Luca Marescotti  
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L'URBANISTICA INNANZITUTTO


Commento al libro curato da C. Sambricio e P. Ramos



Luca Marescotti


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«Chi vuol comportarsi nel modo più conveniente ad uno storico, deve astenersi così dal lodare le azioni di Filisto, come dall'insultare le sue sventure».
«Quando io mi misi a scrivere queste vite, lo feci per utilità degli altri; ma ormai mi avviene di continuarle e di insistere in questo lavoro anche per utilità mia, poiché, guardando nello specchio della Storia, cerco di adornare e uniformare in qualche modo la mia vita alle virtù dei suoi grandi personaggi. Il mio lavoro mi appare proprio come un conversare, un vivere quotidiano in intimità con costoro, quando, per narrarne le vicende, io li ricevo quasi e li accolgo a turno come ospiti uno per uno, esaminandone “la grandezza e le qualità”, scegliendo fra le loro azioni quelle che furono le più degne di essere conosciute»

(Plutarco 1958, vol. 2 p. 30; vol. 2 p. 94)

 

Da tempo sentivo la necessità di ricostruire un filo spezzato che iniziava dall’insegnamento di Giuseppe Campos Venuti al Politecnico di Milano e che si interrompeva come frequentazione ma non come sorgente di interesse. Insegnavo, dirigevo ricerche sui trasporti, sui sistemi informativi geografici, sui beni architettonici e culturali, facevo consulenze per studi e piani del traffico urbano e provinciale, sperimentando però la difficoltà di riunificare i diversi argomenti con l’urbanistica; anzi, quando ne accennavo come necessità e urgenza, le risposte iniziavano dalla mia accezione, del tutto personale, da contrapporre a un riduzionismo indiscutibile, senza possibilità di dialogo, per finire con un “ti occupi di troppe cose!”.

La mia attenzione teorica più recente stava ritornando, dicevo, alle origini dei miei studi di urbanistica, quindi esattamente a Campos Venuti e di questo ne accennavo con Federico Oliva, senza che mai si arrivasse a qualche decisione operativa. Credevo che fosse necessario mostrare che il valore della sua visione scientifica e teorica aveva ed ha tutt’oggi senso anche in contesti diversi da quello italiano, che va interpretata nella sua interezza, un’interezza non chiusa ma che si arricchisce nella capacità di evolversi, di alimentarsi nell’analisi incessante della realtà e dei cambiamenti sociali letti nella loro rappresentazione territoriale. Non era una tecnica, non un’ideologia, né una formulazione astratta o, tanto meno, un modello ripetitivo.

Con queste motivazioni ho iniziato a pubblicare le bozze non corrette di quanto andavo scrivendo in alcuni siti accademici, finendo per aggiungere una domanda aperta e diretta sull’influenza di Campos Venuti e Oliva in Italia e in altri paesi. Tra i pochi lettori qualcuno rispose, anzi per l’esattezza due: una di ringraziamento per aver avuto l’occasione di scoprire questi urbanisti italiani(1), l’altra, quasi stupita, che mi rinviava alle esperienze di Valencia e di Madrid e alla rivista scientifica Ciudades.

In effetti, per spiegare e rinforzare le scelte urbanistiche di Valencia un recente contributo on-line faceva riferimento a Urbanistica e austerità come origine e fonte del loro pianificare, a cui sentivano di dover esprimere un pubblico riconoscimento proprio perché era El desconocido libro que cambió la historia de València (2). Piccoli semi di grande sviluppo.

Per Madrid, invece, era la diretta partecipazione di Campos Venuti al piano approvato del 1985 che era ricordata con frequenza in un libro dedicato a quel piano. Devo aggiungere che il mio primo incontro con quel piano, a parte qualche accenno verbale con Campos Venuti, fu una sua anticipazione in una rivista che vale la pena di citare, in primo luogo perché del 1984, in secondo luogo perché lui era nel Consiglio scientifico e nel Direttivo e infine, fatto non trascurabile, perché quella rivista si chiamava, certo non a caso, Problemi della Transizione (3). In quell’articolo, dunque, marcava l’importanza e le innovazioni del piano di Madrid, ma lo faceva in un certo modo in sottotono, non solo perché non ricostruiva appieno la complessità e il contesto di quel momento unico, ma anche perché questo era il suo modo di comunicare, con sicurezza, senza enfasi, anche se purtroppo senza rimandi.

Il libro curato da Carlos Sambricio assieme a Paloma Ramos dedicato agli anni dell’elaborazione di quel piano – El urbanismo de la transición: el Plan General de Ordenación Urbana de Madrid de 1985, (2 voll, Ayuntamiento de Madrid. Área de Gobierno de Desarrollo Urbano Sostenible, Madrid 2019) – nel ricostruire lo spirito del tempo apre un discorso più che mai attuale, senza mai essere formale o banale, proprio perché denso di rimandi e di punti di vista che illuminano da diverse angolazioni l’essenza della disciplina, il ruolo della politica nella pianificazione, il senso della democrazia e la partecipazione, il dimensionamento dei servizi e delle attrezzature sociali, i rapporti con le opere pubbliche e con l’architettura(4). In altre parole, è l’urbanistica in sé e per sé, come disciplina e come cultura politica.

Il soggetto per la sua complessità e unicità merita qualche altra digressione.

La prima porta a oltre quindici anni fa quando un piccolo ma prezioso omaggio a Campos Venuti fu promosso dallo Instituto Universitario de Urbanística della Universidad de Valladolid e faceva ruotare Alfonso Álvarez Mora, Oriol Bohigas, Jesús Gago, Eduardo Leira, Juan Luis de las Rivas, Fernando Roch Peña attorno a un suo testo pubblicato in Italia (5). Il libro non era certo un’improvvisazione per quell’istituto universitario, in quanto editore della rivista Ciudades che aveva ospitato numerosi contributi di Campos Venuti e Oliva. Ambedue, il libro e la rivista, erano testimonianze di qualcosa oltre confini e oltre l’INU per me inaspettata, quindi testimonianza della possibilità di una “scuola” attorno al suo pensiero, riaccendendo così la speranza che l’urbanistica del riformismo possa essere mantenuta viva e fatta crescere.

La seconda porta a Madrid nel nuovo millennio quando le anticipazioni sulla nuova variante generale spingono il Grupo TryS (Territorio Racional y Sostenible) e il centro culturale de La Casa Encendida a promuovere un corso, poi pubblicato (6), con trentadue interventi di urbanisti, di cui otto partecipano anche a El urbanismo de la transición. Per quanto disomogenei gli interventi hanno alcuni passaggi comuni nella critica al piano del 1997 in quanto quell'idea di sviluppo significava estendere l’offerta di suolo edificabile su tutto quanto era possibile. Si evidenziano, in secondo luogo, i limiti del presupposto di un piano tecnico ‘razionale’, la cui razionalità si presentava priva di strategie, di fatto ribadendone la subalternità a obiettivi settoriali e di breve termine, con una visione totalizzante dell’economia che finge di credere, o che vuol far credere, che solo l’espansione potrà diffondere benessere sociale, come se l’esperienza non avesse insegnato che quell’espansione, un tempo per la verità identificata con la speculazione fondiaria e con la rendita urbana, richiedesse indicibili accordi. In questo volume Eduardo Mangada pone come pietra di confronto e come introduzione al corso proprio il piano del 1985. Gli interventi criticano sia l’insensibilità verso gli interessi generali e la subalternità allo sviluppo, sia la debolezza nell’esame degli impatti delle previsioni sulla mobilità, sulla società e sull’ambiente, sia la genericità degli obiettivi eterogenei e privi di criteri di verifica quantitativa. Nell’insieme la proposta di piano richiama un modo di pianificare di un lontano passato che dichiara con enfasi la sua dimensione rigorosamente tecnica, ma che poi resta impantanato nella vaghezza.

