Luca P. Marescotti  
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PIANIFICARE È NECESSARIO, NONOSTANTE TUTTO


Commento ai libri di Schiaffonati, Portoghesi, Piccinato et al.



Luca P. Marescotti


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La lettura, di fatto, è una conversazione con chi è assente e può essere lontano mille miglia nel tempo e nello spazio. Ma soprattutto è un dialogo con chi ha avuto una vita più creativa della nostra: è accoglienza della parola di un altro.” [Enzo Bianchi, La Repubblica, 10 gennaio 2022]

Je savais (...) que la lecture de tous les bons livres est comme une conversation avec les plus honnêtes gens des siècles passés, qui en ont été les auteurs, et même une conversation étudiée en laquelle ils ne nous découvrent que les meilleures de leurs pensées.” [René Descartes, Discours de la méthode, 1637]

 

 

PARTE I – Architettura e Urbanistica tra memorie e saperi

La curiosità, il desiderio di raffinare la mia visione dell’ambiente costruito, dell’urbanistica e dell’architettura e, principalmente, la volontà di mettere in discussione le mie convinzioni per porre ordine e chiarezza nei miei pensieri non mi fanno abbandonare gli studi, facilitato dalla condizione di poter disporre del mio tempo con una discreta abbondanza e, come ho sempre cercato, con la massima libertà: lo affermo per chiarire che non ho altri fini se non comprendere le città nelle loro trasformazioni concrete, nelle proposte e nelle teorie. Con questo spirito ho scambiato con Fabrizio Schiaffonati alcuni commenti in occasione del suo ultimo libro, Lettera a un aspirante architetto (Lupetti, 2021, pref. di Paolo Portoghesi), denso di ricordi dei nostri tempi giovanili, accorgendoci di quanto fossero diverse le nostre sensazioni e emozioni, nonostante fossimo stati studenti con pochi anni di differenza. Spinto da queste considerazioni trovai, non so se per qualche congiunzione astrale o se per il lungo isolamento indotto dalla pandemia, che in un breve arco di tempo erano state pubblicate altre due memorie: Roma/amoR. Memoria, racconto, speranza di Paolo Portoghesi (Marsilio, 2019) e Il carretto dei gelati. Un’introduzione all’urbanistica di Giorgio Piccinato (Roma Tre-press, 2020, pref. di Carlo Olmo). I loro diari paralleli ricostruiscono tre viaggi attraverso l’architettura e l’urbanistica durati una vita, sfalsati di pochi anni: Portoghesi si laureò nel 1958, Piccinato nel 1960 e Schiaffonati nel 1966. Nel 1963 la Facoltà di architettura fu occupata; era la prima occupazione universitaria italiana e giusto l’anno dopo mi iscrissi trovando una scuola in radicale trasformazione ove maturai la mia adesione all’urbanistica e mi laureai con una tesi di gruppo a pieni voti nel 1969. Le loro storie coprono quindi anche il tempo della mia vita; tramite loro ritrovo i momenti chiave della cesura con quel passato tragico accompagnata dall’impegno comune coeso nell’elaborazione del nuovo.

L’intreccio dei loro ricordi richiama la lettura come conversazione, un’idea che attraversa i secoli, articolata in varie forme e retta da intenzioni diverse, sempre confermandone la natura perché la parola scritta e interpretata nel suo contesto suscita l’immedesimazione, suscita rimandi e curiosità aprendo la mente a nuove interpretazioni e suggestioni e incitamenti a ricercarne tracce in altri libri, sconfinando e ricucendo logiche: queste sono esigenze primarie; da quel “conversare” con i testi sentivo emergere un dovuto rispetto all’importanza della memoria nella trasmissione del sapere, cioè della storia assieme al percorso che ha portato alle convinzioni con tutti i suoi dubbi. Tra l’artigiano maestro e l’allievo apprendista occorre sempre instaurare un rapporto di reciproco scambio, uno che pesca dal passato e l’altro che ha in sé le promesse del futuro. Questi aspetti senza dubbio trascendono architettura e urbanistica, poiché ineriscono alla formazione di ogni sapere critico, capace di interrogarsi e rigenerarsi, mentre sono estranei alla veloce professionalizzazione, alla brevità dei semestri, alla falsa efficienza delle promozioni, al linguaggio burocratico-accademico che vede lo studente come cliente da soddisfare con l’erogazione delle lezioni e la somministrazione degli esami.

Il testo da cui iniziare è la Lettera. Questo in verità mi ha sospinto verso altri lavori recenti dell’autore che nell’insieme mi paiono un corpus unico a difesa dell’architettura come professione, come ricerca e come insegnamento. Devo premettere che i miei rapporti da neolaureato con Schiaffonati, allora e per lungo tempo, furono assai marginali, una conoscenza nelle assemblee della Facoltà di architettura, nei seminari e nei corridoi, dove accanto ai discorsi sulle prospettive disciplinari e sull’organizzazione didattica irrompeva, e non sempre fuori luogo, la politica con i suoi conflitti che si manifestavano ora nella situazione milanese, ora in quella nazionale, troppo spesso incompresi per l’abuso di un linguaggio forzatamente marxista. La prima presidenza di Portoghesi segnò grandi speranze con un possibile patto tra socialisti e comunisti per rinnovare radicalmente l’insegnamento. Presto, e purtroppo, quelle possibilità si infransero, né il compromesso storico o l’alternativa socialista anni dopo poterono offrire altre occasioni: nei fatti le nostre vite seguivano piani diversi. Negli anni Ottanta la prima “riforma” universitaria portò il mutamento degli Istituti in Dipartimenti, ma neanche quello parve far decollare profonde innovazioni; da parte mia sostenevo l’apertura del Dipartimento di Scienze del Territorio DST verso altri dipartimenti e saperi, dalla geologia all’idraulica territoriale e alle scienze forestali, dall’informatica alla cartografia, temi su cui peraltro collaboravo con il Dipartimento delle “tecnologie” di Schiaffonati, il Pppe Programmazione, Progettazione, Produzione Edilizia. Negli anni Novanta, mentre cambiavano ancora i nomi dei dipartimenti, passai al Dipartimento di Disegno industriale e di tecnologia dell’architettura Ditec per insegnare ‘Tecnologie di protezione e di ripristino ambientale’. Nacquero poi tra di noi occasioni diverse di incontro e di collaborazione in completa sintonia, tra cui ricordo: Studi e ricerche per il Piano generale del traffico urbano del Comune di Legnano, Piano d’area del Parco Naturale della Valle del Ticino piemontese, Piano urbano della mobilità PUM del Comune di Novara. Abbiamo imparato a conoscerci e a rispettarci e, ora, nell’affrontare i suoi testi recenti è stato come un ritrovarsi, ma non per questo ne parlo, non per amicizia, dunque.

