Giancarlo Consonni  
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LA COSCIENZA DI LUOGO NECESSARIA PER ABITARE


Commento al libro di Alberto Magnaghi



Giancarlo Consonni


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Se non ricordo male, Alberto Magnaghi suona il clarinetto. Leggendo il suo Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020) sembra però di assistere a un concerto di Cecil Taylor. Una scrittura fitta, un argomentare rigoroso, sistematico, serrato, insistito; persino ridondante, tanta è la passione: 328 pagine che rispondono all’intento evidente di dar vita a un manifesto organico, di ampio respiro. Un punto d’arrivo del lavoro di una vita. Allo stesso tempo, il libro intende dare conto di un lavoro collettivo che ha visto l’autore nel ruolo di fondatore e animatore di una scuola ben nota agli accademici e ai cultori dell’urbanistica, non solo italiani, e anche ai non molti amministratori pubblici del bel paese attenti ai problemi di portata strategica implicati nelle trasformazioni territoriali: la «scuola territorialista» italiana, confluita nella Società dei Territorialisti e delle Territorialiste.

Convincente, per cominciare, la definizione di territorio su cui si regge l’intera costruzione teorico-pratica: il territorio è «l’ambiente antropico costruito nei secoli dalle società umane in relazione co-evolutiva con la natura» (p. 13): un «immenso patrimonio culturale collettivo, intergenerazionale, vivente, denso di saperi, di arti, di scienze, dotato di identità percepibile con i sensi attraverso i suoi paesaggi: il bene comune per eccellenza, da trattare come tale dalle generazioni future» (p. 21). I territori sono «strutture identitarie di lunga durata» (p. 20), frutto di stratificazioni dove ogni generazione è intervenuta sul lascito delle precedenti senza mai venire meno ai principi della salvaguardia della riproducibilità del vivente e dell’abitabilità dei luoghi: principi saldamente onorati e rinnovati per millenni fino a che, in epoca contemporanea, non si è prodotta una frattura divenuta ormai abissale.

Non meno notevole è il lavoro compiuto, nel primo capitolo, su altre parole chiave: spazio, de-spazializzazione, terra, patrimonio territoriale, deterritorializzazione, luogo, coscienza di luogo, paesaggio, abitanti, conversione ecologica e trasformazione territorialista. Uno scavo fecondo, dove la precisazione terminologica, mentre punta a mettere a fuoco questioni cruciali, non è mai scissa da una prospettiva progettuale.

La chiarezza concettuale e lo sguardo sulla lunga durata consentono ad Alberto Magnaghi di stabilire un punto fermo sulla cosiddetta «difesa della natura». Su questo tema si è creata, egli sostiene, una travolgente vulgata che, accreditando la natura come bene assoluto, indipendente dall’habitat umano, ha finito da tempo per travisare la realtà dei fatti e per mettere su un binario morto energie e slanci ideali. Ciò che va salvato non è la natura in sé, ma la sintesi sapiente e dinamica fra opera umana e contesto geografico-naturale. È questa armonizzazione (da lui denominata co-evoluzione) che ha presieduto all’umanizzazione del mondo e alla costruzione degli habitat umani fino a quando la rivoluzione capitalistica, tanto più nei suoi sviluppi maturi, ha cambiato alla radice sia gli obiettivi e il senso del fare sia la concezione e il modo d’abitare.

In nuce, quel punto fermo è già un programma. È sulla grande ferita (materiale e culturale) che si è prodotta che bisogna lavorare: occorre «sottrarre la conversione ecologica ai limiti settoriali della difesa della natura, alla sua possibile deriva tecnocratica, tecnologica e centralistica e affidarla, in parte rilevante alla ricostruzione dei mondi di vita locali, dotati di autonomia e autogoverno, in grado di praticare nuovamente processi coevolutivi, sinergici e positivi, fra insediamento umano e ambiente» (p. 16).