I testi che fanno spesso ricorso alle nuove terminologie come coesione territoriale e sociale oppure lotta alla città duale e all'emarginazione sociale, diffusione dell’accessibilità all'educazione e alla sanità di fatto sono un continuo richiamo non solo alla coerenza tra tutti i settori pubblici, ma anche, nemmeno tanto implicitamente, un invito a abbandonare una tecnica priva di politica e di strategie, perché senza anima e senza futuro.

 

Questi temi rientrano nelle narrazioni sull’urbanistica della transizione inventata a Madrid che Sambricio e Ramos con magistrale acribia ricostruiscono. Nel loro lavoro i riferimenti alle tesi del riformismo di Campos Venuti sono talmente frequenti e precisi da far sfumare quella solitudine che pesava sul suo lavoro mentre ne fanno emergere una dimensione così singolare da far ritenere che si debba rileggere tutta la sua opera con altre interpretazioni e quanto più il mio studio si approfondiva, tanto più ne risaltava l’incisività sostenuta da un robusto quanto implicito impianto teorico. Per Campos Venuti l’urbanistica si materializza nel fatto urbano e architettonico, ma la sua dimensione si genera e cresce in un ambito assai più ampio che coinvolge la vita sociale nella sua interezza; richiede una continua riflessione e maturazione che non può né si può lasciare che venga sterilizzata nel riduzionismo e nel tecnicismo.

Nei paragrafi che seguono cercherò di delineare il contesto, la struttura del libro, la sua tempestività e attualità, e la creatività nell’organizzazione del lavoro. Non intendo farne un riassunto e nemmeno scrivere un altro saggio; la mia unica intenzione è quella di mostrarne il valore, libero da qualsiasi “ragionamento motivato”: ho imparato l’urbanistica da Campos Venuti, ma quello che sono diventato è dovuto a un percorso -purtroppo autonomo- attraverso molte discipline che ho seguito per dimostrare il valore intrinseco di scienza di confine tra le scienze sociali e le scienze della Terra.

 

L’urbanistica e il suo contesto

L’indagine di Sambricio ripercorre l’urbanistica madrilena durante il periodo della transizione democratica, approfondendo le aspettative e le forze in campo e svelandone il contenuto innovativo. La documentazione raccolta, più che ampia, conduce il lettore, se questi solo accettasse l’invito, in un viaggio nel passato da cui trarre lezioni più che mai feconde per il presente.

Gli autori ne sono più che convinti e uno dopo l’altro aggiungono prove a sostegno realizzando un racconto corale che percorre tutto il processo, dalle premesse degli accordi politici della Moncloa del 1977 alle conclusioni collocabili ben prima dell’approvazione del piano nel 1985. Il coro accompagna la formazione del piano alternando visioni interne a quel tempo, con memorie ricostruite nel lontano oggi.

La scelta di redigere un nuovo piano urbanistico alternativo a quello allora vigente che risaliva al 1963 fu l’espressione dell’esigenza di cambiamento radicale, un cambiamento da condurre in parallelo e in sinergia con la cesura politica e culturale che investiva l’intera società. In altre parole, era necessario ridiscutere la disciplina per cambiare mentalità, per formare e condividere un nuovo modo di pensare l’urbanistica, di redigere un piano e di confrontarsi con l’architettura, nella consapevolezza dell’urgenza e della necessità di costruire un solido sostegno politico e sociale capace di durare un tempo sufficiente.

I riferimenti culturali erano il diritto alla città, le lotte urbane, la crisi petrolifera, l’austerità “dei padroni”, le alternative per contrastare le reazioni dell’urbanistica convenzionale franchista, l’architettura della città di Rossi, il tutto sullo sfondo generale, certo non semplice, ove la costruzione della democrazia esigeva la rinuncia ai lasciti ingombranti della dittatura, ma anche dove il pensiero di Campos Venuti con la sua declinazione di alternativa e la sua critica alla rendita fondiaria forniva l’orientamento.

Le sollecitazioni mostravano l’enorme groviglio di nodi da sciogliere, al cui interno di conseguenza si collocavano nuovi ruoli per il piano urbanistico, il suo oggetto territoriale conteso tra città e area metropolitana, il rapporto con i cittadini e non ultima la riqualificazione urbana che significava il rapporto con l’architettura. Non c’erano appigli stabili su cui contare: sull’area metropolitana incombeva l’ingerenza dello Stato, sulla partecipazione confluivano le esigenze espresse dai movimenti di base in una stagione dall’emancipazione sociale impetuosa e le necessità di comunicazione per coinvolgere tutta la società e per informarla sulle esigenze di tempestività, consci che l’immediatezza della grande scala dell’architettura si scontrava con i tempi lunghi dell’urbanistica, la creatività con il timore della burocrazia, ma che anche conteneva un potenziale incredibile di comunicazione e di verifica delle tesi.

Senza dubbio la transizione urbanistica trasse una prima forza dai confronti con Henri Lefebvre e con Manuel Castells, mentre nello stesso tempo maturava l’esigenza di trasformare la partecipazione in un supporto al piano aprendo nuovi canali di comunicazione con la base.

Era necessario far comprendere il significato profondo dell’azione urbanistica, educare al piano, attraverso l’informazione continua del suo avanzamento, coinvolgendo riviste specializzate, stampa divulgativa e quotidiani (7).

La storia dell’urbanistica della transizione è inscindibile da quella degli accordi politici, che permisero i confronti tra tutti questi elementi fino a sintetizzare una miscela innovativa, capace di forgiare strumenti adeguati, anche se in parallelo si svolgeva l’altra storia, quella dello sviluppo economico e delle lacerazioni politiche che avrebbero portato altri equilibri nell’assetto politico. Il fatto che dopo, con gli anni, siano emerse nuove visioni capaci di alterare quel piano mantenendone solo alcuni aspetti formali utili solo a mascherare il radicale cambiamento dovrebbe far riflettere anche in Italia.

L’inizio è con Los Pactos de la Moncloa dell’ottobre 1977, quando i partiti maggioritari colsero con lungimiranza le criticità del paese e collocarono sullo stesso piano dell’economia l’istruzione, l’urbanistica, la previdenza sociale, la casa, il sistema finanziario, le politiche per i settori agricoli, ittici e energetici e fu allora che Eduardo Leira e Eduardo Mangada ne posero le basi. La particolarità di quegli accordi era il rifiuto della “austerità dei padroni” e la sintonia con le idee di Enrico Berlinguer sul compromesso storico (8). Nello stesso tempo Fernando de Terán accelerava i lavori della Comisión de Planeamiento y Coordinación del Área Metropolitana de Madrid (COPLACO), un ente autonomo di urbanistica annesso al Ministerio de la Vivienda e istituito nel 1963 in occasione dell’approvazione di quel piano, ma imprimendo nuovi percorsi. La Commissione grazie all’eccezionale congiuntura segnata dal duplice appoggio dei partiti e dei movimenti di base dei cittadini elaborò analisi, valutazioni e proposte, anche se poi fu osteggiata dal governo centrale retto dalla UDC Uniòn del Centro Democràtico. Sarà Terán stesso a spiegare quelle difficoltà, ulteriore dimostrazione di “un proceso imposible”(9):

«La presentación del nuevo programa se hizo en enero de 1978 . Su intención básica era la de constituirse en procedimiento de articular una forma abierta de trabajo, capaz de incorporar la colaboración de fuerzas políticas y opinión pública. Las decisiones del planeamiento no serían ya el resultado de un proceso puramente técnico, sino de una discusión política.
(…) La época del planeamiento metropolitano unitario (un plan para toda el área metropolitana) había terminado. Los ayuntamientos tenían ahora la palabra
»(10).