La Lettera a un aspirante architetto rivisita alcuni scritti degli ultimi vent’anni introducendoli con una lettera aperta per tutti coloro che vogliono trasformare la loro passione in professione. La prefazione di Paolo Portoghesi sposta il punto di vista a quel passato ormai lontano del 1963 per concentrare lo sguardo sul progetto pedagogico innovativo che si stava allora maturando centrato sul lavoro di gruppo e sull’impegno dell’università sul territorio. Fino al 1961 all’università si poteva accedere solo dai licei e l’insegnamento seguiva criteri rigidamente ripetitivi negli anni senza discontinuità con il passato; nel 1961, quando si aprì agli istituti tecnici e pur essendo nel pieno dell’esplosione tecnologica e sociale, non si adeguarono le risorse: quelle furono le cause scatenanti dell’occupazione, spartiacque tra l'accademismo e il futuro dell’insegnamento che Portoghesi caratterizza con la sintesi “insegnare è un ricercare insieme”. La base culturale scaturiva della diffusa “ricostruzione” edilizia del dopoguerra attenta al contesto internazionale, anche conflittuale, promosso dai Congrès Internationaux d'Architecture Moderne CIAM, e assai poco attenta all’urbanistica e alla sua gestione. Quegli anni furono segnati da un grande fermento costruttivo privo di vincoli e strategie, se non quelli economici: mentre, per esempio, la Edoardo Bianchi mandava un suo ingegnere a cercare l’acciaio negli Usa, lo studio Bbpr incaricava un omologo statunitense per stimare la fattibilità in acciaio e vetro della futura Torre Velasca, ma la risposta per i costi e per la difficoltà di approvvigionamento dell’acciaio la sconsigliava.

La ristrettezza di risorse spinse la sperimentazione progettuale e questa si riverberò sia nell’insegnamento, sia nell’università trasformando la scuola elitaria in un polo d’attrazione capace di saturare ben presto gli spazi appena costruiti: Architettura proiettava il Politecnico nell’università di massa ben prima del ‘68. Se la storia del Politecnico di Milano era finora dominata dalla Facoltà di ingegneria, che si riteneva da sola essere il Politecnico generando dissapori e difficoltà, l’aumento degli studenti della Facoltà di Architettura ne incrementava le risorse aprendo una fase di possibili confronti e collaborazioni: l’accademia delle belle arti apparteneva ormai definitivamente a un passato remoto. Quelle esperienze didattiche tra progettazione e pianificazione progettazione industriale, ingegneria e tecnologie sottintendevano il lavoro di gruppo interdisciplinare senza contrapposizioni e come unica strada per confronti internazionali: “ricercare insieme”, per l’appunto. E transdisciplinare.

La Lettera scritta nello stesso anno che celebrava i centocinquanta anni del Politecnico e cinquant’anni da quella prima occupazione, ripercorre le specificità dell’architettura milanese, come Facoltà e come principi progettuali: da Casabella alle lezioni di Rogers, dalla cerimonia in onore di Alvar Aalto, Luis Kahn e Kenzo Tange del 1964 fino alla laurea ad honorem a Alvaro Siza per terminare con alcune raccomandazioni. Quelle cronache, che forse ad alcuni paiono episodi di un mondo dissolto, contengono il senso stesso dell’insegnamento e della professione, sono la chiave di lettura della ricchezza del pluralismo culturale, tra riflessione e confronto. Non fuori luogo accanto ai saggi composti nel breve arco di un lustro (2013-2018) stanno le sue testimonianza su Belgiojoso, Helg e Zanuso, i maestri, di cui aiuta a ricostruirne l’umanità, un’essenza irrinunciabile; di Belgiojoso riporta un estratto dalla risposta che diede agli studenti del Movimento Studentesco che accusavano i professori di professionalismo, “termine dispregiativo a indicare una retriva pratica professionale di asservimento alla logica del capitale, per usare un’abusata locuzione d’allora”, chiosa Schiaffonati. Ricordo ancora la grande aula piena e fumosa in cui ci radunammo – parlerà Belgiojoso – per ascoltarlo pacato e fermo:

Il professionalismo è l’esercizio della libera professione per esercitare la propria attività di architetto (…) l’autonomia della ricerca deriva dall’organizzazione pluralistica all’interno del nostro gruppo (…) Questa posizione si contrappone a una concezione qualunquista che accetti le azioni didattiche come campi chiusi in sé stessi e indifferenti alle sollecitazioni che nascono dalle situazioni esterne, sia alla precostituzione di gruppi egemoni che monopolizzino l’azione guida della Facoltà.

Un testo rilevante, allora come oggi, per chiunque voglia fare l’architetto e che ancora rende il clima milanese, città delle contraddizioni, dove apertura e innovazione si scontravano giorno dopo giorno con la continuità con il passato, dove l’università aveva ancora radici non più accettabili e doveva armonizzare diverse anime per affrontare l’irrompere di nuovi bisogni: questa fu la nostra controversa scuola. Leggo attraverso i capitoli l’alternanza di riflessioni professionali e personali; dalla fine della lettura ritorno all’inizio con quelle raccomandazioni che invitano tra l’altro l’aspirante architetto a progettare nella sensibilità del contesto e a “buttarsi dentro” con energia ma sempre e comunque con modestia.

Schiaffonati, come dicevo, aveva pubblicato altri tre libri spinto dalla stessa passione per il confronto e dalle peculiarità dell’architettura moderna italiana, così ancora tanto attuali, così spesso troppo ignorate. Paesaggio italiano. Viaggio nel paese che dimentica (Lupetti, 2016) si articola in cinque parti, quattro dedicate alla mobilità, giocate su punti di vista diversi tenuti assieme dal guardare attraverso i vetri di un’automobile o di un treno, dove le città appaiono nella loro costruzione architettonica palesando incongruenze e inadempienze, generate da un’esasperante lentezza delle realizzazioni, come per esempio nel cantiere interminabile per il parcheggio in piazza Sant’Ambrogio o nella realizzazione dell’alta velocità, frutto forse di un’incapacità politica gestionale condita dal “sabotaggio” dei comitati del no: dal no al parcheggio al no alla TAV. Sullo sfondo il patrimonio storico architettonico milanese è sostituito dalla successione delle architetture di Ridolfi Michelucci Mangiarotti Tange Gabetti e Isola visibili nel percorso da Roma a Milano: sono inviti a ricostruire un’idea critica della modernità senza trascurare di chiedersi perché mai quelle architetture esemplari siano diventate testimoni inascoltati. Nei capitoli successivi l’accento verte su Milano; il registro della narrazione abbandona “l’espediente del dialogo” per proporre un percorso lento e riflessivo attraverso l’architettura milanese del dopoguerra: il giro inizia dal quartiere Feltre, si sofferma sulla demolizione del centro Ibm di Zanuso a Segrate per ritornare all’incompiuta Santa Giulia, fino a trovare le sue logiche conclusioni in una cena conviviale dove la città “museo vivente dell’architettura moderna” si confronta con i nuovi progetti, occasione per affermare una certa “assenza di cultura”, un tema che forse si aggancia ai temi trattati nell’intervista di Federico Oliva a Giuseppe Campos Venuti – Giuseppe Campos Venuti, Città senza cultura. Intervista sull’urbanistica, a cura di Federico Oliva (Laterza, 2010) –, magari solo per assonanza. Lo spreco delle risorse architettoniche si combina con la latitanza dell’urbanistica o con un suo uso improprio, generando tra l’altro una lunga lista di opere abortite o non finite, miscelando miopia e sogni di grandezza: la lista va da Porta Vittoria e dalla Biblioteca Europea a Santa Giulia e Expo 2015, tenute in piedi sempre invocando le grandi firme dell’architettura. La sua visione “professionale” si riflette nel modo di leggere il paesaggio costruito, soprattutto quando rimarca l’importanza dello sperimentare armonie capaci di rispondere alle domande sociali. L’ultimo capitolo e la postfazione cambiano ancora registro per suggerire un continuo e schietto confronto tra vissuto e contesto, tra individuo e architettura.