Circa la «conversione ecologica», l’autore fa un bilancio delle due linee che hanno occupato la scena in questi ultimi decenni: da un lato, la linea istituzionale dei governi e degli accordi intergovernativi, tesa a mitigare e a compensare i disastri prodotti da politiche di sviluppo irresponsabili: un insieme di mosse tattiche che, intrappolate nella logica dei compromessi fra interessi in gioco, si sono mostrate del tutto incapaci di innescare una vera alternativa alla deriva straripante delle megacities; dall’altra, la linea radicale, rappresentata dalle mobilitazioni che hanno assunto una dimensione planetaria, ma che, a loro volta, non sono state in grado di radicarsi in contesti, di dar vita a iniziative concrete e a forme di autogoverno e, dunque, di segnare una vera alternativa rispetto alle «modalità complesse di produzione antropica dello spazio che, nella civiltà delle macchine, sono le cause prime del degrado ambientale […]» (p. 15).

I risultati fallimentari conseguiti da questi due approcci ci mettono davanti l’urgenza di una terza via: «Tenendo conto di questi limiti – afferma Magnaghi –, avanzo l’ipotesi che una efficace inversione di rotta, in grado di affrontare strategicamente la crisi ambientale, sia possibile solo ricostruendo nella sua complessità il rapporto fra abitanti e territorio abitato, rimettendo in discussione tutti gli elementi di produzione dello spazio». E aggiunge: «ciò richiede, nella nostra ipotesi territorialista, di costruire prioritariamente “dal basso”, da parte di “comunità territoriali” innovative, regole, comportamenti, cultura e tecniche ecologiche dell’abitare e del produrre che, attraverso una crescita della “coscienza di luogo”, restituiscano agli abitanti la capacità di riproduzione dei propri ambienti di vita e di autogoverno socio-economico (principio territoriale)» (p. 15).

L’autore definisce questa prospettiva «eco-territorialismo» (ivi).

Nel mondo globalizzato, egli sostiene, al centro delle dinamiche sociali non è più il conflitto fra capitale e lavoro quanto piuttosto lo scontro fra «processi di crescente eterodirezione» e «forme di autogoverno dei sistemi socio-territoriali locali» (p. 17). È a queste ultime che sono affidate le speranze di un radicale cambiamento di rotta. E, se Magnaghi forse esagera quando afferma che queste strade «in controtendenza» «si vanno accrescendo come fiumi» (p. 17), non si può non concordare sul fatto che «molti abitanti/produttori hanno iniziato a ricostruirsi in autonomia i propri ambienti di vita e di lavoro, in un brulichio incessante di separazioni, rilocalizzazioni, riappropriazioni, aggregazioni comunitarie e trame “intime”, prossime, che intrecciano la riscoperta di saperi tradizionali con innovazioni tecnologiche» (pp. 18/19). È una realtà che ha attirato l’attenzione di diversi altri osservatori (si veda, ad esempio, Francesco Erbani, L'Italia che non ci sta. Viaggio in un paese diverso, Einaudi, Torino 2019).

 

La questione che, in qualche modo, riassume tutte le altre è come gli «attuali produttori e consumatori governati da flussi globali e trasformati in clienti di multinazionali a-territoriali» possano riconquistare lo «statuto di abitanti» (p. 15). L’autore, se non semplifico troppo, affida la prospettiva all’affermarsi di cinque processi complementari e strettamente interdipendenti:

1) una «ricostruzione culturale e sociale delle radici antropologiche dell’arte di abitare» (p. 102), che può avvenire solo se gli abitanti si rendono protagonisti di una crescita individuale e collettiva della «coscienza di luogo» e divengono attori in prima persona della valorizzazione del patrimonio territoriale; patrimonio che diviene così «bene comune» (p. 128), non nel senso di possesso statico (dotazione), ma in quanto interessato da un’azione costante di (ri)generazione e manutenzione (p. 129) da parte degli stessi abitanti che si costituiscono in soggetto corale;

2) la riaffermazione della cura del vivente e della terra come condizione perché le società umane assumano nuovamente il controllo «dei fattori riproduttivi della vita» (p. 91) e della loro stessa «riproduzione» (p. 51);

3) la ripresa di «relazioni coevolutive» (p. 100) fra azione umana sull’ambiente e natura, con due obiettivi di fondo: riconquistare un equilibrio fra insediamento umano e biosfera (p. 66) e, insieme, ritrovare, nell’habitat, la «strada della misura» (p. 34) e dell’urbanità (p. 96);