La scelta territoriale non solo a causa delle tensioni con il governo centrale ma anche e soprattutto per il degrado e le discontinuità del tessuto urbano madrileno suggerivano di concentrare gli sforzi sulla città: a questa fase appartengono i libri promossi dal PCE, importanti oltre che nel contenuto per l’ampiezza della visione politica e culturale, per la formazione di gruppi di lavoro aperti e per la teorizzazione della centralità del piano nella vita sociale, intesa nella sua interezza: sviluppo sociale e economico e partecipazione (11).

Le elezioni municipali dell’aprile del 1979 permisero a PSOE e PCE di sancire un accordo locale con cui si nominava Enrique Tierno Galván a sindaco e si affidava la responsabilità dell’urbanistica al PCE, nominando Mangada vicesindaco e assessore all’urbanistica. In novembre Mangada scelse i consulenti per definire obiettivi e criteri della revisione: Eduardo Leira, Jesús Gago, José Martínez Sarandeses, Ignacio Solana, Ignacio Quintana y Bernardo Ynzenga, affiancati dai due consulenti Giuseppe Campos Venuti e Nuno Portas. Dopo fu istituita la Oficina Municipal del Plan che individuò la “cultura de la ciudad existente” come fondamenta del piano e rese pubblici i Criterios y objetivos para revisar el Plan General di Madrid(12).

Con una cesura netta si scartava l’eredità maligna di subalternità alle imprese private che il piano vigente portava con sé, recependo l’essenza delle indicazioni teoriche di Campos Venuti sulla terza generazione dei piani. Sambricio scrive:

«La presencia desde el primer momento de Campos en el Plan de 1985 fue tan determinante como la de Nuno Portas, al aportar cada uno experiencias de muy distinto tipo. Si el portugués aportó la vivencia de quien tras el 25 de abril -y ser nombrado secretario de Estado de Urbanismo y Vivienda- había entendido que el problema no era técnico sino político, Campos era la referencia de una Italia en la que, por vez primera, se cuestionaba un modelo tradicional urbano (el sector privado como motor en la construcción de la ciudad), se criticaba la expansión urbana marginal que se había producido en los años sesenta, y se clamaba contra el abandono de la ciudad histórica»(13).

A sostegno della pianificazione si avviò la sperimentazione progettuale, la “Operación 50 ideas para Madrid”, chiamando architetti esterni per costruire un banco di prova architettonico delle impostazioni urbanistiche e nello stesso tempo per costruire una comunicazione concreta del piano. Nel 1982 si inaugurò l’esposizione pubblica al Cuartel del Conde Duque arricchita dalla pubblicazione di Recuperar Madrid e dalla diffusione di un’ampia documentazione.

Tuttavia, mentre la Oficina lavorava a pieno ritmo, nella politica si imboccavano strade senza ritorno con l’espulsione nel 1982 di cinquanta iscritti dal Partito Comunista, tra cui lo stesso Mangada, per l’appoggio dato alla Sinistra Basca e con la successiva sconfitta elettorale del Partito Comunista: di fatto, l’accordo locale madrileno tra PSOE e PCE era finito e il processo urbanistico avviato da Campos Venuti e Portas era pronto per essere accantonato. A questa data, il 1983, Sambricio colloca la fine dell’urbanistica della transizione.

Le parole d’ordine divennero quelle importate da Bernardo Secchi: l’architettura della città, la renovatio urbis e la progettazione urbanistica.

All’approvazione del piano nel 1985 seguì la morte prematura di Galván. La tenuta del piano dal 1986 al 1989 fu garantita dalla continuità politica con il sindaco Juan Barranco e durò qualche anno ancora finché non si profilò all’orizzonte una tempesta. Prima che fosse completata l’attuazione del piano, la maggioranza socialista avviò gli studi per una variante generale sovrastata dalla logica dell’espansione; approvata nel 1997 manterrà solo qualche memoria del periodo precedente tanto lo spirito del tempo era marcato dalle infiltrazioni del neoliberismo.

Queste sono le premesse.

 

La struttura del libro

Carlos Sambricio e Paloma Ramos hanno chiamato a testimoniare tutti quelli che vissero e animarono il periodo del primo piano urbanistico di Madrid dopo la dittatura. All’invito hanno risposto in novanta, tanti ma non tutti; Sambricio rimpiange le assenze dovute anche ai limiti della salute o della vita.

Il risultato sta in due volumi con settecentotrenta pagine e centoventisette saggi, tutti scritti appositamente tranne i due di Fernando de Terán: nel primo del 1981 già avvertiva l’eccezionalità con il titolo Planeamiento en la Transición e nel secondo del 1984 spiegava come il rifiuto di una scientificità neutrale seguiva quanto già le altre scienze sociali affermavano senza rinunciare al suo essere scienza. Tra l’altro all’inizio scriveva che non capiva perché mai Campos Venuti accusasse l’architettura di fare il gioco della deregolazione, ma sulla stessa rivista Campos Venuti spiegava che si trattava di una falsa alternativa: urbanistica e architettura dovevano interfacciarsi senza antagonismi (14). Il libro è arricchito da una settantina di schemi urbani e di inquadramenti morfologici disegnati da Daniel Zarza, dalla tavola del Preliminare del 1982 e da tredici tavole strutturali del piano del 1984.

Il numero delle pagine e quello delle persone coinvolte non è tanto significativo, quanto la qualità dei testi e il loro assemblaggio secondo un’articolazione tematica che segue con finezza una logica precisa per guidare passo a passo nell’avvicendarsi di entusiasmi, confronti e scontri.

Il primo volume si apre con le presentazioni politiche e con l’ampio testo critico di Sambricio, che descrive il dibattito urbanistico e culturale e guida alla lettura dei testi.

La prima sezione è dedicata a coloro che fecero parte del gruppo di lavoro; Leira approfondisce i contenuti e le innovazioni del piano, ripresi e sviluppati nel secondo volume e per finire con i tre testi di Mangada, di Damian Quero e di Carlo de la Guardia che ne raccontano la fine: Mangada spiega l’importanza di Galván nella costruzione di questo “último gran plan”; Quero ritiene “más oportuno y de mayor interés sea (…) dirigir una mirada inversa: desde el punto de vista de entonces hacia lo que hoy sucede aquí”(15) per denunciare il deserto disciplinare in cui si è impantanata l’urbanistica, e de la Guardia rievoca la crisi politica del PCE nei suoi riflessi sulla gestione comunale dell’urbanistica.