Paesaggi milanesi sviluppa il tema con fare colto e professionale concentrandosi su un ambito territoriale ristretto, proprio quello del quarto capitolo del libro precedente, il sud est milanese (Municipio 4), in cui mette a fuoco i dettagli più significativi. La storia dello sviluppo urbano appare attraverso i ricordi di una vita vissuta in zona e, nello stesso tempo, di un percorso di formazione culturale parallelo alla formazione della città moderna, tanto da trasformarsi di fatto in una guida progettuale. Schiaffonati sostiene che imparare a progettare e a redigere i piani sia prima di tutto un “saper vedere”, un sapere politecnico che scaturisce dalla cultura architettonica e urbanistica, senza la quale si è ciechi, incapaci di spiegare, e quindi muti. Così accade per Metanopoli a San Donato, un quartiere la cui qualità ambientale e architettonica è stata spesso trascurata nella didattica, complice quel certo “silenzio degli urbanisti” in parte causato, devo ammetterlo, dalla spregiudicatezza di Enrico Mattei e dalla sua insofferenza per certe regole, per l’appunto quelle urbanistiche. A distanza di tempo, pur ribadendo qualche ragione nel giudizio su quel modo di fare urbanistica, si dovrebbe essere in grado di svolgere una valutazione più ampia sulla qualità di Metanopoli in confronto con quella di altre ‘periferie milanesi’, per evitare che quel silenzio faccia dimenticare che un’altra Milano sarebbe stata possibile, ma che avrebbe dovuto svilupparsi attraverso un’altra coscienza dell’urbanistica, capace di integrare le diverse scale di intervento delle opere pubbliche, delle infrastrutture, dei progetti urbani, dei servizi e dell’architettura. In appendice al libro intervengono Eleonora Fiorani sul risvolto sociale del progetto urbano e sull’urgenza del supporto urbanistico e Giovanni Castaldo sulla progettualità del rilievo fotografico possibile e utile strumento nella formazione e nella valutazione dei risultati.

Lezioni di architettura (Lupetti, 2020, postfazione di Marco Biraghi) si discosta da questi impianti per divenire un Bildungsroman di un gruppo di lavoro, un romanzo di formazione, quindi, che intreccia le emozioni in un continuo scambio di punti di vista, lasciando al maestro un ruolo mai dominante, forse legato a un certo senso della maieutica a cui si appellava Rogers. La professione e il metodo progettuale sono sempre in primo piano, sono il collante del gruppo, che cresce in un confronto delle diversità. Il lettore deve superare la diffidenza ingenerata dall’uso delle iniziali al posto dei nomi e forse non deve nemmeno cercare le corrispondenze con la realtà, perché il libro si rivolge a una cerchia assai più allargata. Si tratta, tutto sommato, di un discorso sulla pedagogia fondato sull’importanza della concretezza della progettazione, sul rapporto coinvolgente tra docenti e studenti, tra maestri e allievi, che, aggiungo, si può coltivare solo durante un lungo percorso.

È interessante l’attenzione continua di Schiaffonati sulla formazione, sulla professione come passione, sulla delicatezza verso il contesto architettonico e sociale. Mi attraggono anche le ripetute evocazioni dell’urbanistica, la capacità di guardare alla città come paesaggio, di osservarne l’architettura, di renderci coscienti di quanto l’architettura ci coinvolga e ci plasmi. Sviluppa in forme personali il ‘saper vedere l’architettura’ e ‘la coscienza dell’occhio’; è un filo rosso che mette sotto accusa quell’insegnamento privato di memoria e di storia tutto proiettato nella contingenza e portatore di ignoranza e indifferenza, mentre l’evidenza materiale ci mostra di continuo quanto con l’architettura si possa modellare lo spazio dell’abitare e dell’ambiente creando paesaggi, modi d’uso e comportamenti, e quanto simili potenzialità richiedano la guida discreta, quasi invisibile, dell’urbanistica, che con accenti e sfumature potrebbe trasfigurare e dare senso compiuto al linguaggio progettuale. I due linguaggi, se ben usati, si miscelano come in una partitura contrappuntistica, fortemente strutturata, che combina più linee melodiche: se l’urbanistica permette di introdurre relazioni scambi connessioni centralità, suggerendo o reclamando gli usi degli spazi pubblici e privati, dilatando o restringendo l’essenza stessa della cittadinanza, selezionando risposte alle istanze sociali attraverso la distribuzione o la ridistribuzione di ricchezze, l’architettura forma divide integra spazi pubblici e spazi privati, ne definisce gli scenari, le dimensioni e i rapporti. Mai solo tecniche.

L’accennare di Schiaffonati all’urbanistica mi fa riandare alle lezioni di Campos Venuti su Milano, che ci spinsero con l’entusiasmo giovanile a entrare a gamba tesa prima e dopo la laurea nella denuncia delle responsabilità senza badare all’orientamento politico delle amministrazioni e degli urbanisti; norme ambigue, campiture incomprensibili dell’azzonamento, cartografie arretrate e spesso manipolate si traducevano in carenza di aree per i servizi, nell’offerta sfrenata di terreni edificabili, nell’espansione di una periferia di iniziativa privata di scarsa qualità, nella localizzazione di edilizia popolare in situazioni marginali, in sintesi nella crescita metropolitana a macchia d’olio. Dopo la grande espansione, l’attenzione fu diretta verso i vuoti urbani e le aree liberate dai trasferimenti delle fabbriche permettendo interventi di pregio e sacrificando istanze sociali. Leggevamo nel territorio, e non poteva essere altrimenti, il consolidamento degli squilibri sociali; la tensione che ci faceva cercare un’urbanistica alternativa ci portava a scontrarci più o meno violentemente con quella tradizione disciplinare ovunque insegnata e riprodotta. Con pacatezza Federico Oliva – nel suo L’urbanistica di Milano. Quel che resta dei piani urbanistici nella crescita e nella trasformazione della città. Con sei itinerari (Hoepli, 2002) –, senza rinnegare, ricorda la passione di quegli anni nel valutare l’urbanistica di Milano. La sua non è una storia dello sviluppo urbano, ma un discorso sull’urbanistica e su Milano attraverso i piani e le loro attuazioni, i mutamenti della disciplina e i contenuti possibili della riforma legislativa; mette davanti a tutto l’intero processo dell’urbanistica. Ricorda come la deregulation abbia spinto a mettere in discussione il piano regolatore in sé e per sé, senza chiedersi se fosse necessario riformare il piano nonostante esistessero esempi notevoli in questo senso ma furono esempi ignorati, e volutamente credo, così che Milano rimase una città senza piano proprio mentre si innescavano epocali mutamenti; alla capacità delle amministrazioni di individuare i problemi, non seguivano azioni per governarne le soluzioni. Di fatto, invertendo i piani dell’analisi, assume un ruolo complementare a Schiaffonati. Le due narrazioni sono da tenere sullo stesso livello con Oliva che percorre tutta la città proponendo alcuni itinerari emblematici di cui uno [Itinerario 2 “Quartieri razionalisti”] si sovrappone in parte a quel Municipio 4 dei Paesaggi milanesi; si riconosce che le loro professionalità hanno radici nella comune matrice culturale milanese riflessiva e critica, capace di distinguere le strane forme che può assumere l’urbanistica nel modo di rispondere alle necessità con gli spazi pubblici. Infine, come Schiaffonati con Giovanni Castaldo, anche Oliva scelse di far illustrare il testo con un progetto fotografico originale affidato a Moreno Gentili, il quale aggiunge un’appendice per spiegarne struttura e finalità, ipotesi progettuali che vorrei fossero messe a confronto anche con quell’ambizioso progetto dell’Amministrazione Provinciale di Milano, Archivio dello Spazio (1987-1997) – cfr. Achille Sacconi (a cura di), 1987-97 Archivio dello spazio. Dieci anni di fotografia italiana sul territorio della Provincia di Milano (Art&, 1997) – incentrato sulla schedatura e sulla fotografia del patrimonio architettonico e ambientale. L’immagine della città e il rilievo fotografico certamente non sono temi marginali.

