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LE PAROLE DELL'URBANISTICA


Commento al libro di Antonio Alberto Clemente



Rosario Pavia


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Il libro di Antonio Alberto Clemente, Letteratura esecutiva. Cultura urbana e progetto (LetteraVentidue, 2020), è un invito alla lettura e, nello stesso tempo, un meditato esercizio di scrittura. La letteratura, nel suo dispiegarsi come sfondo culturale trasversale, diventa “esecutiva” nel senso strumentale di apparato di sostegno per l’interpretazione del contesto e la formazione del progetto. In questa prospettiva la letteratura esecutiva è “una modalità di pensiero transdisciplinare in cui confluiscono e diluiscono una pluralità di saperi”. Più ancora “è un appello a costruire una biblioteca in un’epoca che le disdegna” (pp.17-18). L’invito è esplicito e quanto mai attuale in una fase in cui nelle scuole di architettura persiste da tempo un allontanamento dalla lettura e dall’approfondimento dei testi che in modo trasversale possono fornire le basi culturali in cui collocare autori, opere, progetti, piani. La lettura va dunque assunta come viatico per instaurare con quei testi un rapporto di scambio e di collaborazione in quanto la loro assimilazione entrerà a far parte di una personale sensibilità e cultura progettuale dei giovani architetti.

In passato la letteratura era prevista nei corsi di studio in molte facoltà di architettura: a Roma prendeva il nome di Letteratura artistica. Il riferimento era evidentemente l’opera di Lionello Venturi. Fu Bruno Zevi a introdurre quella dizione in occasione della riorganizzazione del corso degli studi, dopo la contestazione studentesca nei primi anni del ’60. Del resto fu sempre Zevi, nel 1949, a volere tra le rubriche della rivista “Urbanistica” uno spazio specifico dedicato alla Letteratura Urbanistica. Ritroveremo questo interesse solo durante la direzione di Bernardo Secchi (1985-90).

Un testo di riferimento, per chi voleva accostarsi alla comprensione della città moderna e alle teorie urbanistiche che ne avevano sostenuto l’affermazione, è stato indubbiamente il libro di Francoise Choay Città. Utopie in Italia e realtà (uscito per Einaudi nei primi anni ’70). Un’antologia efficace che spaziava da testi disciplinari a testi filosofici e letterari (1). Ma il libro della storica francese che penso abbia maggiormente influenzato Antonio Clemente è La regola e il modello sulla teoria dell’architettura e dell’urbanistica (Officina, 1986) in cui si analizzano a fondo i testi “inaugurali” di Leon Battista Alberti, il De re aedificatoria, e quello di Ildefonso Cerdá, la Teoria General de la Urbanizacion. Da un lato Alberti, architetto e letterato umanista, che apre al linguaggio rinascimentale, dall’altro Cerdá, ingegnere e tecnico, che ricorre ai libri per cercare le parole giuste per definire una nuova disciplina, un nuovo sapere capace di misurarsi con un fenomeno del tutto inedito e inatteso: l’espansione della città. Cerdá deve scavare nel significato delle parole, trovare un termine che vada alla radice, al fondo della costruzione urbana, al rito di fondazione. La troverà nello strumento che solcava il suolo, tracciando il perimetro della città futura: l’aratro, ovvero l’urbum, da cui urbs, urbaninization, urbanizzazione.

Non a caso nel libro di Clemente il primo capitolo è dedicato proprio a Cerdá intento a documentarsi e consultare “i cataloghi di tutte le biblioteche nazionali e internazionali”. Cerdá si circonda di libri, ha bisogno di trovare la sua letteratura esecutiva, per costruire una nuova cultura progettuale. “L’inadeguatezza della parola diventa il presupposto per dare avvio alla ricerca di un nuovo termine che aderisca maggiormente alla realtà complessiva del territorio; che riduca lo scarto con il fenomeno urbano; che sappia coniugare le ragioni della semantica con quelle della pianificazione” (p.31).

Clemente adotta un suo modo originale per ricercare i testi più adeguati a rinnovare le conoscenze necessarie per colmare la distanza tra le parole e le pratiche operative, per andare oltre, come diceva Bernardo Secchi, la “peste del linguaggio”. Non ricorre al dispositivo antologico, ma a una forma discorsiva in cui le numerose citazioni delineano uno sfondo culturale variegato, incerto, ma attento a cogliere le trasformazioni e le metamorfosi del territorio urbano. Il suo è un lavoro di montaggio, in cui la citazione, per dirla con Walter Benjamin, “chiama la parola per nome, la strappa dal contesto che distrugge, ma proprio per questo la richiama anche alla sua origine” (p. 20). Clemente è riuscito a piegare la citazione al suo racconto da cui traspare una città complessa, discontinua, che rifugge alle interpretazioni superficiali e richiede letture attente e selettive. È evidente la ricerca di un lessico per “prendere congedo dal linguaggio dell’urbanistica moderna e dal suo vocabolario” (46). Letture di contesti urbani e territoriali intricati, sommersi da incrostazioni edilizie, da un disordine labirintico in cui ci si può perdere; e letture di contesti di lingue parlate e scritte, ugualmente confuse e afone. Clemente ci prova, muovendosi tra Calvino e Borges, affascinato dalla ricerca di esattezza e di rigore del primo e dalla capacità del secondo di accettare l’incertezza e la molteplicità di senso di una realtà labirinto.

