Francesco Ventura  
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MEMORIA DEI LUOGHI ED ESTETICA DELL'IRCOCERVO


Riflessione a partire dai libri di G. Facchetti e di P. Berdini



Francesco Ventura


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Difficile negare che il permanere della configurazione spaziale di luoghi e architetture aiuti a coltivare la memoria. Il contenuto del ricordo è ciò che non è più esperibile nello stesso modo con cui lo è stato. La permanenza della configurazione spaziale permette di continuare ad esperire quei luoghi con tutti i sensi, specie con la vista. La sensazione della vista è considerata la più amata, lo notava già Aristotele, «perché ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze tra le cose» [Metafisica, 980a, 0-28]. La possibilità di esperire ancora, qui e adesso, un determinato luogo è un mezzo per tenere in esercizio l’attività mnemonica di ciò che essendo – a differenza del luogo – un passato perfetto, non può essere esperito nello stesso modo con cui lo è stato in quel medesimo luogo. L’elaborazione dei ricordi e la costruzione delle concatenazioni di esperienze sono potenti edificatori della coscienza della propria identità. E allora si spiega perché Gianfelice Facchetti, proprio nell’incipit di C’era una volta a San Siro. Vita, calci e miracoli (Piemme, 2021), affermi con sicurezza: «Siamo i luoghi che ci hanno ospitato». Il libro è una cornucopia di testimonianze calcistiche vissute, di ricostruzioni storiche e di ricordi gustosi che esplodono, al ritmo di fuochi di artificio coloratissimi, dalla fervida e appassionata memoria dell’autore, attore, regista, scrittore, figlio di uno dei più grandi campioni dell’Inter e della Nazionale. San Siro e il “Meazza” sono nel sangue di Facchetti. Insieme, è un libro che fa apprendere i ricordi legati al luogo senza che il lettore vi sia mai stato. Ciò che «C’era una volta a San Siro», ossia corpi, eventi ed emozioni che vi hanno albergato, si possono conoscere dalla carta stampata, avendo solo nozione del suo astratto toponimo e del nome a un certo punto attribuito allo stadio là localizzato da un secolo. Per fissarne il ricordo basta essere informati che la sua architettura si è strutturata nel tempo per anelli successivi. In appendice al libro si possono vedere una serie di foto storiche che documentano l’aspetto assunto da questa “Scala” del calcio nelle diverse fasi di ampliamento e adeguamento.

Ma anche l’importanza dell’esperienza visiva si ridimensiona molto, quando si apprende che il “Meazza”, «Meazza per tutti», si è dotato di un impianto che fa ascoltare la partita ai ciechi seduti nei suoi spalti. Un indizio questo che lo sguardo della mente sovrasta il senso della vista e in generale l’esperienza sensitiva. Mio padre, rimasto cieco all’età di dieci anni, mi disse che quando gli chiedevano cosa prova un cieco – perché il vedente si illude che basti chiudere gli occhi per sperimentarlo – rispondeva: «vedo luce quando penso luce e buio quando penso buio». Il libro aiuta, costruisce, diffonde la memoria. Arriva a sostituire la funzione del luogo parlando del luogo, più esattamente dei suoi vari e mutevoli contenuti che ha accolto e accudito. «Il fatto è – afferma l’autore – che ogni luogo è già storia». Ed ecco che scrivendone si contribuisce a fare storia, proprio nel senso che la storiografia la produce, la crea. Una storia che è memoria, non solo di esclusiva appartenenza alle “tribù” degli interisti e dei milanisti assidui frequentatori del tempio del calcio, ma anche di coloro che non sanno esattamente dove si trovi e che aspetto preciso abbia la configurazione dello spazio che l’ha ospitata. Il luogo acquista quel determinato senso – un senso che altrimenti di per sé non avrebbe – che gli vanno attribuendo le varie memorie storiografiche e i sentimenti ad esse legati.