Le due letture della città rispondono entrambe all’esigenza di includere l’una nell’altra. La lettura di Schiaffonati si dispiega scegliendo narrazioni in soggettiva, fatte di osservazioni e ricordi e invenzioni; a volte si lascia sfuggire qualche accenno curioso alla bellezza, quella femminile, anche con una certa ironia; non so perché, ma l’ho sentito come un riferimento indiretto a quei movimenti che invocano il fine ultimo dell’urbanistica nella bellezza, come se fosse un valore oggettivo, salvifico, sinonimo di bene comune, senza rendersi conto dell’insindacabile arbitrarietà della bellezza. Schiaffonati in soggettiva nelle sue Lezioni di Architettura ironizza sui grattacieli, prima parlando di Øresund/Malmö e del Turning Torso di Calatrava e pensando alla milanese Torre Hadid detta Lo Storto, per immaginarsi un futuro non troppo lontano in cui i parchi urbani sostituiranno i demoliti grattacieli [Lezioni pp. 131-136]; poi citando il sarcasmo con cui Gregotti salutando il Bosco Verticale definiva anticipatrice una zia che raccomandava alle amiche di “far crescere sulle loro lunghe terrazze fiori, alberelli, verde pendente” [Lettera, p. 28].

La lettura di Oliva si mantiene su un piano distaccato, se posso dire scientifico, che insegna a leggere il rapporto tra le due discipline e a riconoscere l’influenza dell’una sull’altra, senza misconoscere l’evidenza che la città può essere trasformata procedendo per strade diverse, senza fare piani e che il giudizio, che risulterà a posteriori, dovrà essere sempre un giudizio complesso articolato su più livelli. L’aspetto sociale, la necessità di rispondere alla collettività e all’ambiente, spinge verso le parole di Heidegger “essere posti nella pace” e “aver cura di ogni cosa nella sua essenza”. Le sue parole per me significano una città mite e accogliente, un abitare senza periferie e senza squilibri, una comunità solidale che si “prende cura della Terra”.

Schiaffonati ne coglie le carenze quando annota l’incoerenza dei luoghi di un tessuto urbano smagliato, senza quell’ordine della natura alla Alexander, in cui si combinano una decina di principi, tra cui centralità, armonia, interezza, separazione e gradualità. Il modo con cui Schiaffonati ricorre alla memoria professionale per guidare verso l’invenzione progettuale sottintende che non è mai solo la scoperta di qualcosa che sta in noi, né del riflesso di un’identità indicibile dei luoghi, ma di un processo culturale di scambi e di sedimentazione, di sensibilità e di ascolto. La maieutica non opera su una tabula rasa, ma è uno strumento delle conoscenza, interrogandola modifica il modo di pensare e la amplia.

Le memorie di Portoghesi, in parte già contenute in articoli e saggi, sono scandite da suoi disegni e dal vissuto romano: la sua giovinezza, la formazione universitaria, le conoscenze, la sua esperienza negli anni della contestazione vissuta tra Valle Giulia e il Politecnico di Milano, il suo progettare attento alla singolarità dei luoghi. L’inizio è spettacolare: invita il lettore alla geomorfologia dei luoghi, lo guida nel formarsi lento dei paesaggi attraverso le ere, a riconoscere le analogie tra le forme del territorio nei colli e nelle anse fluviali, tra la valle del Treja e il territorio romano, così come più avanti rievoca le dolomiti in un’assonanza complessa con l’amata architettura. Questo senso del paesaggio è una costante del suo percorso progettuale, la cui sensibilità affonda le radici nella famiglia, così la selezione dei ricordi offre un racconto particolare che illumina l’idea di architettura; la riflessione va oltre ai dualismi città-campagna o centro-periferia, suggerendo di evitare azzonamenti frettolosi; per spiegare il suo avvicinamento all’architettura, incerto tra le vocazioni di storico o di scrittore, alla casualità dell’incontro su una bancarella con Pevsner e Persico accosta la scoperta delle borgate:

Cominciavo a capire che non solo una città non può considerarsi come un insieme di edifici e strade, ma che non ha nemmeno senso considerarla un insieme organico di edifici, strade e persone; la città era ormai chiaramente per me un coacervo di cose contrastanti, irriducibili a un sistema coerente: l’architettura opposta alla comunità, un rione opposto a un altro, il centro opposto alla periferia, i giovani contro i vecchi, gli sfruttati contro gli sfruttatori. [La scoperta della città]

Portoghesi costruisce un continuo dialogo tra sensazioni intime e mondo esterno; infanzia adolescenza maturità sono illuminate da luci improvvise, da sensazioni familiari, da un certo senso di timidezza mista a intraprendenza, da percezioni urbane; l’università si apre con i “riti della goliardia” e con l’ultima lezione di Marcello Piacentini, accompagnati dal fastidio verso l’accademismo del passato: “Io d’altronde consideravo la facoltà con disprezzo: i professori non facevano lezione”; l’arrivo di Zevi, Quaroni e Piccinato portano la speranza di un rinnovamento, poi scombinata dal Sessantotto e dalla battaglia di Valle Giulia; i concorsi; le amicizie; l’esperienza milanese; l’amore per Giovanna e il suo processo creativo. Sfiora nei ricordi Campos Venuti solo in relazione alla Sau Società di architettura e urbanistica assieme a Benevolo e Moroni, giusto per annotare: “Dalla Sau mi divideva sia la posizione politica sia l’orientamento verso un’architettura tanto ‘impegnata’ nella politica quanto poco impegnata nelle scelte di linguaggio” [Valle Giulia]. Mi piace il suo intrecciare gli argomenti, li rende vivi; passa da Ridolfi all’amicizia interrotta e ritrovata con Zevi fino allo stretto rapporto con Craxi e con il Partito Socialista. La “Roma sognata” è la Roma dei progetti e degli slanci, anche se molti, troppi, interrotti anzitempo, ma in mezzo a tante macerie risalta la progettazione della Moschea, elaborata in sintonia con il paesaggio naturale e urbano per prefigurarne un nuovo ruolo mondiale di scambi tra le culture. Con un improvviso scarto ci introduce nella “identità romana”, un capitolo dedicato alle sensazioni, al profumo, agli odori alla luce; sono divagazioni non certo a sproposito tra cibo, dialetto, architettura e immagine della città, arte di strada, poesia. La chiusura del libro, la speranza, ritorna alla visione della Terra nei suoi cambiamenti proponendo l’enciclica Laudato si’ del 2015 e la Carta della Terra del 2000 come grida contro gli squilibri. Spesso da studente avvertivo un certo fastidio verso le citazioni letterarie che facevano tanto “intellettuale al passo dei tempi”, che alludevano senza spiegare, mentre ho sempre apprezzato le citazioni di indirizzamento che permettono di andare oltre per approfondire il significato delle frasi. Portoghesi ricorda il drammatico autunno 2018 con l’uragano sulle Dolomiti “inizio di un cataclisma fino a ieri inimmaginabile. (...) la cosiddetta tropicalizzazione del Mediterraneo” per invitare a rileggere l’enciclica di Papa Francesco. Portoghesi termina così citando come Dossetti, ma con la lucidità di cent’anni non certo di solitudine, il passo di Isaia “Sentinella, quanto resta della notte?” soffermandosi sul domandare: “se volete domandare, domandate” (...) “perché il domandare è la pietas del pensiero”. Sono altri rinvii che donano profondità, che spronano al confronto magari anche ritornando a Weber che concludeva “La scienza come professione” con lo stesso passo biblico.