4) l’innesco di nuovi «elementi di comunità» (p. 88) attorno alla “coscienza di luogo” e all’«attivazione di forme di democrazia comunitaria» (p. 61), in una logica di «interazione solidale […] fra attori diversi» (p. 88), intesa anche a dar vita a nuove «filiere integrate» e a «nuovi aggregati socio-economici» (p. 225) che puntano sulla «produzione di valore aggiunto territoriale» (p. 136), sospinti da un «auto-investimento sociale» (p. 93);

5) l’attuazione di una vera riforma dello Stato in senso federalista, ovvero «dal basso verso l’alto» (p. 11) con al centro la riorganizzazione/aggregazione delle reti insediative in «una molteplicità di bioregioni urbane interconnesse» (p. 100), fatte di «luoghi unici» (p. 132) e attive «entro un’idea sussidiale, federativa, cooperativa delle relazioni sovralocali» (p. 188), cooperanti in una logica di «reciprocità» (p. 191) e di «equità territoriale» (p. 150).


Su quest’ultimo punto, non si può non condividere il giudizio polemico di Magnaghi – e di altri, penso alle riflessioni di Piero Bevilacqua – sul cosiddetto “decentramento” e, in particolare, su cosa abbia rappresentato l’istituzione delle regioni nell’Italia repubblicana. Nate a tavolino, dopo una prima stagione promettente, le amministrazioni regionali si sono trasformate in governi centralisti, tanto più a seguito della riforma dell’articolo V della Costituzione del 2001 e dell’introduzione, nel 2009, dell’elezione diretta dei presidenti di regione.

La prospettiva federalista – come quella tracciata da Carlo Cattaneo (a cui l’autore affianca giustamente i contributi di Pëtr Kropotkin, di Murray Bookchin, di André Gorz e di Yona Friedman) – è stata del tutto disattesa: il decentramento dei poteri alle regioni, oltre a essere stato interpretato in chiave centralista, ha moltiplicato gli apparati burocratici e incrementato vertiginosamente la spesa pubblica senza offrire risposte adeguate su più fronti: preservazione delle risorse ambientali, cura della salute dei cittadini, perseguimento della coesione sociale, difesa dell’abitabilità dei contesti e dell’urbanità, tutela/valorizzazione dei beni culturali, coltivazione della bellezza dei luoghi e dei paesaggi.

Alla radice di questi fallimenti c’è una caduta della coscienza civile. Il prenderne atto non è però motivo per assolvere la politica dalle sue responsabilità; semmai le rimarca. Non è dunque dalle riforme istituzionali ispirate alla logica del “decentramento” che possiamo attenderci un cambiamento di rotta. Le energie e il motore vanno ritrovati dall’interno dei corpi sociali (e dei territori su cui e con cui le popolazioni vivono), in un lavoro paziente di crescita collettiva.

La prospettiva viene messa ulteriormente a fuoco nel capitolo 5. Confortato anche da altri studi, in particolare di ambito francese, Magnaghi propone «La riorganizzazione delle regioni geografiche come insiemi di bioregioni urbane» (p. 154). Dove la bioregione urbana costituisce una sorta di ricapitolazione dei caratteri storico-geografici e delle potenzialità dei contesti, avendo come principio guida la riconquista dell’«autosostenibilità degli insediamenti umani» (p. 150). È, muovendo dalle bioregioni urbane che, sostiene l’autore, va perseguita un’evoluzione delle «relazioni territoriali dai sistemi gerarchici del paradigma della globalizzazione verso criteri di complementarietà, sinergia e cooperazione fra sistemi locali autodeterminati» (p. 154): una via su cui egli intravede una nuova architettura dello Stato (1) e delle relazioni internazionali.