La ragione per cui assegniamo al luogo uno statuto che è di relativo fondamento è perché corpi ed eventi stanno e mutano in un determinato luogo. E quando si spostano lo fanno necessariamente da un luogo a un altro, scalzando a loro volta altri corpi e sensi dal luogo che vanno a occupare. Antimetástasis lo chiama Aristotele, ossia “reciproco spostamento” [Fisica, IV Libro, dedicato all’indagine insuperata sul concetto di luogo]. Il luogo intreccia una relazione necessaria col mutamento proprio perché rimane rispetto a ciò che va. È il riferimento saldo, e perciò stesso memorizzante, che ci permette di percepire in modo determinato il mutamento di ciò che il luogo ospita temporaneamente. Non è un corpo, sebbene abbia estensione, quanto una relazione tra corpi dove l’uno è il corpo contenente e l’altro o gli altri i copri contenuti, quando è luogo comune di corpi che lo occupano ciascuno in proporzione alla propria singola ampiezza che lascia spazio ad altri. L’orografia e i corpi che noi diciamo “immobili”, perché edifici là fondati e alberi là radicati che non sono soggetti a dislocazioni, danno configurazione spaziale al luogo per tempi lunghi; ne concretizzano la valenza relazionale dandogli un aspetto al quale, tramite la vista, il vissuto, il pensiero memorizzante, ci si può affezionare. Si scivola verso l’identificazione del luogo con il suo contenuto. O meglio, con l’aspetto spaziale di questo contenuto e i vari sentimenti correlati ai significati che gli si attribuiscono. Si finisce così per volere l’impossibile immobilizzazione della relazione stessa in cui il luogo consiste. Ogni relazione è di per sé mobile: il luogo resta rispetto al contenuto che varia. Quando una relazione appare felice la si vorrebbe eterna, ossia sempre con lo stesso significato. Quando appare non più gradita la si vorrebbe annientare, lasciandola priva d’ogni senso.

Il legame che si tende a voler stabilire tra luogo e identità è fonte di errori, di difficoltà e conflitti, anche cruenti quali le guerre. Un luogo non può accogliere corpi che pretendono di occuparne simultaneamente l’intero spazio e sensi che ne esauriscono il significato una volta per tutte, lasciando nell’insignificanza il proprio altro. Tra le contese incruente, ma non esenti da veemenza, che hanno per oggetto la localizzazione e il significato dei luoghi, le più frequenti sono quelle che, con un termine riassuntivo, possiamo chiamare “urbanistiche”. Guerre che si combattono per lo più con le armi del diritto. Quel diritto che nel nostro tempo non è più considerato naturale, ma positivo, ossia “imposto”: «volontà di rendere eterno un rapporto di potenza momentaneo» come acutamente osserva Nietzsche. Ciascuna parte in causa attinge mezzi da quel coacervo di norme che dovrebbe regolare il territorio – ma essendo troppe, eterogenee, precarie e talvolta bizzarre, piuttosto che regolare alimentano le contese – oltre che attraverso pressioni politiche lobbistiche, intrecci oscuri tra affari e amministrazione pubblica, manifestazione popolari di comitati locali, propaganda mediatica per far convergere l’opinione pubblica sulle proprie ragioni. I progetti di adeguamento e nuova costruzione di stadi per lo spettacolo calcistico del nostro tempo sono esempi significativi.

Il libro di Paolo Berdini, Lo stadio degli inganni. Storia del più grande scandalo urbanistico della Roma contemporanea (DeriveApprodi, 2020), si focalizza sull’aspetto speculativo con i torbidi legami tra affaristi e politici, di malamministrazione, di scandali giudiziari. Il significato del luogo che balza in primo piano è la crescita abnorme del valore puramente venale che il suolo in esso racchiuso acquista per effetto della destinazione urbanistica e delle sue più o meno arbitrarie varianti. Un senso che getta in ombra ogni altro al luogo attribuito o che si vorrebbe attribuire e che tende a subordinare la sua storia alle dinamiche dei valori di mercato. D’altra parte, ci troviamo di fronte a un’evoluzione epocale dell’impresa calcio che ha come motore il sempre più vasto successo popolare. La maggior parte degli stadi, almeno in Italia, sono stati costruiti come opere pubbliche, di proprietà dell’amministrazione comunale per lo spettacolo calcistico e date in gestione ai club delle squadre cittadine. Sostentamento e potenziamento competitivo dei club erano in origine alimentati, innanzitutto, anche se non solo, dalla vendita dei biglietti. Il senso dominante che si riverberava sul luogo era la passione sportiva degli adepti nei loro diversi ruoli e insieme quello stesso luogo, la loro casa, riceveva così un rilevante senso civico per tutti i cittadini. Ma il calcio professionistico, con i campionati nazionali, le coppe internazionali, continentali e mondiali e le competizioni spalmate in quasi tutti i giorni della settimana e trasmesse negli schermi casalinghi, è nel nostro tempo un’impresa economica privata, non più un semplice club sportivo, che non può sostenersi con i soli diritti dello spettacolo. L’acquisto dei calciatori, l’ingaggio e le provvigioni e il complesso apparato richiedono molte risorse finanziarie non solo aggiuntive ma primarie. L’impresa deve mirare al profitto, potenziandolo costantemente se vuol mantenere alta la competitività e non scomparire dal mercato, così come qualsiasi altro investimento imprenditoriale. Il catino di gradinate intorno al rettangolo d’erba, che continuiamo a chiamare stadio, dove le squadre giocano al pallone è solo il nucleo storico di un impianto calcistico del nostro tempo. Non basta più, come si è fatto in altri tempi, per esempio a San Siro, ampliarlo al meglio e aggiornarlo funzionalmente. L’impresa calcio richiede un vero e proprio investimento immobiliare analogo a quello di un grande centro commerciale, sempre in funzione e ben integrato nel mercato di beni e servizi, al di là dei suoi singoli e occasionali momenti spettacolari.