Nel secondo volume le prime testimonianze illuminano gli antecedenti e sono introdotte da Ramos che illustra l’organizzazione tra gli uffici e all’interno della Oficina. L’insieme mostra le premesse: alleanze politiche, strategie, criteri e obiettivi convergono in una filosofia del piano non burocratica e si concretano grazie alla condizione di eccezionale dinamismo e cooperazione. In questo quadro, anche se con uno speciale rilievo, sono accolte le testimonianze dei tecnici di fiducia dei quattro partiti maggioritari. Mi soffermo inizialmente su alcuni testi, quello di Susan Larson e quello di Álvaro Sevilla-Buitrago dedicati a Lefebvre, o su quello ancora di Álvaro Sevilla-Buitrago su Manuel Castells, ma poi mi attira quello di Joan Roger Goncé sui rapporti tra PCI e PCE, che rimanda al suo testo di qualche anno prima “La città futura”, dove approfondiva gli scambi culturali veicolati dai partiti, essenziali nel definire e programmare le politiche redistributive anche a livello territoriale(16).

L’ultima e ricca sezione è dedicata alle ragioni del piano, ai livelli di attuazione, ai punti di forza e alle criticità, allo scopo di spiegare l'impianto del piano e la concretezza delle proposte; sono nove capitoli per tratteggiare gli interventi strutturali e infrastrutturali, sulle abitazioni, sulla rete stradale e sulla mobilità, sui servizi pubblici con mínimos estándares de calidad e sulle attrezzature collettive, sul terziario, sugli spazi aperti e sul verde pubblico, sulle zone di degrado urbano, sugli interventi di recupero e di riqualificazione e sulle modalità per trasmettere la conoscenza del piano ai cittadini. Da notare come alla rete dei trasporti e della mobilità spetti il ruolo di simbolo del piano con la demolizione del viadotto denominato Scalextric e il completo ammodernamento architettonico e funzionale della contigua stazione di Atocha, che divenne emblema del piano nella sua riprogettazione di Rafael Moneo.

L’epilogo spetta a Victoriano Sainz, che lo ricorda come piano della terza generazione, come Premio Abercrombie nel 1987 e come esempio dell’urbanismo urbano alla Solà-Morales e lo contestualizza nelle sue influenze sull’urbanistica spagnola e nei suoi echi a livello internazionale.

Sambricio aggiunge in fondo una nota esplicativa -così definita con un certo minimalismo- breve e non marginale, a cui seguono le dodici tavole strutturali del piano presentate nel 1984.

Il risultato edito con grande accuratezza offre diverse modalità di lettura per appropriarsi dell’insieme: approfondimento dei temi; ricerca delle relazioni tra temi e autori; confronti con altri piani e altri testi.

Dunque, bisogna leggere e rileggere, studiare e riflettere perché al centro di tutto sta qualche cosa che stavamo per dimenticare: l’urbanistica nella sua dimensione complessa di relazione tra molte discipline e di sintesi in un continuo divenire di mutazioni.

 

Troppo spesso si riduce l’urbanistica al piano, facendo subito seguire un sillogismo che identifica il piano con la rigidità delle norme, dei vincoli e delle procedure per giungere a sostenere che l’urbanistica, in quanto o ragioneria o burocrazia, va riformata se non abbandonata. Entrambe le accuse hanno lo scopo di essere di per sé infamanti senza abbisognare di rigorose dimostrazioni. La verità che questo bersaglio comune, che coinvolge ampi settori, anche se non sempre alleati, di fatto condivide argomentazioni della deregolazione, che vedeva qualsiasi pianificazione o programmazione come inutili ingerenze.

All’interno della stessa Oficina, il contrasto tra l’idea di piano e la progettazione è sempre stato latente, spesso generando incomprensioni, anche se lo stesso Manuel de Solá-Morales su Arquitectura (Revista del Colegio Oficial de Arquitectos de Madrid) dopo un certo sarcasmo iniziale sviluppa la critica al piano convenzionale elogiando la forma aperta all’architettura del nuovo piano:

«Como en los tiempos heróicos del Londres de Abercrombie o del Regional Plan neoyorquino del 29, el Plan se presenta como un mensaje global, universal, genérico, dirigido a la totalidad de la ciudad. Como una solución comprensiva anunciada a trompeta a todos los ciudadanos. (…)
El avance es bueno en este sentido. Sobre todo, si abandona cierta pretensión de programación municipal absoluta, comprensiva y total (el agua, el comercio, el transporte ferroviario, algo independiente a esta escala) y se concentra en las imágenes de ese Madrid propuesto en el trazado y forma de las calles, en el carácter arquitectónico y funcional de los nuevos centros de servicios, en la mezcla de áreas de industria que plantea, en el paisaje natural de sus periferias libres. Esto son sus grandes contenidos como Plan, los que pueden convertirlo en intervención trascendental sobre la ciudad
»(17).

 

Se non ora, quando?

Nel rispondere alle richieste di memorie e riflessioni sul piano regolatore di Madrid del 1985 e del suo contesto in molti sentono di dover spiegare le motivazioni e l’utilità di rilanciare il tema a iniziare dagli stessi Leira e Mangada che scrivono rispettivamente:

«Volver a hablar hoy, en 2018, del Plan General de Madrid (PGM) de 1985, más de treinta años después de su aprobación, resulta cuando menos sorprendente. Es difícil. Exige recordar muchas cosas tantas veces olvidadas. Es inevitable hacerlo con ojos de hoy. No se trata de hacer solo una reseña histórica. Deviene algo atractivo y que además, afírmenoslo de entrada: puede resultar necesario. Haciéndolo, uno llega a la conclusión de que convenía hacerlo, y la oportunidad se agradece. Y ello en un doble plano.
El primero, básicamente recordatorio, e incluso reivindicativo, dedicado a glosar sus contenidos, en aquel momento tan novedosos. (...)
El segundo, con mayor alcance, consiste en la oportunidad de contrastar la relación, tan poco lineal y directa, entre planes y resultados (...)
».

«La duda se refiere no tanto a la oportunidad de la merecida recuperación histórica de aquel amplio y culto documento, sino hasta qué punto su análisis, su lectura política y disciplinar nos puede servir hoy para interpretar y valorar la situación del urbanismo en Madrid, tanto en sus fundamentos políticos y disciplinares como en los mecanismos de intervención y control que le prestan solidez institucional.
A pesar de esta duda inicial, entiendo oportuno revindicar aquel Plan y su denso proceso de formulación, pasados más de treinta años, si tenemos en cuenta su sólida fundamentación política, su esforzada lectura de la realidad madrileña, las innovaciones disciplinares respecto al planeamiento convencional y la clara voluntad de «recuperar Madrid» para los ciudadanos y no sólo para los propietarios y promotores
»(18).

L’attualità è marcata da una generale difficoltà della sinistra e del riformismo, spesso immobilizzate entro schemi che non potevano, né possono, reggere con la rapidità e la forza delle trasformazioni sociali e delle tensioni internazionali destabilizzanti, per tacere dell’abilità trasformista del neoliberismo che si definisce democrazia capitalista, che mentre occupa la democrazia reclamando l’arretramento degli stati e dell’azione pubblica ne reclama risorse. Ogni tatticismo si rivela pericoloso, la necessaria lentezza della politica richiede necessariamente fermezza e consenso sociale oggi impensabili, ma che allora animavano il clima culturale della sinistra europea e in particolare di quella italiana del compromesso storico, con i programmi politici dei comunisti italiani e francesi ove per tutti l’urbanistica era strumento di riequilibrio sociale e di protezione ambientale, al contrario di quella certa diffidenza che piuttosto trapelava nelle tesi della sociologia francese. Italia e Spagna erano apparentate da due transizioni eclatanti che significavano l’uscita da una inamovibile contrapposizione su tutti gli aspetti sociali e economici.