Dopo Milano e Roma era più che necessaria Venezia, prestigiosa sede per l’architettura capace di avviare per prima il corso di laurea in urbanistica nel 1970 con grande anticipo su tutte: la terza voce narrante è Giorgio Piccinato, laureatosi nel 1960 alla Sapienza ma che dopo un decennio di vagabondaggio tra Harvard, Salisburgo, Mit, Berkeley, Wayne e Parigi, approda nel 1969 all’insegnamento presso lo Iuav. Per il suo raccontare sceglie una modalità diversa, mettendo assieme una raccolta di testi scritti in un arco ampio di tempo, che però struttura in modo da donarle un senso di unità imprevedibile per il lettore, che però è sottolineata nel sottotitolo “Un’introduzione all’urbanistica”, mentre la prefazione di Carlo Olmo suggerisce di coglierne l’essenza nella ricerca di uno spazio urbano capace di suscitare giustizia, democrazia assieme a “desideri e passioni”:

Giustizia, democrazia, desiderio: le chiavi per entrare in un libro che è indubbiamente autobiografico, ma anche generazionale e testimoniale, come conferma l’autore stesso nel saggio che chiude il suo viaggio. [p. 9]

Articolato in otto parti, ciascuna aggiornata da un apposito commento, ha per introduzione un “Come eravamo”, in cui aggiunge ulteriori ricordi sul clima della Sapienza e del suo percorso universitario, sul conflitto che incombeva con i professori del passato che ancora insegnavano e con i conseguenti antagonismi che si proiettavano sulle trasformazioni moderne di Roma, da una parte l’EUR sostenuto dalla destra, dall’altra lo SDO, il Centro Direzionale nel settore Orientale, proposto dalla sinistra, fino alla mal gestione delle Olimpiadi. Seguono quattro ‘visioni geografiche’ della disciplina, esemplari per affrontare la più generale questione urbana: la prima simboleggiata dalla Gran Bretagna [1977], che dal mito inglese degli anni Sessanta finisce nello scollamento tra piani e realtà, ben visibile proprio in Londra e nell’avanzata del neoliberismo che prelude a Margaret Thatcher; la seconda che tratteggia i rapporti variegati delle città americane con il Movimento Moderno; la terza che trae dall’America latina [1996] il tema della violenza urbana e la quarta che vede nell’estremo oriente e nel sud-est asiatico gli emblemi delle contraddizioni tra sfrenato consumismo, innovazioni tecnologiche e squilibri sociali, un groviglio irrisolvibile [2002]. La sesta sezione “La città e la storia” è dedicata alla questione urbana e alla città europea nel suo rapporto con la storia e con la globalizzazione. I temi, certamente ancora d’attualità, sono le frontiere che l’urbanistica del piano locale, per definizione, non pare in grado di comprendere e, quindi, di superare. La settima sezione “Il paesaggio, il territorio” affronta prima il rapporto con la storia [1973, 2003, 2015], poi quello con il paesaggio e Il territorio, dove la scala territoriale è letta come nuovo orizzonte della pianificazione e della progettazione [1965, 1985]. Nel capitolo “Le città” manifesta la stessa critica con cui noi da giovani attaccavamo non tanto i progettisti quanto la politica dei quartieri di edilizia pubblica milanese, quella logica distorta che urbanizzava terreni marginali favorendo l’iniziativa privata sui quelli intermedi. Piccinato stesso vedeva quella prassi nel 1985 quasi generalizzata e senza differenze in tutto Italia:

E i quartieri d’iniziativa pubblica, nel bene e nel male, sono diversissimi da quelli privati: sono lontani dall’area centrale, nella disperata ricerca di zone a basso costo (ma anche per offrire ad amministrazioni compiacenti l’opportunità di portare gratuitamente le infrastrutture ai terreni intermedi), sono disegnati secondo standard urbanistici e edilizi rigorosi, con abbondanza di spazi comuni e un’attenta gerarchia stradale, fino a separare nettamente i percorsi pedonali da quelli automobilistici, sono mal collegati al centro e poverissimi – quando non privi – di negozi e luoghi di ritrovo. [p. 132]

“Le teorie, i dubbi”, l’ultima sezione, si concentra sulle debolezze teoriche [1962, 1984, 2000, 2012], su cui mi soffermo per marcare tra osservazioni salienti: la prima sta nell’importanza del suo ruolo nella disciplina a partire proprio dalla casuale scoperta in un armadio delle preziose annate di Der Städtebau, forse quel “casuale” è solo una sua sottostima sorniona, ma l’aver riportato l’attenzione alla manualistica tedesca, la cui opera di sistematizzazione sta alla base di larga parte delle teorie e delle pratiche, è senz’altro uno dei suoi grandi meriti; la seconda riguarda invece l’analisi dello stato della teoria, in cui Piccinato si limita a riconoscere tre approcci, quello dell’urbanistica disegnata (l’eredità della manualistica tedesca), quella del piano-processo espressione dell’Italia del riformismo di derivazione statunitense, e infine quello dell’analisi neo-marxista non ancora matura per elaborare un suo approccio al piano; la terza osservazione, un probabile omaggio all’Aymonino delle Origine e sviluppo della città moderna, ricorre in due capitoli e contrappone la “storiografia” del buonismo utopistico che trascina la strana idea che l’urbanistica debba essere progressista, alla prassi in genere poco attenta ai bisogni, per non dire che li ignora, facendo così naufragare quelle premesse di implicito impegno sociale.

La sua curiosità pare evitare di addentrarsi nell’urbanistica dell’esperienza italiana, senz’altro ben presente e per la quale in “Justice, democracy, desire” invoca l’arte come rimedio agli squilibri. Non credo affatto inutile bandire la desolazione di certe periferie e di certi azzonamenti industriali dove l’ambiente viene massacrato a favore di una, solo presunta, efficienza produttiva, ma questi non sono altro che segni dei molti squilibri che si consolidano nell’uso del territorio. Tuttavia, non mi pare che la sua invocazione finale alla bellezza debba essere interpretata come una rinuncia all’impegno politico per un riduzionismo estetico, quanto piuttosto come un richiamo etico a investire nella qualità progettuale e funzionale degli spazi pubblici, un tema non facile, ineludibile, un tema che ritorna al diritto alla città.