Non c’è dubbio che il senso del luogo, pur rimanendo quale nucleo storico il calcio, cambi più o meno radicalmente. Laddove intorno ai vecchi stadi sono andati addensandosi quartieri residenziali con i loro servizi, talvolta i loro parchi, o con endemiche carenze di queste urbanizzazioni primarie, il cambio di senso dei luoghi che vengono proposti dalle imprese calcistiche e la loro corposa invasione immobiliare finisce spesso per urtare gli abitanti. A San Siro sono già all’opera i comitati con le varie armi legali che la congerie di norme mette a disposizione per chi sa individuarle. Facchetti mantiene un atteggiamento politicamente corretto. La democrazia vuole che simili decisioni siano prese ascoltando tutti, in modo da arrivare a scelte il più possibile condivise. Se tale metodo e il più preferibile, non avendo attualmente di meglio, dunque relativamente necessario, bisogna essere consapevoli che ciò non è garanzia di risultati tecnicamente pertinenti, né logicamente coerenti. Da questi confronti, per quanto condotti con più o meno garbata correttezza, possono uscire risultati in vario modo deludenti anche rispetto ai differenti scopi in competizione. L’Urbanistica peraltro ha consistenza tecnica quasi nulla, perché dominata dalle ideologie. Il coacervo di norme è parto della politica, ancora più impregnata di fedi ideologiche e da robusti interessi di parte. Tutto questo non fa apparire lo scopo che la tecnica guidata dalla razionalità scientifica ha in sé stessa: favorire le condizioni di vita. Le ideologie lo mascherano perché assumono la tecnica come mezzo dei loro scopi particolari. Bisogna prendere atto che i tempi non sono ancora maturi.

Una delle armi che il diritto moderno offre, partorite e usate ideologicamente, su cui ci soffermiamo, è l’apparato normativo articolato nel “Codice dei beni culturali e del paesaggio”. A San Siro alcuni stanno cercando di usarla, ma ad oggi è incerto lo statuto giuridico del “Meazza”. Quando sono trascorsi settant’anni (una volta erano cinquanta) dalla sua costruzione, l’autore è defunto e l’immobile è di proprietà pubblica, l’opera architettonica è potenzialmente un momento storico artistico in senso moderno. Scattano così le norme di salvaguardia volte alla sua conservazione, che tuttavia deve poi essere confermata con un apposito decreto ministeriale, comunemente chiamato “vincolo”. A quel punto l’opera non la si può abbattere. La sorte del “Meazza”, come eventuale monumento, non sappiamo attualmente quale sarà. Ma lo stadio “Franchi”, a Firenze, opera del grande ingegnere Pier Luig Nervi, è vincolato da quarant’anni. In questo caso si può già vedere verso quali esiti bizzarri ci si va incamminando, di quali incoerenze concettuali è affetto il culto contemporaneo del patrimonio su cui si basa il relativo diritto e il coacervo di norme che regola la pratica burocratica della conservazione. La tutela del patrimonio storico artistico è essenzialmente concepita come conservazione dell’integrità fisica di un’opera, anche quando la storia dell’arte, alla quale la storiografia l’assegna e via via l’interpreta, abbonda di documenti altri dall’opera stessa. Il David di Michelangelo per secoli è stato esposto alla vista dei cittadini nella piazza della Signoria, quale monumento intenzionale della città di Firenze. Divenuto monumento in senso moderno è stato diversamente esposto, insieme ad altre opere, nel chiuso di un museo, il Museo dell’Accademia. Qui l’integrità fisica della statua si avvantaggia molto della protezione da quel «tenace distruttore» – come lo chiama Leon Battista Alberti – che è il «tempo». Il capolavoro di Michelangelo, tramontato il senso originario, occultato alla vista degli abitanti che adesso devono contentarsi di una copia in piazza, si concede alla fruizione turistica mondiale. Se lo si vuol vedere si paga il biglietto, si attende pazientemente in lunghe code il turno di visita. D’altronde, medesima sorte è toccata alle principali chiese di Firenze. Le chiese, i templi in genere, sono monumenti autenticamente originari. Non potendo spostarsi, si trasformano in musei di sé stesse. Quando non sconsacrate e profanate, le funzioni liturgiche sono residuali e in via di estinzione, dovendo scendere a compromessi col senso e l’uso contemporanei. Per visitarle occorre il biglietto, la prenotazione, l’attesa del proprio turno. Sacro non è più l’eterno divino ultraterreno al quale la loro bellezza mondana rinviava, ma la loro esperibile fisicità eternizzata con sempre più potenti tecniche: diritto, economia, restauro.