 

Negli altri capitoli, Il principio territoriale opera ulteriori affinamenti della prospettiva dando conto di esperienze sul campo. È da queste ricerche che l’elaborazione teorica e l’interpretazione delle dinamiche sociali e territoriali hanno potuto ricavare verifiche e motivi di crescita ulteriore. Si viene così condotti per mano in mondi come Montuslin nell’Alta Langa, Neviano nel basso Salento, Montespertoli (Fi), e in quadri territoriali estesi: la Val di Cornia (Li), il territorio milanese interessato dai bacini fluviali Olona-Seveso-Lambro, la Val Bormida piemontese, le Apuane, l’Arno, la Piana Firenze-Prato, la provincia di Prato e gli ambiti regionali della Toscana e della Puglia.

Magnaghi dà anche conto del contributo, portato da lui e da altri esponenti della Società dei/delle territorialisti/e, all’«arricchimento metodologico degli strumenti di rappresentazione dinamica dei caratteri patrimoniali di un luogo» (2), mostrando come possa derivarne un potenziamento degli «elementi a disposizione per il progetto del territorio» (p. 125). In tutto questo agisce la consapevolezza che «il patrimonio territoriale si accresce in quanto reinterpretato attraverso la médiance di una società locale (milieu) che lo riconosce, lo cura, “lo tratta” per produrre ricchezza durevole, trasformandolo in risorsa secondo principi di resilienza nei limiti imposti dalla riproduzione (o accrescimento) del suo valore di esistenza» (p. 116). In gioco ci sono dunque due rivoluzioni che non possono che procedere sinergicamente: da un lato, quella riguardante gli approcci disciplinari, chiamati a rivedere i loro paradigmi e a praticare «interazioni e confronti dinamici» (p. 182) fra una molteplicità di contributi in direzione di un approccio olistico; dall’altro, quella che vede protagonisti gli stessi abitanti sia in quanto depositari di culture e (neo) tecniche del saper fare e sia in quanto attori primari nella «costruzione di strumenti di azione» (p. 238).

Tutto compatto e fittamente intrecciato, come nei concerti di Cecil Taylor. Nessun dubbio? Nessuna sbavatura? Magnaghi si rende conto che, enunciato con argomentazione ampia e coerente il concetto di bioregione urbana, sorge il problema di come sia possibile operare una sintesi (politica) tra il livello di governo e di programmazione proprio della bioregione e i multiformi livelli ‘sottostanti’ in cui si esprime la progettualità collettiva e la “coscienza di luogo”. Qui l’utopia operante si spinge fino a indicazioni di dettaglio (che dicono anche della grande ‘virtuosità’ del pianista).

Quanto allo ‘spettatore’ travolto da tanta compattezza (e prorompenza) resta qualche dubbio sulla concreta operatività di quanto prospettato. Se la via della bioregione urbana sembra cucita su misura su realtà come quella della Toscana e di regioni consimili, nei contesti metropolitani decisamente più squilibrati la strada appare in ripidissima salita.

Giancarlo Consonni

 

 

 

Note

1) «se la rappresentanza, gli obiettivi, la gestione va dal basso, dai luoghi, verso l’alto (gli Enti pubblici territoriali, la Regione, lo Stato) le reti non hanno più il potere di comando degli attuali flussi globali» (p. 247).

2) «modelli di rappresentazione del patrimonio (atlanti del patrimonio, sistemi informativi territoriali) multidimensionali e multi mediali in grado di comprendere sia gli elementi statici (cartografie identitarie, valori patrimoniali di lunga durata) sia quelli dinamici (livelli di coscienza di luogo – “coscienziometri” – reti di attori locali, evoluzione temporale dei fattori naturali, saperi attivabili, azioni di cura e di progetto) dal cui incontro possono nascere processi di retro-innovazione e costruzione di nuovi valori patrimoniali» (p. 124).

 

 

 

N.d.C. - Giancarlo Consonni, professore emerito di Urbanistica del Politecnico di Milano, dirige l'Archivio Piero Bottoni che ha contribuito a fondare.