Con silenziosa tenacia in attesa di occasioni di rivalsa l’opposizione stava all’erta ma non inerte: le strategie della tensione degli attentati si alternavano a ipotesi di colpi di Stato. In Italia prendevano vita fronde silenziose, come quella loggia massonica che nell’ombra predisponeva il Piano di Rinascita Democratica in cui negava l’urbanistica a favore dei trasporti e con cui cercava trasversali adepti, finché la magistratura non ne portò alla luce i suoi risvolti inquietanti, non certo riducibili a una simpatica e goliardica farsa di paese. Quei fatti assieme all’omicidio di Moro e agli attentati prima a Berlinguer e dopo a papa Wojtyla mostravano quanto pesante fosse la continuità delle azioni di destabilizzazione.

L’urbanistica della transizione spagnola non è scevra di simili drammaticità e la sua storia affronta tutti gli elementi in gioco, accerta fatti e circostanze, evita frasi fatte, è sempre attenta alla situazione nel suo complesso. L’ascolto di dubbi e perplessità, di convinzioni e di tensioni mostra a tutto tondo la vicenda disciplinare, i suoi intrecci con la politica, con la società civile e con le attività economiche. Essa non riguarda Madrid o la Spagna soltanto ma la disciplina stessa nella sua dimensione teorica.

L’insieme dei fatti, delle politiche e delle dichiarazioni mette a confronto il piano con l’evolversi della situazione politica che ne dichiara la fine. Il nuovo corso politico impresso dopo il 1989 conduce a una giunta centrista di grande stabilità che nemmeno la bolla immobiliare del 2008 ha potuto far oscillare, ma che al contrario l’ha saputa cogliere come occasione per riproporre la massimizzazione dell’offerta di edificabilità decorata con tecnocratico razionalismo.

Il ritorno della sinistra sostenuta da Podemos alla guida di Madrid nel 2015 pareva rilanciare la possibilità di alternative proprio a iniziare dalla riflessione sulla transizione urbanistica: ne erano pienamente consapevoli Manuela Carmena, nuovo sindaco e moglie di Leira, e José Manuel Calvo del Olmo, assessore al Gobierno de Desarrollo Urbano Sostenible. Fu solo una breve parentesi; le difficoltà di consenso politico su annose e grandi operazioni immobiliari come Chamartín e Distrito Castellana Norte alimentavano scontri interni e espulsioni combinandosi con il calo di consensi sociali e di partecipazione. La crisi emerge aprendo le porte a un imprevedibile e incredibile ricambio politico: nel 2019 la battaglia è persa e nel 2021 la sconfitta pare totale, con un centro sempre più inclinato a destra.

Sono questi fatti, ma non solo questi che fanno capire quanto quell’importanza trascenda il momento storico e il luogo. La crisi vissuta nel presente si proietta in avanti, infiacchisce l’impegno, ma non lo estingue; si deve solo trovare la forza di riflettere, bisogna riorganizzare il modo di pensare per rilanciare la sfida.

La lezione del 1985 è più che mai attuale.

 

L’urbanistica innanzitutto

Tra il piano, l’attuazione e la città fisica non c’è continuità, anzi spesso si frappongono fratture, terre di nessuno ove si generano le azioni di chi è preposto alla sua attuazione e che l’urbanista non può né prevedere né controllare.

In altri termini, l’urbanistica entra nella vita della città attraverso un miscuglio eterogeneo di azioni, la cui coerenza, o incoerenza, quando riesce prende vita nel piano e matura come può nella gestione quotidiana. Si vuole un risultato e non lo si ottiene, anzi capita che se ne ottenga un altro diverso se manca la cooperazione di funzionari e amministratori, che stanno tra il piano e la città.

Senza palesi spiegazioni la sequenza quotidiana dei fatti persegue un'eterogenesi dei fini: il piano è legge, ma la sua attuazione non persegue sempre la sua linea, né gli stessi obiettivi nel tempo. Proclami e annunci non bastano; occorre sostenere i piani con la volontà politica che si concreta in risorse umane e economiche.

Per questo ora vorrei generalizzare le mie riflessioni spostando l’attenzione dal piano in sé alla disciplina.

Sono sempre stato convinto che l’urbanistica sia composta da un insieme di azioni che modificano l’organizzazione del territorio, intervenendo sulla distribuzione della popolazione e delle strutture produttive e delle infrastrutture di servizio e sui sistemi di relazioni. Il piano urbanistico approvato ha un valore di legge locale per guidare i cambiamenti, ma anche la sua assenza significa un accordo politico, un modo per fare urbanistica fuori da ogni controllo.

 

Il libro di Sambricio e Ramos non semplifica la storia e mostra le difficoltà per una sua valutazione. All’inizio vi fu la passione e al termine si giunge con lentezza e crescente disaffezione, sospinti dai nuovi indirizzi economici del governo centrale.

Molti ricordano quell’esperienza come esempio di urbanistica marxista, ma lo dicono come avvertimento: mantenete la distanza, perché quell’utopia, forse simpatica, è pericolosa. L’accusa di ideologia è l’arma finale della destra, come scriveva Luis Enríquez de Salamanca quando nel mezzo della transizione si stava definendo un piano "anticapitalista que busca no sólo cambiar la ciudad sino también cambiar el modelo de sociedad"(19). L’antitesi tra la società del proprietario e quella del proletario proclamata dal franchismo non cessava di esistere. Nella mole delle testimonianze compare persino William Alonso, “prestigioso experto internacional en economía urbana”, per dichiararne l’obsoleta vetustà, un “enfoque conservador”(20).

La questione urbanistica riguarda l’assetto del territorio, tema delicatissimo perché riguarda tutto il sistema sociale produttivo e riproduttivo, conteso tra forze opposte di distribuzione e redistribuzione, e perché offre remunerazioni rapide e non marginali agli investimenti di capitale. Il capitalismo raramente vede altri interessi e spesso solo se è obbligato; la sua miopia lo rende “straccione” incapace di giustizia. Gli effetti collaterali di queste politiche sono il degrado urbano, la rigenerazione urbana con emarginazione sociale, l’azzonamento sociale con la geopolitica locale e la geografia elettorale, i dualismi tra paesi ricchi e paesi povere, tra città e le campagne del mondo, tra la città dei ricchi e la città dei poveri.

Il punto di vista italiano non può che essere espresso da analoghe analisi delle vicende urbanistiche di casi concreti, su cui cui agganciare le diverse maniere di pensare l’urbanistica, a iniziare da Bologna per arrivare a Roma, magari senza trascurare quelle di Torino e della Milano – queste importanti non solo per le difficoltà di predisporre piani urbanistici ma anche perché furono occasione per memorabili confronti sull’idea di piano da interpretare alla luce dell’urbanistica della transizione (21) – e senza trascurare le peculiarità dell’Emilia Romagna ove il rapporto della politica con la popolazione e con le imprese riuscì a creare per lungo tempo una società coesa, solidale e riformista. Sono tanti gli esempi italiani in cui la partecipazione scorre con le stesse dinamiche tra formazione e informazione, tra cooptazione e contestazione, tra strumento di carriera e di lotta politica.