Per finire torno alle prime pagine dove Piccinato ricorda che lo spunto per questo libro lo ebbe scrivendo un saggio pubblicato nel 2015 in onore di Carlos Sambricio “caro amico”, che solo quattro anni dopo avrebbe pubblicato il memorabile libro El Urbanismo de la Transición, un accenno che rende spontaneo uno scomodo interrogativo sul mancato confronto tra gli urbanisti italiani, una domanda che mi ha sempre fatto diffidare di certe teorizzazioni. Nei saggi di Piccinato non si dà spazio ai temi della transizione e del riformismo senz’altro noti, come se la discussione fosse stata evitata o fosse da evitare o non riguardasse quei dubbi teorici. Sono convinto che affrontare diversamente i problemi posti dalle nuove dimensioni urbane e dai diversi fronti aperti dagli squilibri e, soprattutto, svolgere un confronto aperto tra gli urbanisti e i politici che in Italia e in altri paesi impostavano altre modalità di intervento avrebbe potuto contribuire a dirimere non pochi dubbi; senz’altro sarebbe stato opportuno che la discussione italiana sulla nuova legge e sul nuovo modo di pianificare fosse approfondita scientificamente, con realismo e, per ultimo ma non per minor importanza, con omogeneità di linguaggio.

Avverto tra i libri l’irrompere di colloqui del tutto aperti, dal tono mai scomposto, tali da permettere di disporre di tutto il tempo necessario per metterne in prospettiva le logiche, rivelando la molteplicità delle interpretazioni e le sotterranee e intricate strutture, sostenuti da ragioni e convinzioni, con sintonie complementarità o dissonanze. Alla fine, e solo allora, si potrà riattraversare il paesaggio milanese e grazie all’acquisita sensibilità si paleseranno le implicite lezioni di progettazione urbana. Sento però emergere una questione di fondo nella mancata condivisione di un linguaggio e di una cultura urbanistica capace di generare assiomi, ipotesi generali e definizioni assieme discusse. Merita a questo proposito un cenno a parte il commento, attualissimo seppure ancora riferito a altri tempi, che Piccinato scrive sull’incapacità, o impossibilità, di una costruzione condivisa della disciplina:

Lì poi ci dividemmo, perché io andai con gli urbanisti, guidati da Giovanni Astengo, in un gruppo che presto riunì alcuni ricercatori fra i più interessanti del momento fra cui Marco Romano, Bruno Gabrielli, Bernardo Secchi, Francesco Indovina, Paolo Ceccarelli. Anche questo gruppo però si divise, forse in uno sforzo d’imitazione della sinistra del paese, fra quelli che rivendicavano il ruolo dell’organizzazione spaziale e quelli che puntavano esclusivamente ad analisi sociali ed economiche del territorio. [p. 106]

Sono memorie da leggere tutte insieme per meglio interpretare le argomentazioni dei molti dibattiti, a volte feroci, che spesso si sono aperti, e che ancora si riaprono, ma che non vanno alle radici, né fanno i conti con quanto si è discusso per decenni; che non si pongono domande, che sanno ascoltarsi. Senza mai concludersi. Eppure, i termini del problema che l’urbanesimo ha posto e pone vanno ben oltre piccole dispute locali come appare dalle recenti analisi del Sesto Rapporto IPCC, preceduti da periodiche sollecitazioni, ma ora non più eludibili o rinviabili: sapremo ascoltarle e di conseguenza assumerci le dovute responsabilità, mentre le diseguaglianze sociali ambientali e economiche si consolidano negli usi del territorio e nelle ricchezze individuali, aggravando le alterazioni ambientali? I vecchi schemi interpretativi si trasformano in barriere concettuali sempre difficili da abbattere, mentre l’attualità, nonostante la strenua voglia di confini, rende evidente che la realtà è un pianeta piccolo, globale, in cui la necessità spingono tutti verso coesioni e sinergie, non scontri.

Riordinare i ricordi è allora occasione per rimettere in discussione la formazione e la professione, riformulare valori e giudizi, mettere assieme diverse testimonianze per sollevare quel velo di semplicità narrativa che rischierebbe di sottovalutare le tensioni della storia. Ammetto che mi è stata di grande aiuto una certa assonanza che scaturisce dal comune vissuto e dalla comune volontà di rintracciare le origini della nostre culture, quella certa lingua che sta alla base del nostro pensiero, con la differenza che se io percorrevo discipline diverse per dare un senso alla mia disciplina e alla mia formazione, Schiaffonati e Portoghesi hanno sempre fatto perno sull’architettura, interpolando università e territorio in un continuo raffronto con l’insegnare dei “maestri”, che permea con coerenza le loro opere; ciascuno esplora a modo suo il passato, ricorrendo a forme quasi conviviali, ma sempre erudite. Il loro lungo raccontare scaturisce da singolari prospettive del vivere la città e il territorio, con la progettazione architettonica contesa tra tecnologie e poetiche, sospinte dall’incombenza oppressiva degli squilibri sociali, economici, ambientali. Se in Schiaffonati traspare il corollario, come se fosse del tutto ovvio e naturale, di un’integrazione architettura-urbanistica, in Portoghesi mi pare cogliere maggiormente una sensibilità per la scala del quartiere o del progetto urbano come progettazione e per il paesaggio come contesto. In Piccinato si mostra quel versante diverso pur legato al paesaggio che attraversa nel tempo gli approcci di Bloch e Sereni, la definizione di città-regione e il formarsi della terza Italia; il suo approccio interamente rivolto all’urbanistica si sviluppa inanellando con grande attenzione alcuni scritti non secondo cronologia, ma secondo problematiche con una coerenza che quasi oscura la data originale. In tutti e tre non secondario è l’aspetto umano: l’empatia con i giovani, il carattere, quella certa timidezza di Portoghesi, il dubbio nel continuo interrogarsi di Schiaffonati sulla professione, sul proprio ruolo, su chi possa essere chiamato maestro, il piacere di poter fare quello in cui si crede ostentato da Piccinato, sia quando nel titolo cita la sua Ferrara e Luchino Visconti, sia nell’incipit quando afferma: “non ho mai lavorato, (...) il tempo per me è passato senza che mai riuscissi veramente a distinguere tra lavoro e ozio”.

Così mentre andavo ragionando sopraggiungevano repentine nel giro di un paio di mesi le notizie delle morti di Oriol Bohigas (30 novembre 2021) e di Ricardo Bofill (14 gennaio 2022), catalani, progressisti, e assai diversi. Le mie riflessioni allora hanno preso altre strade e il mio salotto si è riempito di libri, la conversazione si è fatta fitta fitta, rendendo più leggero lo scorrere dei giorni già appesantiti dalla pandemia oltre che da un mio noioso infortunio che mi costringeva a una breve immobilità. Su quotidiani e riviste ritrovavo necrologi anche non banali, ma fu un piccolo corsivo italiano ad attirare la mia attenzione e a spingermi a registrare le loro voci: a un lettore che, generalizzando una certa incuria italiana per le coste, citava una frase di Bohigas a proposito di Barcellona “un controsenso troppo grande avere il mare e non avere la costa”, Francesco Merlo assentendo tristemente rispondeva, ahimè, “e pur vantando, nel passato e nel presente, alcuni tra i migliori architetti del mondo, forse non ha più avuto urbanisti dopo [Luigi] Piccinato” (La Repubblica, 7 dicembre 2021). Indispettito per questo eccesso di auto-denigrazione, ho ripreso alcuni testi di Bohigas e mi sono immerso in altri ricordi. Poi, quasi per caso, passando da un testo all’altro mi sono imbattuto in una pubblicazione di una decina d’anni fa che mi pareva offrire spunti non marginali per proseguire la conversazione tra Schiaffonati Portoghesi Piccinato e e Oliva discutendo proprio quel tema critico lasciato in sospeso: il progetto urbano.

Ma questo richiede un altro appuntamento. È tempo di un bicchiere di vino.

