Rosario Pavia  
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IL PORTO COME SOGLIA DEL MONDO


Commento al libro di Beatrice Moretti



Rosario Pavia


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Il libro di Beatrice Moretti, Beyond the Port City. The Condition of Portuality and the Threshold Concept (Jovis, 2020) affronta temi rilevanti per il piano e il progetto delle città portuali europee: le differenze strutturali tra i porti mediterranei e quelli del Nord Europa, le loro diverse morfologie, i differenti rapporti tra le aree portuali e i tessuti urbani, le loro prospettive di coesistenza, la conformazione e lo spessore degli ambiti di confine e di prossimità (la soglia), gli statuti istituzionali e gestionali dei porti, le loro modalità di trasformazione e sviluppo.

Il saggio si avvale di un approfondito esame di casi studio: Amburgo, Rotterdam Copenaghen, Marsiglia, Genova, Palermo. Tranne quest’ultima sono tutte città portuali importanti con funzioni di gateway, dove il trasporto marittimo si articola in una pluralità di settori (container, rinfuse liquide e solide, passeggeri). La loro economia marittima è una componente funzionale determinante del loro sviluppo e identità. Non è così per Palermo che oggettivamente è un porto di rango minore in cui il settore più significativo è quello passeggeri e crocieristico (l’unico che in prospettiva possa interagire in misura significativa con il sistema urbano). Moretti coglie con chiarezza la trasformazione strutturale dei porti nel corso del XX secolo: dalla staticità della condizione di porto emporio alla dinamica dei porti gateway, sempre più interconnessi e inseriti in avanzate strutture logistiche a servizio di reti produttive e distributive. Con l’avanzare della globalizzazione al porto polarizzato si sostituisce una portualità che si organizza per sistemi e cluster. Questo scenario dovrebbe essere ulteriormente approfondito.

Il 90% delle merci viaggia via mare e trova nei porti il suo spazio operativo e di interconnessione. I porti sono oggi nodi decisivi della filiera produttiva distributiva (della supply chain che realizza il valore delle merci), per questo negli ultimi anni i grandi porti si sono legati direttamente alle aree industriali, fino a inglobarle in una medesima piattaforma logistica produttiva (si pensi alle Zes -Zone Economiche Speciali-). C’è uno stretto legame tra le rotte marittime e l’affermazione dei nodi portuali. Lo spazio del Mediterraneo, con il raddoppio del canale di Suez, si è confermato come una rotta strategica per il traffico tra Europa ed estremo Oriente. È nel Mediterraneo che passa il ramo più importante della nuova via della seta, la Belt and Road Initiative (BRI), in ragione della quale la Cina si sta posizionando sui porti maggiori del Mediterraneo.

Questa rinnovata centralità del Mediterraneo ha portato all’affermazione di nuovi porti come Tanger Med e East Port Said e a un significativo recupero dei porti mediterranei rispetto a quelli del Nord Europa. In questa nuova fase la concentrazione delle compagnie di navigazione (una decina di aggregazioni controlla il 90% del traffico container) e il gigantismo delle navi stanno incidendo sull’assetto non solo gestionale dei porti, ma anche nella loro struttura morfologica e funzionale (opere marittime per la difesa di bacini più ampi e profondi, banchine con accosti di migliaia di metri, efficienti raccordi con le reti ferroviarie e autostradali). Dinamica e velocità del mercato globale rendono più complessa l’attività di pianificazione delle aree portuali, imponendo ovunque una omogeneizzazione delle soluzioni tecniche e infrastrutturali. I porti assumono una nuova identità dove è la dimensione globale a prevalere su quella locale. In fondo è questo aspetto, che incide sulla trasformazione della relazione tra città e porto, a costituire il tema portante della riflessione di Beatrice Moretti.