Si tratta di percorsi non facili, ma campi di studio indispensabili per riportare l’urbanistica all’attenzione della politica per la sua capacità di incidere nella vita sociale negli equilibri ambientali e nello sviluppo economico. Non bisogna temere di mostrarne ragioni e significati; per modificare l’ascolto territoriale, l’impegno e la passione civica e la formazione professionale, magari ricominciando dal confronto tra ipotesi iniziali, formalizzazione del piano e attuazione.

Questi piani non sono un inutile passato.

La città e l’organizzazione territoriale mutano forme e strutture sotto le spinte dei mutamenti socio economici: questo accadeva allora e ora, a Madrid come a Roma. Questi mutamenti sono oggetti di contese e di scontri. La cesura con il franchismo, per quanto prevedibile, richiese scelte rapide, permettendo di mescolare tutte le idee che il 68 aveva fatto emergere e maturare; i valori del piano erano sospinti a trascendere l’evento locale assorbendo valori da tutti i paesi in fermento. La reazione seppur lenta riuscì a contrastare quelle idee riportando l’urbanistica nella sua difficoltà di essere.

L’approccio chiaro e documentato di El urbanismo de la transición scorre tutta la vicenda urbanistica di Madrid: ogni schema, ogni sintesi rischia di tralasciare qualcosa, ma credo sia necessario riconoscere come grande merito l’aver voluto rappresentare quel periodo con completezza, ripercorrendo i diversi percorsi paralleli della politica, dell’urbanistica e dell’architettura. Dal mio punto di vista va letto assieme alla documentazione della Rivista Urbanistica sul PRG di Roma avviato nel 1995 e approvato nel 2008, tanti sono gli elementi in comune e tante sono le somiglianze, nonostante il tempo trascorso tra i due piani(22).

El urbanismo de la transición è un documento inappellabile con lo sguardo rivolto al futuro, perché gli interrogativi sul ruolo della disciplina di allora sono fondamentali e più che mai attuali. Si possono mettere in discussione le diverse posizioni, ma Sambricio e Ramos ne forniscono il contesto, offrono l’opportunità di rintracciare le reti di relazioni tra le parti in gioco grazie a un patrimonio di citazioni e rimandi circostanziati. Come pubblici ministeri hanno raccolto le testimonianze delle parti, nelle loro visioni personali, offrendo un affresco vivissimo dell’urbanistica. Non hanno dimenticato i temi controversi e le opposizioni che hanno reso drammatico lo scontro tra urbanistica e neoliberismo, che hanno confuso il ruolo dell’urbanistica e della politica, che hanno alterato i rapporti tra squilibri sociali e proposte, tra priorità di intervento e mancate attuazioni.

Fuori da qualsiasi preconcetto e manipolazione, la loro storia parla della disciplina; la loro lettura della politica, dei rapporti tra i partiti, delle fasi delle elaborazioni e delle scelte, la loro interpretazione della partecipazione tra base e vertici politici, il conflitto apparente tra le scale operative sono esattamente gli elementi necessari per formulare valutazioni concrete. Mai come ora i termini della questione urbanistica possono essere visti nella loro dimensione reale, che non è altro che la dimensione sociale del vivere umano.

Il lettore, sempre che voglia reggerne la responsabilità, è lui il giudice, che non può esimersi dal prendere posizione; deve sciogliere i nodi sulla valutazione del piano e sulla disciplina. Non ha scuse.

In questi tre o quattro decenni è cambiato tutto: la questione urbana da locale è diventata globale, trasformandosi e dilatandosi nella questione ambientale, gli squilibri sociali sono aumentati ma non la loro consapevolezza, la questione disciplinare è stata travolta a favore delle politiche dei grandi progetti architettonici capaci di ammaliare anche chi più ne era colpito.

 

All’insegna dell’emozione, in conclusione

Per quanto i disegni di Zarza avrebbero meritato dense chiose e discussioni e per quanto avrei gradito brevi note sugli autori, queste non sono altro che quisquilie, piccoli dettagli ininfluenti rispetto al monumento più perenne del bronzo che Sambricio e Ramos hanno eretto a quel tempo incredibile di invenzione, di coraggio e di emozione.

Senz’altro questo testo come scrive anche Monclús rimarrà riferimento(23); senz’altro vi sono mille altre connessioni, tra cui le diverse accezioni di scienza oppure le organizzazioni del lavoro del Greater London Council, quando c’era, e le strategie territoriali di Parigi e della Grand Paris, ma non ora perché questa è l’occasione per discutere il pensiero sull'urbanistica, per parlare di politica e di amministrazione del territorio, nella loro essenza, ma anche di un altro aspetto nascosto tra le righe: la loro ricostruzione ci trasporta in un ambiente aperto e innovatore, animato da passioni e entusiasmi e su queste sensazioni vorrei soffermarmi.

Senza particolare enfasi diversi autori mettono in luce una caratteristica che fa della Oficina un caso da manuale del lavoro di gruppo teso tra regole e emozioni sotto il segno della consapevolezza del momento particolare che esige urgenza e capacità di sintesi. Le regole della Ley del suelo 1975 sono chiare, si possono cambiare e nei fatti saranno cambiate altre volte, ma quelle regole sono i vincoli entro cui muoversi, così come altre regole sono dettate dalla divergenza tra governo centrale e governo locale: la passione civile e l’impegno politico li affrontano consapevolmente per trasformare ogni confronto in fonte di invenzione. Le stesse cinquanta idee per Madrid restano un eccezionale esempio dell’inventiva del gruppo.

Le modalità di lavoro emergono di continuo, il più delle volte indirettamente, quando si parla del ritmo con cui sono espletate le varie fasi o del ruolo della direzione; Fernando Gutiérrez Arroyo ricorda che Galván ebbe la cortesia di far inserire anche la guardia municipale (Luis el cancerbero) nel diploma del Premio Abercrombie, tanta fu il suo sostegno al lavoro del gruppo.

Credo che proprio in questa lettura sia da riconoscere la grande qualità di Galván, Leira e Mangada nel dirigere, coordinare, aggregare e sostenere i lavori della Oficina e dell’assessorato affrontando e dirimendo divergenze concettuali e operative. Con questo spirito rileggo di Bohigas, anima del piano metropolitano di Barcellona e sostenitore della progettazione contro la pianificazione, che ammette di avere superato l’avversione al piano grazie all’originalità del pensiero camposiano, al suo “reformismo revolucionario”. A sua volta Leira, nella stessa occasione, ricorda un invito a Bologna assieme a Bohigas per discutere sui rapporti tra piano e progetto:

«Los discutimos en común en una jornada que con ese objectivo organizó el propio Campos en Bologna, en el Instituto Gramsci, en algún año de los 80. Oriol defendia los "projectos" y explicó sin embargo el mejor plan. Yo defendia el "plan" y mostré el contenido conceptual, proyectual, del Plan de Madrid. Campos concluyó con una lúcida reflexión integradora, escatológica referencia a Dios y al diablo, con papeles que, como en otros tantos aspectos, parecieran confundidos»(24).

Il lavoro di gruppo si mosse per necessità tra regole e emozioni per arrivare a lucide riflessioni di sintesi.

Sento quelle voci risuonare intorno a me, mi pare vedere Galván approvare; so che a loro non posso chiedere nulla, perché spetta a noi, e a chi seguirà, rispondere e trasmettere l’eredità delle loro lezioni.