 

 

PARTE II - Il est retrouvée. Quoi? L'urbanisme: Il progetto urbano

Mentre andavo ripensando ai discorsi fatti, riprendendo a camminare tra i vigneti con un’erba inumidita dalla rugiada notturna unico sollievo alla prolungata siccità, mi interrogavo sul legame tra l’urbanistica e l’esperienza urbana di un cittadino; ricordavo le mie sensazioni su Milano e le confrontavo con quelle suscitate dalle città visitate e con le descrizioni letterarie per confrontarle con le analisi disciplinari; notavo quanto giocassero i sentimenti, e, in ogni modo, quanto poco l’urbanistica venisse raccontata e, soprattutto, compresa. Mi chiedevo quanto di quelle sensazioni fosse dovuta all’architettura, agli spazi e alle prospettive che l’architettura donava della città, quanto ai cittadini, al popolo, o plebe che sia, e quanto all’urbanistica.

Le identità delle città, formate da servizi lavoro e opportunità o in altri termini da vitalità benessere accoglienza o durezza, mi apparivano sfuggenti, indefinibili, percezioni mutevoli, per l’appunto, sospinte da processi sociali e economici e da stati d’animo assolutamente , con un presente sempre in bilico tra conservazione e trasformazione, in un antagonismo a volte feroce e crudele; sentivo che nulla resta immutabile; cambiano le società, cambiano le fedi e, dunque, cambiano i valori e le forme delle città. Un luogo può suscitare nostalgia in un individuo, senza per questo giustificare la conservazione assoluta: a questo bisogna attenersi, tramandare il passato, o meglio le lezioni del passato, senza tradire il futuro; la memoria, la coscienza di sé e l’identità si costruiscono in ciascuno con riferimento a ciò che lo circonda, che lo si voglia chiamare paesaggio territorio o spazio. Il ricordare è essenziale nell’identità del sé, la nostalgia, dunque, non inerisce al luogo, ma all’individuo e svanisce al suo svanire:

Les lieux que nous avons connus n’appartiennent pas qu’au monde de l’espace où nous les situons pour plus de facilité. Ils n’étaient qu’une mince tranche au milieu d’impressions contiguës qui formaient notre vie d’alors; le souvenir d’une certaine image n’est que le regret d’un certain instant; et les maisons, les routes, les avenues, sont fugitives, hélas! comme les années. (Marcel Proust a conclusione di Du côté de chez Swann)

Allora qual era la diversità tra i miei ricordi su Milano e quelli di Schiaffonati o di Oliva? Non certo il ruolo del popolo, della plebe o della società civile né credo l’identità di una città. I nostri discorsi riguardano il progettare e il pianificare e ora nel riprendere il filo del discorso aperto dai tre saggi autobiografici mi accorgo che le differenze di sensibilità, ora verso l’architettura ora verso l’urbanistica, marcano sostanzialmente il tema del progetto urbano, possibile strumento di adeguamento della città alle necessità future, un argomento che a sua volta apre l’orizzonte su molti altri fronti, proprio perché alcuni lo interpretano come sostituto del piano, altri come cerniera tra l’urbanistica e l’architettura, altri ancora come nuovo nome dei piani particolareggiati e dei piani di lottizzazione, ove differenze, ruoli e importanze stanno ben oltre la forma del progetto quanto nella capacità di governo e di gestione e nelle sequenze temporali, a cascata o in parallelo.

La sostanza didattica di quei discorsi stava, però, nella sensibilità; in quell’imparare dal passato per non tradire il futuro si incentravano quelle lezioni sull’essenza del progettare e del pianificare. Era questo che ritrovavo in Schiaffonati e in Oliva quando parlavano del vissuto professionale e della città. Il loro senso dei luoghi scaturisce dall’attività intellettuale di progettisti e pianificatori; segnalano per fare chiarezza esempi più o meno virtuosi; mostrano come progettando insieme e attraverso continui rinnovi e riusi sia possibile trasformare il paesaggio urbano per dare dignità all’abitare. Similmente Piccinato coglie la molteplicità dei paesaggi, nel passare dalle lezioni sul paesaggio agrario al paesaggio storico della città europea, dal paesaggio metropolitano all’urbanesimo diffuso delle città-regione, con l’intento di riprendere il discorso dell’avvenire delle città europee. Portoghesi a sua volta, dopo averci sprofondato nel vertiginoso processo geomorfologico e teorizzando un’architettura partecipe a pieno titolo in queste dinamiche, ci accarezza con i profumi della cucina romana, con le sfumature del romanesco nelle poesie, ma anche dei colori e delle forme dell’architettura, unendo l’esperienza individuale con quella disciplinare. Sento le sue parole come una risposta ai miei interrogativi e anche come suggerimento di un percorso delicato e innovatore, audace e rispettoso. Adatto per l’urbanistica.

Federico Oliva a proposito di Milano scriveva dell’impari duello milanese negli anni Ottanta tra piano e progetto, con una pubblica amministrazione nolente a governare convinta che le trasformazioni urbane andassero affrontate con suggestioni e con progetti, invaghiti dall’esempio della Parigi, spesso solo un’evocazione dei risultati che ignorava caratteristiche e processi di quella pubblica amministrazione (L’urbanistica di Milano, cit.). Ricorda Oliva come il Prg, faticosamente approvato nel 1980, fosse prontamente sostituito dal Documento Direttore del progetto passante e dai Progetti d’area, invenzioni che avrebbero dovuto costituire il nuovo quadro urbanistico e programmatico milanese. Della fattibilità poco importava. Oliva ricorda ancora che Andrea Balzani, uno dei principali estensori di quel Prg 1980, commentava la questione delle aree dismesse come una deregulation lasciata a metà

non per un sussulto di autoritarismo, ma perché anche la ‘deregulation’ richiede un'interlocuzione pubblica autorevole nei confronti delle iniziative degli operatori. (L’urbanistica di Milano, cit., p. 259, corsivo aggiunto)

La carenza di autorevolezza pubblica, come molti altri temi attuali, erano più che evidenti già in quelle vicende del passante ferroviario milanese, quando il rapporto tra piano e progetto urbano era ormai stato posto con chiarezza anche attraverso numerosi contributi non solo in libri – v. tra gli altri: Alberico Belgiojoso, Luca P. Marescotti (a cura di), Il passante ferroviario e la trasformazione di Milano (Clup, 1985) – ma anche in quotidiani e riviste specializzate, a partire da Casabella, una per tutti, di cui Chiara Baglione nel tracciarne una sintesi ricorda:

La centralità delle questioni del disegno urbano e del rapporto tra piano e progetto è dimostrata, d’altra parte, dalla frequenza con cui, sulle pagine della rivista, appaiono servizi su casi specifici -quali Francoforte 481, Barcellona 483, 501, Berlino 487-488, 506, 595, Reims 491, Lérida 514, Amburgo 564, Potsdam 591, Vienna 594, Bilbao 622, per citarne solo alcuni- strutturati spesso come inchieste, in cui la parola, oltre che agli architetti, è data agli amministratori e ai tecnici comunali (Chiara Baglione, Casabella: 1928-2008, Electaarchitettura, Milano 2008, p. 515, corsivo aggiunto)