Il culto contemporaneo del patrimonio non si limita a convertire in monumenti in senso moderno i monumenti intenzionali tramandati dalla storia; quanto soprattutto a tramutare in “monumento” qualsiasi opera, proveniente da un qualsiasi passato, anche quando questa sia stata originariamente concepita per scopi altri da quelli propri di un monumento in senso tradizionale. È il caso, tra molti, dell’opera che Nervi progettò all’alba degli anni Trenta dello scorso secolo per lo svolgimento delle attività atletiche e calcistiche a Firenze. Già trent’anni fa da questo Stadio fu espulsa l’atletica, perché potesse svolgersi in modo più funzionale al nostro tempo il calcio. L’impresa economica e lo spettacolo calcistico erano già notevolmente mutati rispetto al progetto di Nervi. Ma il senso di quest’opera e del suo luogo, il Campo di Marte, hanno ricevuto il mutamento più radicale dal Decreto Ministeriale che quarant’anni fa l’ha dichiarata patrimonio storico artistico della Nazione, sottoponendola così a quel regime che ha per scopo di perpetuarne l’integrità fisica.

Si sono aperti due ordini di problemi. Allo Stadio, pagando i biglietti, ci vanno i tifosi delle squadre di calcio, occasionalmente gli appassionati di concerti rock e un certo numero di consumatori, se ospiterà spazi commerciali al suo interno o nei dintorni. Uno Stadio non ha ancora (se mai lo avrà) il significato e lo spessore storico di una Chiesa, che di per sé è monumento, per quanto con un senso molto diverso dall’originario. Nessuno pagherebbe un biglietto e si metterebbe in coda per andare a visitare l’opera di Nervi, ossia questa determinata singola opera; cosa diversa è una mostra criticamente allestita sull’arte di Nervi e sull’architettura e l’ingegneria del suo tempo. Nella chiesa, monumento secolarizzato, sorgono problemi logistici per conciliare visite turistiche e liturgie religiose. Un problema questo che non richiede, per lo più, di compromettere l’integrità fisica dell’architettura, né di alterare la sua visibilità – salvo nelle ore di intenso affollamento. Per adeguare l’opera di Nervi al calcio e alle esigenze commerciali del nostro tempo sorgono invece severi problemi proprio per la conservazione dell’integrità fisica. La Chiesa resta fisicamente una chiesa – anzi, quella determinata Chiesa – sia al suo interno, sia al suo esterno. Per adeguarsi al calcio del nostro tempo, lo Stadio modellato sul calcio di novant’anni fa ha invece serie difficoltà a mantenere l’integrità fisica originaria e soprattutto è impossibile salvaguardarne la piena visibilità, sia internamente, sia esternamente nella sua relazione paesaggistica col luogo, oltre che nel suo significato.