Luca Marescotti

 

 

Note
1) Volodomyr Durmanov della Bialystok University of Technology.
2) Aimeur 2019: solo il titolo dell’articolo meriterebbe anche in Italia qualche riflessione.
3) Campos Venuti 1984a.
4) Ho riportato in nota i riferimenti ai due volumi recensiti tra parentesi quadre.
5) Mora, Castrillo Romón 2004; Campos Venuti 2000.
6) Vinuesa Angulo et al. 2013.
7) Si confronti lo studio dei rapporti dei movimenti di base con l’urbanistica di allora con la visione attuale in: Fernández Salgado 2011.
8) Nel 1973 Enrico Berlinguer propose il "compromesso storico" su Rinascita e con questo tema Campos Venuti iniziava il suo Urbanistica e austerità.
9) Terán Troyano 1978.
10) Terán Troyano 1981, p. 8 col 1 e p. 10 col 2.
11) Castells et al. 1977; Partido Comunista de España 1979.
12) Mangada Samain 1980, in parte riportato in: Mangada Samain 2013.
13) [vol 1: p. 48].
14) Campos Venuti 1984b. Entrambi nello stesso numero di Ciudad y Territorio.
15) [vol 1: p. 290].
16) Goncé 2017; in versione ridotta: [vol 2: pp. 38-39].
17) Solá-Morales 1982, p. 32 col. 1; p. 34 col. 2.
18) [vol 1: p. 108 e vol 1: p. 274 col 1]
19) In un articolo del 1982 citato da Sambricio [vol 1: p. 57] e riconfermato nella visione tecnicistica attuale [vol 1: p. 246].
20) [vol 1: p. 232 col 2]
21) Mottini 1982 con la risposta di Radicioni 1982.
22) Si vedano: il numero speciale di Urbanistica dedicato al piano di Roma (Laura Ricci 2001); il numero dedicato alla memoria di Oliva (Camerin et al. 2018); il confronto tra architetti sul piano di Roma del 2008 (Minelli 2020a) e il confronto tra gli assessori all’urbanistica di Roma dal 1993 al 2017 (Minelli 2020b).
23) Monclús Fraga 2020.
24) Mora, Castrillo Romón 2004, rispettivamente Bohigas a p. 26 e Leira a p. 40.

 

Riferimenti

  • Aimeur, Carlos. 2019. “El desconocido libro que cambió la historia de València.” Valencia Plaza. https://valenciaplaza.com/el-desconocido-libro-que-cambio-la-historia-de-valencia.
  • Camerin, Federico, Antonella Dell’Orto, Marika Fior, Alfonso Álvarez Mora, Antonio Font, Paolo Galuzzi, Roberto Morassut, et al. 2018. “Primo piano. Ricordando Federico Oliva.” Urbanistica LXX (161): 16–83.
  • Campos Venuti, Giuseppe. 1984a. “Recuperar Madrid.” Problemi Della Transizione, no. 15: 119–127.
  • Campos Venuti, Giuseppe. 1984b. “Plan o Proyecto: una falsa alternativa.” Ciudad y Territorio. Estudios Territoriales, June, 55–60.
  • Campos Venuti, Giuseppe. 2000. Territorio. Bologna: CLUEB.
  • Castells, Manuel, Eduardo Leira, Ignacio Quintana, Julian Rebollo, Emilio Rodriguez, Ramon Tamames. 1977. Madrid para la Democracia. La propuesta de los Comunistas. Colección Cultural Del Pueblo. Madrid: Editorial Mayoría.
  • Fernández Salgado, Carlos. 2011. “Democracia y participación: el Plan General de Madrid de 1985.” Cuadernos de Investigación Urbanística IV (79): 70.
  • Goncé, Joan Roger. 2017. “La Città Futura. La influencia del Pci en la construcción de la propuesta política municipal del Psuc en la transición.” Spagna Contemporanea XXVI (52): 127–146.
  • Laura Ricci, ed. 2001. “Il Nuovo Piano di Roma. Proposta approvata dalla Giunta Comunale il 20 ottobre 2000.” Urbanistica LXX (116): 41–182.
  • Mangada Samain, Eduardo. 1980. “Criterios y objetivos para revisar el Plan General de Madrid.” CEUMT La Revista Municipal, no. 30 (September): 35–39.
  • Mangada Samain, Eduardo. 2013. “De la ideología al pragmatismo economico. Recordando el Plan General de Ordenación Urbana de Madrid de 1985.” In Reflexiones a propósito de la revisión del Plan General de Madrid, 47–68. Universidad Autónoma de Madrid.
  • Minelli, Claudio. 2020a. Forum: Un nuovo piano regolatore per Roma? Aldo Aymonino, Bruno Moauro, Eliana Cangelli, Ferdinando Pepe, Giancarlo Pietrangeli, Giorgio Tamburini, Luca Ribichini, Luca Zevi, Renato Guidi, Roberto Cassetti, Claudio Minelli. Roma: Visioneroma https://www.visioneroma.it/2020/02/per-roma-un-nuovo-piano-regolatore-visiokeroma/.
  • Minelli, Claudio. 2020b. Un nuovo piano regolatore per Roma? Sei assessori a confronto. Roma: Visioneroma.
  • Monclús Fraga, Javier. 2020. “Una aproximación personal y colectiva al urbanismo de la transición y la experiencia madrileña: C. Sambricio, P. Ramos (Eds.), ‘El urbanismo de la transición. El Plan General de Ordenación Urbana de Madrid de 1985.’” ZARCH, no. 14 (November): 252–253.
  • Mora, Alfonso Álvarez, María A. Castrillo Romón, eds. 2004. Urbanismo. Homenaje a Giuseppe Campos Venuti. Valladolid: Universidad de Valladolid, Secretariado de Publicaciones e Intercambio Editorial.
  • Mottini, Maurizio. 1982. “Urbanista, cambia piano.” L’Unità, 18 agosto.
  • Partido Comunista de España, ed. 1979. Cambiar Madrid. Propuestas comunistas de política municipal. Ciudad y Sociedad. Madrid: Ayuso.
  • Plutarco. 1958. Vite parallele. 2 vols. Torino: Einaudi.
  • Radicioni, Raffaele. 1982. “Anche per l’urbanista il ’68 è lontano ...” L’Unità, 3 settembre.
  • Solá-Morales, Manuel de. 1982. “Plan.” Arquitectura 63 (235): 32–34.
  • Terán Troyano, Fernando de. 1978. Planeamiento Urbano en la España contemporánea. Historia de un proceso imposible. Biblioteca de Arquitectura. Barcelona: G. Gili.
  • Terán Troyano, Fernando de. 1981. “Planiamento en la transición.” Ciudad y Territorio. Revista de Ciencia Urbana, no. 4: 7–10.
  • Vinuesa Angulo, Julio, David Porras Alfaro, José María De La Riva Ámez, Felipe Fernández García (a cura di). 2013. Reflexiones a propósito de la revisión del Plan General de Madrid. Universidad Autónoma de Madrid.

 

 

N.d.C. - Luca Marescotti, architetto, professore associato di Urbanistica in quiescenza, ha insegnato al Politecnico di Milano, alla Scuola di Specializzazione di restauro dei monumenti e alla Scuola di Specializzazione in beni architettonici e del paesaggio. Tra i suoi interessi principali di ricerca ci sono la teoria dell'urbanistica, i modelli e i criteri di valutazione, la cartografia e sistemi informativi geografici. Ha fatto parte di commissioni di Ateneo per la diffusione dell'informatica, è stato responsabile scientifico per i Progetti Finalizzati Trasporti del CNR e ha collaborato con università, società industriali, consorzi universitari e pubbliche amministrazioni per consulenze e ricerche sui trasporti, sui beni culturali, sull'informatica nell'istruzione.

