Allemandi, 1994); (a cura di) con Bernard Lepetit, La città e le sue storie (Einaudi, 1995); (a cura di), con Alessandro De Magistris, Jakov Cernihov: documenti e riproduzioni dall'archivio di Aleksej e Dimitri Cernihov (Allemandi, 1995; ed. fr. Somogy editions d'art, 1995; ed. ted. Arnoldsche, 1995); Le nuvole di Patte. Quattro lezioni di storia urbana (FrancoAngeli, 1995); (a cura di), Mirafiori (Allemandi, 1997); (a cura di) con Lorenzo Capellini e Vera Comoli, Torino (Allemandi, 1999); (a cura di), Dizionario dell'architettura del XX secolo (Allemandi, 2000-2001, 5 vol.; ed. Enciclopedia Treccani, 2002); Costruire la città dell'uomo. Adriano Olivetti e l'urbanistica (Edizioni di Comunità, 2001); (a cura di) con Walter Santagata, Sergio Scamuzzi, Tre modelli per produrre e diffondere cultura a Torino (Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci, 2001); con Michela Comba, Marcella Beraudo di Pralormo, Le metafore e il cantiere. Lingotto 1982-2003 (Allemandi, 2003); (a cura di) con Michela Comba e Manfredo di Robilant, Un grattacielo per la Spina. Torino, 6 progetti su una centralità urbana, catalogo della mostra (Allemandi, 2007); Morfologie urbane (il Mulino, 2007); (a cura di), Giedion, Sigfried, Breviario di architettura (Bollati Boringhieri, 2008); (a cura di) con Arnaldo Bagnasco, Torino 011: biografia di una città. Saggi (Mondadori Electa, 2008); Architettura e Novecento. Diritti, conflitti, valori (Donzelli, 2010); (a cura di), con Cristiana Chiorino, Pier Luigi Nervi. Architettura come sfida (Silvana ed., 2010, 2012); Architecture and the 20. Century: Rights, conflicts, values (List Lab, 2013); Architettura e storia. Paradigmi della discontinuità (Donzelli, 2013); con Susanna Caccia Gherardini, Le Corbusier e il fantasma patrimoniale (Il Mulino 2015) e Metamorfosi americane. Destruction throught neglect: Villa Savoye tra mito e patrimonio (Quodlibet, 2016); con Susanna Caccia, La villa Savoye. Icona, rovina e restauro (1948-1968) (Donzelli, 2016); con Patrizia Bonifazio e Luca Lazzarini, Le Case Olivetti a Ivrea (Il Mulino, 2018); con postfazione con Antonio De Rossi, Urbanistica e società civile (Edizioni di Comunità, 2018); Città e democrazia. Per una critica delle parole e delle cose (Donzelli, 2018); Progetto e racconto. L’architettura e le sue storie (Donzelli, 2020).

Per Città Bene Comune ha scritto: Spazio e utopia nel progetto di architettura (15 febbraio 2019); La città tra corpo malato e perfetto (3 luglio 2020).

Sui libri di Carlo Olmo, v. i commenti di: Cristina Bianchetti, Lo spazio in cui ci si rende visibili… E la cerbiatta di Cuarón (5 ottobre 2018); Giampaolo Nuvolati, Scoprire l’inatteso negli interstizi delle città (20 settembre 2019); Carlo Magnani, L’architettura tra progetto e racconto (11 settembre 2020); Piero Ostilio Rossi, Modi (e nodi) del fare storia in architettura (2 ottobre 2020); Gabriele Pasqui, La storia tra critica al presente e progetto (23 ottobre 2020).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

19 FEBBRAIO 2021

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Luca Bottini
Oriana Codispoti
Filippo Maria Giordano
Federica Pieri

cittabenecomune@casadellacultura.it

powered by:
DASTU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021:

F. Indovina, Post-pandemia? Il futuro è ancora nelle città, commento a: G. Amendola (a cura di), L’immaginario e le epidemie (Mario Adda Ed., 2020)

G. Dematteis, Il territorio tra coscienza di luogo e di classe, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

M. Ruzzenenti, Una nuova cultura per il bene comune, commento a: G. Nuvolati, S. Spanu (a cura di), Manifesto dei sociologi e delle sociologhe dell’ambiente e del territorio sulle città e le aree naturali del dopo Covid-19 (Ledizioni, 2020)

F. Forte, Una legge per la (ri)costruzione dell'Italia, commento a: M. Zoppi, C. Carbone, La lunga vita della legge urbanistica del '42 (didapress, 2018)

F. Erbani, Casa e urbanità, elementi del diritto alla città, commento a: G. Consonni, Carta dell’habitat (La Vita Felice, 2019)

P. Pileri, Il consumo critico salva territori e paesaggi, commento a, A. di Gennaro, Ultime notizie dalla terra (Ediesse, 2018)

 

 

 

 

 

 

I post