Il confronto tra i porti del Nord Europa e quelli euro mediterranei, sviluppato attraverso un efficace apparato cartografico, rivela profonde differenze: i porti di Rotterdam e Amburgo sono collocati su grandi estuari: dal centro città le aree portuali si sono spostate via via verso la foce, alla ricerca di spazi più adeguati. I porti si allontanano dalla città, le dimensioni delle navi e delle infrastrutture marittime non son più compatibili con i contesti urbani; si realizza in questo modo un processo di delocalizzazione che lascia le aree portuali dismesse disponibili a nuove utilizzazioni. La riqualificazione dei waterfront nasce da questo processo di dismissione: Amburgo e Rotterdam sono in tal senso casi esemplari: le città, di concerto con le autorità portuali, si riappropriano delle aree dismesse e degli edifici non utilizzati attraverso piani strategici di medio periodo in cui i progetti di architettura diventano importanti strumenti di comunicazione e attrazione. Il porto di Copenaghen, grazie ad una alleanza strategica con quello svedese di Malmö (si tratta dell’unico caso in Europa di un cluster portuale che coinvolge due stati), ha avviato un processo di razionalizzazione e specializzazione che ha portato alla dismissione di molte aree portuali sulle quali si è realizzata la recente espansione della città. Si è trattato di un vasto programma di rigenerazione urbana che ha prodotto una rinnovata integrazione tra porto e città. Non casualmente Copenaghen sarà, nel 2023, la capitale europea per l’architettura.

I porti mediterranei, diversamente dai porti maggiori del Nord Europa, si sono sviluppati lungo la costa attraverso infrastrutture che si protendono in mare, ma c’è una differenza: mentre in Spagna e in Francia si è realizzata una delocalizzazione del porto lungo la costa in prossimità della città di riferimento (si pensi a Siviglia e a Barcellona o a Marsiglia su cui si sofferma Beatrice Moretti dove il decentramento portuale si realizza gradualmente a partire dall’Ottocento, coinvolgendo in particolare il vicino comune di Fos), in Italia il decentramento è reso difficile per la forte urbanizzazione costiera. Senza decentramento non abbiamo processi di riconversione di aree dismesse. Genova è una eccezione: il processo di delocalizzazione a Voltri della maggior parte delle attività portuali ha consentito la riqualificazione del porto vecchio. La realizzazione del waterfront di Genova è una esperienza unica in Italia, ma a ben vedere, come ricorda Moretti, è un progetto parziale che avanza con difficoltà e non riesce a incardinarsi in una visione complessiva della città (si pensi all’affresco di Renzo Piano e in ultimo alla difficile riqualificazione del waterfront di levante).

In Italia, tra porto e città si è realizzata una profonda separazione amministrativa, fisica, culturale. La città non si riconosce nel porto, nella sua economia, nel suo potenziale. Il confine tra le due parti è diventato uno sbarramento, una barriera. È sul confine che si concentra, a ragione, l’attenzione di Moretti. Questo non può essere una linea, un segno di zonizzazione, ma una soglia porosa che investe un ambito dallo spessore variabile, flessibile, inclusivo. Il confine diventa il luogo del progetto. Occorre una analisi approfondita, una tassonomia di questo spazio: è qui che vanno individuale le aree di interazione tra città e porto, la loro diversa intensità e profondità, riconoscendo le aree strettamente funzionali all’operatività del porto e quelle sottoutilizzate e in via di dismissione su cui avviate processi di riqualificazione urbana. In questa direzione si erano orientate, senza successo, le Linee guida per la redazione dei piani regolatori delle Autorità di Sistema Portuale (definite dal MIT nel 2017).

Nell’analisi morfologica dei porti moderni un’attenzione particolare va riservata alle infrastrutture marittime. Sono le dighe foranee, le banchine, le barriere frangiflutto, i moli sporgenti, le opere di protezione dalle esondazioni lungo i margini dei porti fluviali a delineare la conformazione del porto. È importante classificarle, studiarle, le potenzialità. Sono tutte infrastrutture specialistiche, finalizzate alla difesa dei bacini portuali, agli accosti delle navi, alla movimentazione delle merci. Svolgono funzioni settoriali, sono opere morte, mentre poterebbero essere progettate o ripensate in un’ottica di integrazione, accogliendo utilizzazioni diverse. Moretti ricorda le piste ciclabili sulle dighe di Rotterdam, ma si pensi alle potenzialità dei tanti moli foranei che proiettano la città sul mare e che potrebbero essere straordinarie promenades paysagees (ad esempio a Napoli o Catania). Si tratta di una prospettiva assolutamente nuova che andrebbe approfondita, soprattutto ora in occasione di imminenti grandi opere come la nuova diga foranea di Genova che, posta a 500 metri oltre l’attuale, ridisegnerà il prospetto a mare della città.