La letteratura serve a questo: a dare senso e parola alla confusione del mondo, alla sua forma babelica. È lo stesso compito che Ludovico Quaroni, con il suo libro La Torre di Babele, affidava all’architettura e al progetto (2).

Il rapporto tra letteratura e progetto, tra amore della lettura e passione e impegno nell’architettura e nell’urbanistica, viene indagato attraverso le figure di Giancarlo De Carlo, di Bernardo Secchi e di Carlos Martí Aris. Sono tutti grandi cultori della lettura e della scrittura.

Giancarlo De Carlo ha raccontato la sua esperienza professionale per il risanamento del centro storico di Palermo nel libro Il progetto Kalhesa, quasi a ribadire lo stretto legame tra la trama del romanzo e quella della città. Per De Carlo la lettura è fondamentale per la formazione dell’architetto. Ai suoi studenti consigliava di leggere le Città del mondo di Elio Vittorini e Le città invisibili di Italo Calvino “due libri fondamentali se si vuole capire qualcosa delle città e dei territori” (64). Leggere e progettare viaggiano insieme: “si potrebbe dire allora che la lettura deve essere compiuta con mente progettante” (p. 73).

Il rapporto con la lettura-letteratura è stato per Bernardo Secchi un dato costante che si sviluppa nel corso della sua attività di analista, di docente, di urbanista. Nel Racconto urbanistico leggere diventa uno strumento per interpretare lo “spesso strato di parole, di enunciati, di argomenti tra loro eterogenei” (p. 77). Attraverso la lettura dei testi, l’analisi del loro linguaggio, dalle relazioni generali dei piani, ai dispositivi normativi, alla manualistica tecnica, agli articoli giornalistici, è possibile cogliere l’intreccio tra cultura urbanistica, politica e potere. Difficile non cogliere, in questa fase, l’interesse di Secchi per una archeologia del sapere. Le “citta letterarie” costituiscono un’altra sua passione: per loro prevede su “Urbanistica” una rubrica specifica. E quando si impegna nella redazione dei piani urbanistici le indagini fanno ricorso a diverse strategie “camminando, visitando luoghi, enumerando oggetti e materiali, facendo rilievi dettagliati e pertinenti, parlando con le persone e ascoltando le loro storie (…..) e ovviamente leggendo, leggendo molto (p.89).

I confini tra letteratura e urbanistica sono porosi, i saperi si compenetrano e si sostengono, così in un piccolo corso tenuto a Venezia sui libri di urbanistica Secchi non esita a indicare cinque opere letterarie: L’isola del Tesoro per l’affidabilità delle carte, Moby Dick per la centralità del lavoro di ricerca, I viaggi di Gulliver per la conoscenza delle scale; Robinson Crusoe per l’azione quotidiane nella costruzione del futuro, Don Chisciotte della Mancia per l’interazione tra realismo e utopia che è “la sola cosa che ci può muovere e motivare” (p.93)

Clemente trova in Carlos Martí Aris un altro convinto sostenitore del rapporto tra letteratura e architettura. Lo scrittore di riferimento è in questo caso Borges che mette al centro il testo piuttosto che l’autore come singolarità. “L’essenziale è la letteratura non gli individui” dice Borges. La letteratura è fatta di opere, di pagine scritte, allo stesso modo la città è il risultato di interventi diversi, di edifici, di opere di architettura e progetti urbani realizzati. È una scrittura continua di cui occorre mantenere la coerenza; per questo gli interventi debbono essere meditati, consapevoli del testo esistente e degli effetti che possono produrre sullo sviluppo della trama urbana. Martí Aris è contro gli eccessi costruttivi come Borges lo era nei confronti delle individualità letterarie; fa sua la definizione di Eladio Dieste: “l’architettura è la musica dello spazio”, nel senso che è “un ritmo, una specie di modulazione armonica che ci permette di distinguere, senza vederlo, l’ordine nascosto” (106). Rifiuta le architetture autoreferenziali, scultoree e stravaganti, progettate per “lasciare lo spettatore sbalordito, meravigliato, a bocca aperta”. La similitudine scrittura e città diviene sempre più chiara: come l’opera letteraria non ha bisogno di una continua invenzione del linguaggio, così la città non “inventa in ogni occasione una forma diversa. Ogni cosa deriva da qualcosa; ed è esattamente questa concatenazione e continuità delle esperienze che assicura la loro mobilità e apertura” (107). Non è un caso allora, come mette bene in evidenza Clemente, che tutti i libri di Martí Aris dispongono di un accurato apparato iconografico, indispensabile per conoscere a fondo le opere e le architetture della città e motivare, in tal modo, le nuove scelte progettuali.