Il Comune di Firenze, proprietario, ha inteso affrontare il problema indicendo un concorso internazionale di progettazione che risolvesse, conciliandole così come prescritto dal Ministero, le esigenze di conservazione e di adeguamento funzionale agli stadi del calcio contemporaneo. Essenzialmente si trattava di restaurare l’opera tutelata per legge, emendandola dalle offese ricevute nel tempo, consolidandola e proteggendola dagli agenti atmosferici – il cemento armato è mediamente più sensibile alle loro ingiurie che non la pietra. Cosicché, se il David è stato possibile porlo al riparo chiudendolo in un museo, l’opera di Nervi non poteva che sollecitare la concezione di un apposito riparo, una sorta di involucro museale funzionalmente dedicato. Insieme, si trattava di concepire una struttura indipendente da quella di Nervi, da giustapporre alla sua opera idonea ad accogliere le attività calcistiche d’oggi. Il progetto vincitore – a giudizio della commissione internazionale – sembra aver centrato l’obiettivo con semplicità e coerenza. Una tettoia rettangolare autoportante, che copre l’intero stadio restaurato e il suo margine esterno. Concepita il più possibile anonima, ossia denotante solo lo scopo a cui serve, non urtando quindi i sensi valoriali che all’architettura di Nervi vengono attribuiti dal culto del patrimonio. Una struttura che può anche essere modificata, flessibile, senza compromettere l’opera tutelata. Una copertura che protegge dalle intemperie, insieme al monumento storico artistico, gli spettatori, come gli stadi odierni esigono. Al suo interno un’altra struttura, sempre indipendente, che lasciando inalterate e restaurate le due curve originali, e voltandogli le spalle, dà luogo a due analoghe gradinate che avvicinano lo spettatore al campo di calcio, come lo spettacolo d’oggi esige.

Cosa ci si potrebbe aspettare di diverso quando si prescrive la simultanea compresenza in uno stesso luogo di due corpi con estensione quasi equivalente, anzi, dove quello che si va a giustapporre lo si vuole più compiente e agevole del preesistente? È come volere un’assurdità, un’impossibile sfida alla fisica dei corpi: uno stadio nello stadio. L’opera di Nervi è chiamata a svolgere funzione di contenitore di uno stadio altro e insieme a occultarsi all’abbraccio visivo. Le dinamiche forme concepite da Nervi non sono più esperibili dallo sguardo nella loro interezza. Il progetto vincitore – forse proprio per questo ha vinto – nasconde necessariamente e pressoché totalmente l’opera di Nervi e insieme finge che non vi sia la giustapposizione delle due diverse opere. Questo si presume che sia stato ritenuto il suo merito. Molti degli altri progetti finalisti, lasciando per quel che è possibile in vista, almeno parzialmente, l’esterno dell’opera di Nervi, hanno il merito di esibire e non nascondere l’assurdo di uno stadio nello stadio. La nuova opera sporge in altezza come un fungo di diversa forma dalla vecchia. La giustapposizione diventa ingrediente estetico del progetto. Le due diverse identità architettoniche, stipate nel luogo, danno concretezza spaziale a una terza identità, che sovrasta le altre, di cui è figura fantastica l’Ircocervo. Un esito logico questo di qualsiasi progettazione obbligata a fondarsi sulla norma conservativa, che si poteva ampiamente prevedere leggendo le prescrizioni ministeriali senza bisogno di chiamare architetti da tutto il mondo a esibirsi in una competizione progettuale.

In un suo celebre testo del 1929, Il disagio della civiltà, Sigmund Freud, per spiegare l’ipotesi psicoanalitica che «il dimenticare» non implica la distruzione della «traccia mnemonica», non «sia cioè un annullamento [vernichtung = ‘annintamento’]» e che «una volta formatosi, nella vita psichica nulla può perire», per cui «tutto in qualche modo si conserva», ricorre al paragone dello sviluppo urbanistico di Roma, che è detta Città Eterna per quanto è lunga, varia e complessa la storia delle sue stratificazioni millenarie. Se fosse un’entità psichica – dice Freud – «nel posto occupato dal Palazzo Caffarelli sorgerebbe di nuovo, senza che tale edificio debba venir demolito, il tempio di Giove Capitolino, non solo nel suo aspetto più recente, quale lo videro i romani dell’epoca imperiale, ma anche in quello originario, quando ancora presentava forme etrusche […]. Dove ora sorge il Colosseo potremmo del pari ammirare la scomparsa Domus Aurea di Nerone […]. E, a evocare l’una o l’altra veduta, basterebbe forse soltanto un cambiamento della direzione dello sguardo o del punto di vista da parte dell’osservatore». Freud interrompe bruscamente il paragone: «Non ha evidentemente senso sviluppare ulteriormente questa fantasia: conduce all’inimmaginabile, anzi all’assurdo […]. il medesimo spazio non può venir riempito in due modi diversi». Quell’assurdo che le norme di conservazione pretenderebbero di mettere in pratica, di concretizzare spazialmente e che gli architetti non possono che tradurre nell’estetica dell’Ircocervo, oppure mascherarlo con involucri amorfi.