Tra i suoi libri: con M. Alberti, L. Bagini, M. Puppo, Sistemi informativi ambientali e urbanistica, Il Rostro, Milano, 1995; Città tecnologie ambiente, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2004; Urbanistica. Fondamenti e teoria, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2008.

Pubblicazioni in Researchgate.net e Academia.edu: (a cura di) Insegnare l'urbanistica come scienza. Conoscenze e tecnologie appropriate per la sostenibilità e la resilienza nell'urbanistica (2016); L'urbanista e il Piccolo Pianeta (2017); La città globale e le menti collettive tra organizzazione e auto-organizzazione. Quattro conversazioni (2017); Paesaggi (2018).

Per Città Bene Comune ha scritto: Urbanistica e paesaggio: una visione comune (10 giugno 2019)

N.b. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 

 

 


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15 OTTOBRE 2021

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Luca Bottini
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cittabenecomune@casadellacultura.it

iniziativa sostenuta da:
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2017: online/pubblicazione
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2019: online/pubblicazione
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2021:

M. Ruzzenenti, Il territorio dopo il Covid (e prima del PNRR), commento a: A. Marson, A. Tarpino (a cura di), Abitare il territorio al tempo del Covid, “Scienze del territorio”, numero speciale 2020

R. Pavia, Le città di fronte alle sfide ambientali, commento a: Livio Sacchi, Il futuro delle città (La nave di Teseo, 2019)

C.Salone, Oltre i distretti, dentro l'urbano, commento a: C. Mattioli, Mutamenti nei distretti (FrancoAngeli, 2020)

O. Marzocca, L'ambiente dell'uomo e l'indifferenza di Gaia, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

G. Consonni, Il passato come risorsa del progetto, commento a: A. Lanzani, Cultura e progetto del territorio e della città (FrancoAngeli 2020)

F. Indovina, Urbanistica? Bologna docet, commento a: R. Scannavini, Al centro di Bologna, 1965-2015 (Costa Editore, 2020)

S. Brenna, È questa l’urbanistica che vogliamo?, Commento a: P. Berdini, Lo stadio degli inganni (DeriveApprodi, 2020)

S. Moroni, Oltre la retorica dell’attivismo civico, commento a: C. Pacchi, Iniziative dal basso e trasformazioni urbane (Bruno Mondadori, 2020)

P. Pardi, Dal territorio una nuova democrazia, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

L. Carbonara, Riappropriarsi delle origini (di Mogadiscio), commento al catalogo della mostra curata da K. M. Abdulkadir, G. Restaino, M. Spina

C. Diamantini, La città nella tela del ragno, commento a: R. Keeton, M. Provost, To Built a City in Africa (nai010 publishers, 2019)

C. Petrognani e A. P. Oro, Paesaggi della pluralità, commento a: E. Trusiani et al. (a cura di), Paisagem cultural do Rio Grande do Sul, supplemento al n. 24/2021 di “Visioni LatinoAmericane”

E. Scandurra, Roma, e se non capitasse niente?, Commento a: W. Tocci, Roma come se (Donzelli, 2020)

G. Demuro, Custodire la bellezza insieme, commento a: G. Arena, I custodi della bellezza (Touring Club Italiano, 2020)

A. Casaglia, L'invenzione (e l'illusione) dei confini, commento a: L. Gaeta e A. Buoli (a cura di), Transdisciplinary Views on Boundaries (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2020)

R. Pugliese, Comporre nuove urbanità, commento a: A. De Rossi (a cura di), Riabitare l'Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste (Donzelli, 2018)

L. Bonesio, Dall'uso-consumo all'uso-cura del mondo, commento a: O. Marzocca, Il mondo comune (Manifestolibri, 2019)

G. Amendola, La città è fatta di domande, commento a: A. Mazzette e S. Mugnano (a cura di), Il ruolo della cultura nel governo del territorio (FrancoAngeli 2020)

C. Bianchetti, Incoraggiare rotture e nuovi germogli, commento a: Camillo Boano, Progetto Minore (LetteraVentidue, 2020)

M. Balbo, La città pensante, commento a: A. Amin, N. Thrift, Vedere come una città (Mimesis, 2020)

G. Pasqui, La ricerca è l'uso che se ne fa, commento a: P. L. Crosta, C. Bianchetti, Conversazioni sulla ricerca (Donzelli)

R.R., L'Urbanistica italiana si racconta, introduzione al video: E. Bertani (a cura di), Autoritratto di Alberto Magnaghi (Casa della Cultura 2020)

S.Saccomani, La casa: vecchie questioni, nuove domande, commento a: M. Filandri, M. Olagnero, G. Semi, Casa dolce casa? (il Mulino, 2020)

G. Semi, Coraggio e follia per il dopo covid, commento a: G. Nuvolati, S. Spanu (a cura di), Manifesto dei Sociologi e delle Sociologhe dell’Ambiente e del Territorio sulle Città e le Aree Naturali del dopo Covid-19, (Ledizioni, 2020)

R. Riboldazzi, Per una critica urbanistica, introduzione a: Città Bene Comune 2019 (Ed. Casa della Cultura, 2020)

M. Venturi Ferriolo, Contemplare l'antico per scorgere il futuro, commento a: R. Milani, Albe di un nuovo sentire (il Mulino, 2020)

S. Tagliagambe, L'urbanistica come questione del sapere, commento a: C. Sini, G. Pasqui, Perché gli alberi non rispondono (Jaca Book, 2020)

G. Consonni, La coscienza di luogo necessaria per abitare, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

E. Scandurra, Nel passato c'è il futuro di borghi e comunità, commento a: G. Attili – Civita. Senza aggettivi e senza altre specificazioni (Quodlibet, 2020)

R. Pavia, Roma, Flaminio: ripensare i progetti strategici, commento a: P. O. Ostili (a cura di), Flaminio Distretto Culturale di Roma (Quodlibet, 2020)

C. Olmo, La diversità come statuto di una società, commento a: G. Scavuzzo, Il parco della guarigione infinita (LetteraVentidue, 2020)

F. Indovina, Post-pandemia? Il futuro è ancora nelle città, commento a: G. Amendola (a cura di), L’immaginario e le epidemie (Mario Adda Ed., 2020)

G. Dematteis, Il territorio tra coscienza di luogo e di classe, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

M. Ruzzenenti, Una nuova cultura per il bene comune, commento a: G. Nuvolati, S. Spanu (a cura di), Manifesto dei sociologi e delle sociologhe dell’ambiente e del territorio sulle città e le aree naturali del dopo Covid-19 (Ledizioni, 2020)

F. Forte, Una legge per la (ri)costruzione dell'Italia, commento a: M. Zoppi, C. Carbone, La lunga vita della legge urbanistica del '42 (didapress, 2018)

F. Erbani, Casa e urbanità, elementi del diritto alla città, commento a: G. Consonni, Carta dell’habitat (La Vita Felice, 2019)

P. Pileri, Il consumo critico salva territori e paesaggi, commento a, A. di Gennaro, Ultime notizie dalla terra (Ediesse, 2018)