Moretti dedica molto spazio al concetto di soglia come “dispositivo inclusivo” e “gesto fondativo (…) che non produce soltanto una netta separazione, ma pone le basi per la ricerca di una futura connessione”. È evidente una intenzionalità progettuale tesa a sanare una frattura, a ricomporre il dialogo interrotto tra la forma urbana e l’eterotopia del porto. La soglia è un ambito di transito, di passaggio che trova la sua “legittimazione dalla sua posizione mediana e composita”. Si delinea un ambito specifico di progettazione infrastrutturale-urbana che trova i suoi fondamenti disciplinari nell’architettura e nell’urbanistica, ma questo non basta. La soglia richiede una visione più attenta al tema ambientale. La soglia è soprattutto una frontiera ecologica, è lo spazio in cui interagiscono sistemi ambientali diversi: da un lato il sistema di terra, dall’alto quello di mare. La frontiera è fragile, il suo equilibrio sensibile.

L’area portuale è oggettivamente una frattura che si sovrappone pesantemente su questa frontiera senza valutarne a fondo gli effetti. Piattaforme immense di cemento e asfalto si sono riversate sul bordo marino come nuovi suoli artificiali. Le piattaforme hanno modificato la morfologia costiera, producendo fenomeni di erosione e insabbiamento, hanno stravolto fondali ed ecosistemi, distrutto praterie sottomarine, coperto fossi e torrenti, incidendo sull’assetto idrogeologico dell’area. Dobbiamo chiederci cosa c’è sotto questi immensi suoli artificiali, per capire come intervenire per ricomporre e compensare un equilibrio perduto. Le piattaforme portuali sono superfici impermeabili, le loro estensioni di cemento e asfalto producono isole di calore che influenzano il clima locale.

Il porto produce inquinamento, è come una grande fabbrica che consuma energia fossile. Le navi in sosta (si pensi in particolare al traffico crociere) mantengono i motori accesi producendo emissioni di carbonio e rumore. Per questo si parla sempre più di elettrificazione delle banchine (nel Documento di pianificazione energetica e Ambientale, introdotto in Italiane 2016, e nei piani del Recovery Plan). L’obiettivo dell’elettrificazione è un passaggio importante, ma non esaurisce la questione ambientale che investe le aree portuali nel loro rapporto con le città. Il porto come frontiera e soglia ecologica può aprire nuove prospettive al piano e al progetto.

La coesistenza tra porto e città si sostiene oggi solo con la distanza, la delocalizzazione. È quanto avviene ovunque nel mondo. La presenza di grandi porti coincide spesso con l’affermazione di grandi e ricche metropoli. È così per Amburgo, per Rotterdam e ancora di più per Singapore, per Hong Kong, per Shenzen. La presenza del porto influenza lo sviluppo della città: la sua efficienza, il suo avanzamento tecnologico, il suo potere si trasmettono al sistema urbano in un rapporto di reciproco sostegno in cui frequentemente è il porto a prevalere. Senza la distanza le attività portuali sarebbero incompatibili con la vita urbana. È questo il futuro della città portuali? È questa la coesistenza di cui parla Moretti? Come possono coesistere la città e il porto in contesti come quello del nostro paese in cui il porto è incardinato nel cuore del tessuto urbano? E pensando alle città portuali italiane come possiamo trasformare l’assenza di distanza, la prossimità in un valore aggiunto? La risposta non sta solo nella integrazione urbanistica e paesaggistica, ma piuttosto nella sostenibilità e nella neutralità ambientale del porto nei confronti della città del porto. Oltre la città porto c’è un sistema portuale che non emette emissioni clima alteranti, che non inquina, che utilizza e produce energia rinnovabile, che trasforma il suo suolo e le sue costruzioni in una grande infrastruttura ambientale in grado di produrre servizi ecosistemici.

Un porto realmente green può non solo coesistere con la città, ma far tutt’uno con essa realizzando una nuova forte identità. Non sarà facile ma è questa la prospettiva su cui puntare.

Rosario Pavia

 

 

 

N.d.C. - Rosario Pavia, già professore ordinario di Urbanistica all'Università degli Studi "G. d'Annunzio" di Chieti-Pescara, ha diretto il Dipartimento Ambiente Reti e Territorio dello stesso ateneo e il periodico "Piano Progetto Città".

Tra i suoi libri: Le paure dell'urbanistica (Costa & Nolan, 1996); con A. Clementi, Territori e spazi delle infrastrutture (Transeuropa, 1998); Babele. La città della dispersione (Meltemi, 2002); con L. Caravaggi e S. Menichini, Stradepaesaggi (Meltemi, 2004); Adriatico risorsa d'Europa (Diabasis, 2007); con M. Di Venosa, Waterfront. Dal conflitto all'integrazione (LISt, 2012); Il passo della città. Temi per la metropoli futura (Donzelli, 2015); Tra suolo e clima. La terra come infrastruttura ambientale (Donzelli, 2019).