E tuttavia, anche il pensiero di Freud si fonda sulla fede che sia evidente che il ciò che passa è un diventar niente [vernichtung]. Il non annientamento della traccia mnemonica, presentata correttamente come ipotesi e dunque scientificamente controvertibile, è, non solo riservata alla «vita psichica», ma è comunque – lo rileva lo stesso Freud – soggetta a distruzione, ricadendo dunque nell’assoluto nulla quando il cervello è colpito da una lesione o la persona muore (1). Nel nostro tempo, la fede che le cose escono dal niente e ritornino nel niente, diffusasi dal pensiero greco nel corso di due millenni al livello planetario, e che per coerenza logica ha dovuto lasciar tramontare ogni illusoria dimensione eterna della realtà, ancorché non sensibile qual è Dio, è la base anche del culto moderno del patrimonio. Si tratta, cioè, di salvare dal nulla, eternizzandone la presenza sensibile, quelle cose alle quali si attribuiscono valori insostituibili e che perciò chiamiamo patrimonio della nazione o del mondo. Non è più, in ultimo, un qualche dio che crea la storia, ma è la nostra assoluta, libera incondizionata volontà. Ma se il passato è ciò che non è più, e non può più ritornare, così come il futuro è ciò che non è ancora, e se il contenuto della memoria è il passato, allora la memoria è memoria del nulla, ossia non ha assolutamente nulla da ricordare. Dunque, in questa situazione concettuale la memoria, per esistere, ha due vie. O è attività di conservazione delle cose presenti che le eternizza salvandole illimitatamente dal nulla in cui si crede che altrimenti sprofonderebbero, facendo sì che quel determinato ricordo sia sempre fisicamente esperibile, e quindi nel nostro potere. Oppure è continua e sempre attuale creazione ex novo dal nulla del ricordo in cui si crede che il passato consista; mantenendo nella presenza il potere e l’esperienza dell’operare stesso perché questo non si annulli e non le sue opere che devono ricadere nel nulla per non inibire la nostra potenza creativa. Entrambe sono perfettamente coerenti alla fede nel divenire come uscire e ritornare nel niente, ma configurano due andamenti dell’agire che si negano escludendosi a vicenda. La volontà di eterna conservazione dell’uguale, perché se le cose finiscono definitivamente nel nulla si rendendo indipendenti dalla volontà, finisce per cadere nell’impotenza di creare in eterno la realtà. La volontà di trasformare in eterno le cose, per cui il passato non è mai definitivamente detto, cade nell’impotenza nei confronti dello spettacolo del passato. Dovrebbe esser chiaro – e prima o poi lo sarà – che la realtà non si costituisce in questo modo (2).

Che il significato dominante del divenire, ormai universale, sia una fede e non un’evidenza lo si può quanto meno sospettare dal fatto che il passato perfetto, che diciamo non-è-più, è, insieme e necessariamente, ciò che è uscito dall’esperienza, ossia non appare più esperibile come lo è stato prima. Ma, allora, sulla base dell’esperienza, quindi dell’evidenza esperibile, non possiamo dire nulla di assolutamente certo su cosa esso sia. Tutto ciò che diciamo delle cose passate è un costrutto teorico, un’interpretazione, una fede, un’opinione; affermazioni quindi controvertibili non suffragate da evidenza diretta, immediata. Cosa appare allora di ciò che passa e che è contenuto di memoria? Vediamolo nel caso del luogo di cui ci stiamo qui occupando, senza che questo comporti l’assurdità di due corpi che occupano lo stesso luogo. Come facciamo a dire che il Palazzo Caffarelli ha sostituito il Tempio di Giove Capitolino, se del sostituito non c’è, qui ed ora, alcuna manifestazione? Il luogo balza in primo piano. Non appare più il Tempio che occupa il luogo, ma continua ad apparire il medesimo luogo occupato dal Tempio. Se nel Campo di Marte un nuovo stadio sostituisse l’ormai vetusto “Franchi”, continuerebbe ad apparire il medesimo luogo occupato dall’opera di Nervi. Se il corpo B sostituisce nel medesimo luogo il corpo A, continua ad apparire il luogo occupato da A. E ciò appare necessariamente sia agli occhi della vista, sia allo sguardo della mente. Non solo appare il luogo occupato dal corpo, ma anche tutte le varie interpretazioni e i diversi significati via via attribuiti (smentiti, modificati, aggiunti, riconfermati) dal pensiero a quei corpi ed eventi che hanno in comune quel medesimo luogo.