Tra i suoi libri: L'internità dell'esterno. Scritti su l'abitare e il costruire (Clup, 1989); con L. Meneghetti e G. Tonon (a cura di), Piero Bottoni. Opera completa (Fabbri, 1990); Addomesticare la città (Tranchida, 1994); Dalla radura alla rete. Inutilità e necessità della città (Unicopli, 2000); con G. Tonon, Il «lapis zanzaresco» di Pepin. Giuseppe Terragni prima del progetto (Ronca, 2004) e Terragni inedito (Ronca, 2006); La difficile arte. Fare città nell'era della metropoli (Maggioli, 2008); La bellezza civile (Maggioli, 2013); Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà (Solfanelli, 2016), La forma della convivialità. I tavoli ellittici di Piero Bottoni (La Vita Felice, 2018).

Tra i molti saggi sulla metropoli milanese (con Graziella Tonon): La terra degli ossimori. Caratteri del territorio e del paesaggio della Lombardia contemporanea, in Aa. Vv., Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Lombardia, a cura di D. Bigazzi e M. Meriggi, Einaudi, Torino 2001, pp. 51-187; Milano, la questione metropolitana, in «Archivio Storico Lombardo», dicembre 2020, pp. 41-65.

Sue raccolte di poesia sono pubblicate con i tipi di Scheiwiller ed Einaudi. L’opera pittorica è documentata in Ritmi e soglie (2018), Sognando la Liguria. 1994-1998 (2019); Stagioni. 1980-1998 (2021) editi da La Vita Felice.

Per Città Bene Comune ha scritto: Un pensiero argomentante, dialogico, sincretico, operante (2 giugno 2016); Museo e paesaggio: un'alleanza da rinsaldare (13 gennaio 2017); Coscienza dei contesti come prospettiva civile (9 febbraio 2018); In Italia c'è una questione urbanistica? (15 giugno 2018); Le ipocrisie della modernità (23 novembre 2018); La rivincita del luogo (25 luglio 2019); Le pratiche informali salveranno le città? (15 novembre 2019); Città: come rinnovarne l’eredità (20 novembre 2020).

Dei libri di Giancarlo Consonni hanno scritto in questa rubrica: Pierluigi Panza (16 dicembre 2016); Paolo Pileri (10 febbraio 2017); Vezio De Lucia (18 maggio 2017); Andrea Villani (15 dicembre 2017); Rita Capurro (23 gennaio 2018); Francesco Erbani (15 gennaio 2021).

Sul libro oggetto di questo commento, v. anche: Giuseppe Dematteis, Il territorio tra coscienza di luogo e di classe (5 febbraio 2021).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

12 MARZO 2021

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
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in redazione:
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2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

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locandina/presentazione

 

 

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- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:

 

 

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Le letture

2015: online/pubblicazione
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2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021:

E. Scandurra, Nel passato c'è il futuro di borghi e comunità, commento a: G. Attili – Civita. Senza aggettivi e senza altre specificazioni (Quodlibet, 2020)

R. Pavia, Roma, Flaminio: ripensare i progetti strategici, commento a: P. O. Ostili (a cura di), Flaminio Distretto Culturale di Roma (Quodlibet, 2020)

C. Olmo, La diversità come statuto di una società, commento a: G. Scavuzzo, Il parco della guarigione infinita (LetteraVentidue, 2020)

F. Indovina, Post-pandemia? Il futuro è ancora nelle città, commento a: G. Amendola (a cura di), L’immaginario e le epidemie (Mario Adda Ed., 2020)

G. Dematteis, Il territorio tra coscienza di luogo e di classe, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

M. Ruzzenenti, Una nuova cultura per il bene comune, commento a: G. Nuvolati, S. Spanu (a cura di), Manifesto dei sociologi e delle sociologhe dell’ambiente e del territorio sulle città e le aree naturali del dopo Covid-19 (Ledizioni, 2020)

F. Forte, Una legge per la (ri)costruzione dell'Italia, commento a: M. Zoppi, C. Carbone, La lunga vita della legge urbanistica del '42 (didapress, 2018)

F. Erbani, Casa e urbanità, elementi del diritto alla città, commento a: G. Consonni, Carta dell’habitat (La Vita Felice, 2019)

P. Pileri, Il consumo critico salva territori e paesaggi, commento a, A. di Gennaro, Ultime notizie dalla terra (Ediesse, 2018)

 

 

 

 

 

 

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