Clemente delinea con il suo saggio una possibile essenziale biblioteca: una biblioteca non conclusa, ma aperta, perché non ci sono parole ultime, ma sempre “penultime”.

Tra le parole ‘penultime’ vanno inserite quelle che trattano la crisi ambientale, il collasso delle risorse, il cambiamento climatico con le sue ricadute sociali e geopolitiche. È questo il tema nei confronti del quale il progetto appare del tutto sguarnito. Anche qui c’è bisogno di un nuovo lessico e di una “letteratura esecutiva”; e non si tratta solo di proporre alla lettura e allo studio testi scientifici e letterari recenti, ma di tornare indietro e ricostruire il formarsi, dentro la modernità, di una cultura progettuale sensibile alla distruzione dell’ambiente, alla dissipazione delle risorse naturali, all’inquinamento del suolo e dell’acque, agli effetti sociali dello sfruttamento della natura. Tornare indietro per aprirsi a un futuro incerto e a rischio con maggiore consapevolezza (3).

Rosario Pavia

 

 

Note
1) Per l’impiego del dispositivo antologico, Rosario Pavia, L’idea di Città. Teorie urbanistiche della città tradizionale XV-XVIII secolo, Franco Angeli, Torino 1982.
2) Sul tema, Rosario Pavia, Babele. La città della dispersione, Meltemi, Roma 2002.
3) Per un orientamento bibliografico, Rosario Pavia, Tra suolo e clima. La terra come infrastruttura ambientale, Donzelli, Roma 2019; Arturo Lanzani, Cultura e progetto del territorio e della città. Una introduzione, Franco Angeli, Milano 2020; Nicolò Scaffai, Letteratura e ecologia, Carocci, Roma 2017; Alberto Casadei, L’Eco-letteratura che abita il mondo, in “La Lettura. Corriere della Sera”, 18 Aprile 2021.

 

N.d.C. - Rosario Pavia, già professore ordinario di Urbanistica all'Università degli Studi "G. d'Annunzio" di Chieti-Pescara, ha diretto il Dipartimento Ambiente Reti e Territorio dello stesso ateneo e il periodico "Piano Progetto Città".
Tra i suoi libri: Le paure dell'urbanistica (Costa & Nolan, 1996); con A. Clementi, Territori e spazi delle infrastrutture (Transeuropa, 1998); Babele. La città della dispersione (Meltemi, 2002); con L. Caravaggi e S. Menichini, Stradepaesaggi (Meltemi, 2004); Adriatico risorsa d'Europa (Diabasis, 2007); con M. Di Venosa, Waterfront. Dal conflitto all'integrazione (LISt, 2012); Il passo della città. Temi per la metropoli futura (Donzelli, 2015); Tra suolo e clima. La terra come infrastruttura ambientale (Donzelli, 2019).
Per Città Bene Comune ha scritto: Il suolo come infrastruttura ambientale (11 maggio 2016); Leggere le connessioni per capire il pianeta (21 giugno 2018); Questo parco s’ha da fare, oggi più che mai (19 aprile 2019); Roma, Flaminio: ripensare i progetti strategici (26 febbraio 2021); Le città di fronte alle sfide ambientali (1 ottobre 2021).
Sui libri di Rosario Pavia, v. i commenti di: Renzo Riboldazzi, Città: e se ricominciassimo dall’uomo (e dai suoi rifiuti)? (23 settembre 2015); Patrizia Gabellini, Un razionalismo intriso di umanesimo (22 settembre 2016); Paolo Pileri, Suolo: scegliamo di cambiare rotta (28 giugno 2019); Luca Zevi, Forza Davide! Contro i Golia della catastrofe (28 febbraio 2020); Patrizia Gabellini, Suolo e clima: un grado zero da cui ripartire (24 aprile 2020).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri

R.R.


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21 GENNAIO 2022

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Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

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G. Consonni, La bellezza come modo di intendersi, commento a: M. A. Cabiddu, Bellezza. Per un sistema nazionale (Doppiavoce, 2021)