L’intuizione di Facchetti che «ogni luogo è già storia» acquista così un senso determinato. Ogni interpretazione assume come dati cose manifeste quali tracce di ciò che è stato. Ma ogni altra interpretazione può smentire il dato mostrando che a sua volta è un interpretato. È così che la storiografia fa la storia. Il luogo può contenere più corpi, eventi, quale luogo comune in senso sincronico, ossia quando la loro presenza in esso la si guarda nella simultaneità. C’è un limite fisico a questa compresenza. Uno o più corpi escludono, con la loro determinata identità, gli altri, negandone la presenza in quel luogo. Ma il luogo, proprio perché relazione tra corpi, è necessariamente inclusivo. Il luogo è autenticamente comune in senso diacronico. Include tutti i corpi, gli eventi, i significati che accoglie nel processo della loro reciproca sostituzione; nella dinamica del loro apparire e scomparire in quel medesimo luogo, la cui manifestazione alla vista e al pensiero continua a permanere nella sua infinità relazionale.

Chiediamoci se Il principio costituzionale (art. 9) che pone la «Tutela del paesaggio e del patrimonio storico artistico della Nazione» quale uno dei mezzi che la Repubblica ha per promuovere «lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica» sia da intendersi quasi esclusivamente come conservazione dell’integrità fisica delle opere “vincolate”. È lecito dubitarne molto, soprattutto quando queste opere sono edifici moderni specialistici, originariamente concepiti per scopi altri da quelli propri di un monumento; quando abbondanti sono le testimonianze e la documentazione altra dall’opera stessa; quando la loro notorietà è già nutrita da una più o meno folta interpretazione storiografica, che già di per sé è la loro più valida e attuale manifestazione del dinamismo storico. È quest’attività variamente mnemonica che nutre lo sviluppo della cultura e della ricerca intorno a queste opere e non la permanenza a tempo indeterminato della loro integrità fisica. Quale giovamento potrà mai apportare alla cultura dei frequentatori di uno stadio la cui immagine estetica non fa esperire nella loro pienezza né all’originaria opera tutelata, né l’innovazione dell’architettura contemporanea, ma l’estetica fantastica dell’Ircocervo? Non sarebbe più idoneo allo scopo se i frequentatori fossero accolti da uno stadio totalmente nuovo, adeguato al nostro tempo, e trovassero tra le varie attività che questo accoglie anche una mostra storica criticamente allestita delle strutture sportive d’altri tempi inclusa, in particolare, quella sostituita della quale sia esposto un modello in scala? Ciò permetterebbe effettivamente di dare il senso della storia come sviluppo culturale e tecnico, facendo esperire il nuovo stadio, consono all’uso attuale, in confronto ai costumi e all’arte di costruire del passato.

Un’ultima considerazione. Quando si imbocca la strada della conservazione dell’opera preesistente, che è di proprietà pubblica, nessun privato si impegna a investire se lo scopo primario non è il profitto. Se questo, per adesso, è lo stato dell’arte, perché realizzare quest’opera gravando gli oneri sul contribuente? Questi fondi pubblici non possono essere impiegati in altri campi dove l’iniziativa privata è carente? È un’opera dedicata all’impresa calcio. Le società calcistiche sono private. A Firenze, l’attuale imprenditore aveva manifestato l’intenzione di investire nella costruzione del nuovo Stadio. Non sarebbe più opportuno che fosse la proprietà dell’AC Fiorentina a realizzarlo e gestirlo?