Per Città Bene Comune ha scritto: Il suolo come infrastruttura ambientale (11 maggio 2016); Leggere le connessioni per capire il pianeta (21 giugno 2018); Questo parco s’ha da fare, oggi più che mai (19 aprile 2019); Roma, Flaminio: ripensare i progetti strategici (26 febbraio 2021); Le città di fronte alle sfide ambientali (1 ottobre 2021); Le parole dell’urbanistica (21 gennaio 2022).

Sui libri di Rosario Pavia, v. i commenti di: Renzo Riboldazzi, Città: e se ricominciassimo dall’uomo (e dai suoi rifiuti)? (23 settembre 2015); Patrizia Gabellini, Un razionalismo intriso di umanesimo (22 settembre 2016); Paolo Pileri, Suolo: scegliamo di cambiare rotta (28 giugno 2019); Luca Zevi, Forza Davide! Contro i Golia della catastrofe (28 febbraio 2020); Patrizia Gabellini, Suolo e clima: un grado zero da cui ripartire (24 aprile 2020).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.


© RIPRODUZIONE RISERVATA

22 APRILE 2022

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Luca Bottini
Oriana Codispoti
Filippo Maria Giordano
Federica Pieri

cittabenecomune@casadellacultura.it

iniziativa sostenuta da:
DASTU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Conferenze & dialoghi

2017: Salvatore Settis
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2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2021: V. Magnago Lampugnani | G. Nuvolati
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

 

 

Gli incontri

2021: programma/1,2,3,4
2022: programma
 
 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori
2019: Alberto Magnaghi

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021: online/pubblicazione
2022:

S. Sacchi, Lo spazio urbano è necessario, commento a L. Bottini, Lo spazio necessario (Ledizioni, 2020)

D. Calabi, La "costituzione" degli ebrei di Roma, commento a: A. Yaakov Lattes, Una società dentro le mura (Gangemi, 2021)

F. Ventura, Memoria dei luoghi ed estetica dell'Ircocervo, riflessione a partire da: G. Facchetti, C’era una volta a San Siro (Piemme, 2021) e P. Berdini, Lo stadio degli inganni (DeriveApprodi, 2020)

E. Scandurra, Il territorio non è una merce, commento a: M. Ilardi, Le due periferie (DeriveApprodi, 2022)

A. Mela, Periferie: serve una governance coerente, commento a: G. Nuvolati, Alessandra Terenzi (a cura di), Qualità della vita nel quartiere di edilizia popolare a San Siro, Milano (Ledizioni, 2021)

M. A. Crippa, Culto e cultura: una relazione complessa, commento a: T. Montanari, Chiese chiuse (Einaudi, 2021)

V. De Lucia, La lezione del passato per il futuro di Roma, commento a: P. O. Rossi, La città racconta le sue storie (Quodlibet, 2021)

M. Colleoni, Mobilità: non solo infrastrutture, commento a: P. Pucci, G. Vecchio, Enabling mobilities (Springer, 2019)

G. Nuvolati, Una riflessione olistica sul vivere urbano, commento a: A. Mazzette, D. Pulino, S. Spanu, Città e territori in tempo di pandemia (FrancoAngeli, 2021)

E. Manzini, Immaginazione civica, partecipazione, potere, commento a: M. d'Alena, Immaginazione civica (Luca Sossella, 2021)

C. Olmo, Gli intellettuali e la Storia, oggi, commento a: S. Cassese, Intellettuali (il Mulino, 2021); A. Prosperi, Un tempo senza storia (Einaudi, 2021)

A. Bagnasco, Quale sociologia e per quale società?, commento a: A. Bonomi (a cura di), Oltre le mura dell’impresa (DeriveApprodi 2021)

R. Pavia, Le parole dell'urbanistica, commento a A. A. Clemente, Letteratura esecutiva (LetteraVentidue, 2020)

G. Laino, L'Italia ricomincia dalle periferie, commento a: F. Erbani, Dove ricomincia la città (Manni, 2021)

G. Consonni, La bellezza come modo di intendersi, commento a: M. A. Cabiddu, Bellezza. Per un sistema nazionale (Doppiavoce, 2021)