Francesco Ventura

 

 

 

 

Note

1) Un’acuta analisi critica di questo testo di Freud l’ha compiuto Emanuele Severino, Destino della necessità, Adelphi 1980, nel paragrafo IV Da un esempio di Freud, 167-172, e poi ancora in forma più divulgativa in La filosofia futura, Capitolo XXXVII Forme nichilistiche di sopravvivenza del passato, BUR, 1989. Françoise Choay, invece, lo analizza in relazione al culto del patrimonio in Riegl, Freud e i monumenti storici. Per un approccio “sociale” alla conservazione, in Sandro Scarrocchia, Alois Riegl: teoria e prassi della conservazione dei monumenti, CLUEB 1995.

2) Su questo argomento fondamentale è il libro di Emanuele Lago, La volontà di potenza e il passato. Nietzsche e Gentile, Bompiani 2005.

 

 

N.d.C. - Francesco Ventura, già professore ordinario di Urbanistica all'Università degli Studi di Firenze, ha pubblicato tra gli altri: L'istituzione dell'urbanistica. Gli esordi italiani (Libreria Alfani Ed., 1999); Statuto dei luoghi e pianificazione (Città Studi Edizioni, 2000); Sul fondamento del progettare e l'infondatezza della norma, in P. Bottaro, et al. (a cura di), Lo spazio, il tempo e la norma (Ed. Scientifica, 2008); La verità del falso ("Area, n. 105-2009); Il monumento tra identità e rassicurazione, in G. Amendola (a cura di), Insicuri e contenti (Liguori, 2011); La tutela e il recupero dei centri storici, in L. Gaeta, et al., Governo del territorio e pianificazione spaziale (Città Studi, 2013); La progettazione del passato ed il ricordo del futuro, in A. Iacomoni (a cura di), Questioni sul recupero della città storica (Aracne, 2014).

Per Città Bene Comune ha scritto: Urbanistica: tecnica o politica? (14 febbraio 2016); Lo stato della pianificazione urbanistica. Qualche interrogativo per un dibattito (1 aprile 2016); Urbanistica: né etica, né diritto (30 giugno 2016); Più che l'etica, è la tecnica a dominare le città (16 febbraio 2017); Antifragilità (e pianificazione) in discussione (28 luglio 2017); Così non si tutela né il suolo né il paesaggio (1 dicembre 2017); Su "La struttura del paesaggio": inutile le polemiche, riflettiamo sui contenuti (12 gennaio 2018); Sapere tecnico e etica della polis (28 settembre 2018); Per una critica dei principi territorialisti (13 settembre 2021).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


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01 APRILE 2022

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
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iniziativa sostenuta da:
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E. Scandurra, Il territorio non è una merce, commento a: M. Ilardi, Le due periferie (DeriveApprodi, 2022)

A. Mela, Periferie: serve una governance coerente, commento a: G. Nuvolati, Alessandra Terenzi (a cura di), Qualità della vita nel quartiere di edilizia popolare a San Siro, Milano (Ledizioni, 2021)

M. A. Crippa, Culto e cultura: una relazione complessa, commento a: T. Montanari, Chiese chiuse (Einaudi, 2021)

V. De Lucia, La lezione del passato per il futuro di Roma, commento a: P. O. Rossi, La città racconta le sue storie (Quodlibet, 2021)

M. Colleoni, Mobilità: non solo infrastrutture, commento a: P. Pucci, G. Vecchio, Enabling mobilities (Springer, 2019)

G. Nuvolati, Una riflessione olistica sul vivere urbano, commento a: A. Mazzette, D. Pulino, S. Spanu, Città e territori in tempo di pandemia (FrancoAngeli, 2021)

E. Manzini, Immaginazione civica, partecipazione, potere, commento a: M. d'Alena, Immaginazione civica (Luca Sossella, 2021)

C. Olmo, Gli intellettuali e la Storia, oggi, commento a: S. Cassese, Intellettuali (il Mulino, 2021); A. Prosperi, Un tempo senza storia (Einaudi, 2021)

A. Bagnasco, Quale sociologia e per quale società?, commento a: A. Bonomi (a cura di), Oltre le mura dell’impresa (DeriveApprodi 2021)

R. Pavia, Le parole dell'urbanistica, commento a A. A. Clemente, Letteratura esecutiva (LetteraVentidue, 2020)

G. Laino, L'Italia ricomincia dalle periferie, commento a: F. Erbani, Dove ricomincia la città (Manni, 2021)

G. Consonni, La bellezza come modo di intendersi, commento a: M. A. Cabiddu, Bellezza. Per un sistema nazionale (Doppiavoce, 2021)