Il passante ferroviario era allora al centro del dibattito milanese: se il sistema ferroviario milanese, un tempo all’avanguardia e supporto essenziale per le industrie, si mostrava sofferente per il materiale rotabile, per gli impianti fissi e per un servizio che mischiava pendolarismo studentesco e operaio con la lunga percorrenza, d’altro canto in esso si iniziava a palesare come l’ammodernamento significasse anche cambiamenti radicali delle infrastrutture e nelle stazioni, spesso già in stato di abbandono, un cambiamento che avrebbe potuto riverberarsi in tutta la città. Il passante pareva la panacea a tutte le difficoltà, ma poi occorsero decenni e soldi non programmati per realizzarlo, a cui sarebbe seguito seppur lentamente l’ammodernamento dei servizi e delle stazioni. Occorsero decenni anche per convincere a trovare un accordo la moltitudine di attori trasformando quel degrado in una immensa potenzialità fondiaria, una risorsa peraltro sparsa per tutta Italia. Nel 2005 a Milano iniziava, o riprendeva, quel percorso non semplice che avrebbe portato nel 2017 alla sottoscrizione di un accordo tra Amministrazione Comunale di Milano, Regione Lombardia, Ferrovie dello Stato, FS Sistemi Urbani e Rete Ferroviaria Italiana sul riuso degli scali ferroviari con lo slogan ‘reinvenzione dei luoghi’. Le parole cambiano, riuso riqualificazione rinnovo rigenerazione reinvenzione, ma la sostanza è che l’urbanistica resta sempre subalterna a contingenze, i suoi obiettivi a lungo termine non possono essere ‘resilienti’ ai rischi di bolle speculative, pandemie e guerre e quindi il fattore tempo significa anche la capacità di cogliere le opportunità nei tempi giusti. In fondo, all’obiettivo principale di un’idea di città e di regione maturata attraverso le funzioni che serviranno all’emancipazione della popolazione, delle imprese e della pubblica amministrazione, dovrebbe collegarsi una programmazione realistica delle risorse necessarie per gestire simili azioni di lunga durata. Schiaffonati, nel percorrere il Municipio 4, accenna allo scalo di Porta Romana:

Se così letto il luogo, può disturbare la vista dell’edificio di Rem Koohlaas che nella sua decontestualizzazione morfologica e tipologica è prodromo di una diversa misura dell’ambiente e dell’architettura, del tutto opposta alla delicatezza amorevole del progetto come atto generativo e fondativo nella tradizione dei luoghi. [Paesaggi italiani, p. 107]

L’interrogativo di fondo sulla “misura dell’ambiente e dell’architettura” gioca per l’appunto su quelle scelte funzionali e sui ruoli dell’amministrazione e degli imprenditori; sarà, dunque, questo contesto discusso soprattutto con concretezza nelle possibili, in quanto sostenibili, dimensioni economiche, sociali e ambientali a determinare tempi e modalità di riuso degli scali ferroviari.

Incentrato su questi temi è il numero monografico di indubbio interesse di EWT/EcoWebTown Journal of Sustainable Design nel 2019; introdotto dall’editoriale di Alberto Clementi, raccoglie accanto a Milano Roma Torino i casi di Pescara e di Lubiana e si impreziosisce per la pluralità di voci, per il ruolo degli autori, per la qualità dei saggi e per l’aggiornamento (Alberto Clementi, Prove di progetto urbano. Dossier: il Cantiere Milano. Esperienze Parallele. Progetto urbano e aree ferroviarie; Tre questioni: interviste a: Paolo Desideri, Franco Purini, Mosè Ricci, Nicola Russi. EWT/EcoWebTown Journal of Sustainable Design, n. 20, 31 dicembre 2019).

Innanzitutto, offre una lettura integrata delle vicende urbanistiche milanesi che aggiungendosi a quella di Oliva permette di coprire un lungo periodo di grande importanza, dove la continuità dello sviluppo che per decenni sembrava dominare il mondo è stata spesso interrotta dalle turbolenze di eventi esterni e di mutamenti politici, obbligando a modificare radicalmente le prospettive. Inoltre, offre diversi punti di vista, selezionati tra gli attori importanti e le università: Carlo De Vito, presidente FS Sistemi Urbani, Gaetano Fontana, già capo dipartimento del MIT Ministero delle infrastrutture e trasporti, Domenico Potenza, Francesco Infussi, Laura Montedoro, Gabriele Pasqui, Emilio Battisti e Nina Bassoli, permettendo così di ricostruire approfonditamente il difficoltoso percorso del riuso degli scali ferroviari in parallelo all’evolversi dei piani urbanistici e delle amministrazioni milanesi. È solo a partire da questi confronti che bisognerà rileggere l’editoriale di Alberto Clementi “Prove di progetto urbano”.

Domenico Potenza ripercorre alcuni dei passaggi salienti del faticoso Accordo di programma (giugno 2017) chiosando come nei dodici anni (2005-2017) del processo decisionale si fosse riusciti sempre a mantenere la volontà di trovare soluzioni condivise, nonostante una successione di orientamenti politici e urbanistici del tutto eterogenei. In realtà non fu un percorso né lineare né semplice ma fatto di schermaglie e scontri, difficile non tenerne realisticamente conto. Per comprenderne l’entità delle tensioni basterà ricordare le profonde divergenze sulla pianificazione emblematicamente riassunte da quanto sostenne l’assessore allo Sviluppo del Territorio Carlo Masseroli nel 2010 all’approvazione del piano, sindaco Letizia Moratti: “Il Pgt che abbiamo approvato oggi è una riforma liberale” e, solo un anno dopo, dalla scelta della successiva giunta, sindaco Giuliano Pisapia, di revocare quell’approvazione per avviare un nuovo processo, definito da Campos Venuti come riformista e che avrebbe portato alla nuova approvazione nel 2019.

Destra e sinistra non paiono categorie obsolete.

Nelle conclusioni Potenza affida al progetto urbano l’onere di trovare un giusto compromesso tra “utilità collettiva e interessi di mercato”, un compito che già allora si prospettava difficile e che ora le imprevedibili congiunture globali, certo nessuna favorevole, nonostante la ricchezza crescente di Milano potrebbero aggravare:

In un contesto di crescente domanda di spazi aperti, di verde e di servizi pubblici, ma anche di luoghi della socialità, di residenze per tutti i ceti sociali, di nuovi luoghi del lavoro, gli scali rappresentano un patrimonio fondamentale per una politica urbanistica ecologica, capace di rispondere a diverse questioni emergenti nella città” [p. 9] (…) “Questo comporta un impegno di spesa complessiva che non è necessariamente remunerato dal solo valore fondiario delle aree edificabili, a meno di meccanismi di perequazione che ne aumentino l’appetibilità. Credo vada ricercato in questa direzione l’equilibrio tra l’utilità collettiva e gli interessi di mercato; ovvero nella capacità del progetto urbano di generare, all’interno delle proposte di trasformazione, i meccanismi di moltiplicazione dell’appetibilità, così come sono stati coraggiosamente proiettati negli scenari realizzati dai Team di architetti internazionali chiamati, nella prima fase, a dare sostanza alle speranze collettive dei residenti. [p. 14]

Infussi, Montedoro e Pasqui, dopo aver ricostruito il faticoso percorso, dedicano un paragrafo alla questione “Quali sono i requisiti di un progetto urbano per gli scali” [pp. 36-39]; al suo interno tra interrogativi e dubbi si cerca di indicare una possibile strada in un Master Plan capace di “selezionare elementi strategici (…) elementi non negoziabili (...) [in] un dispositivo capace di orientare un processo di costruzione che si preciserà nel tempo.” [p. 40], per trovare risposte positive ai fabbisogni della città:

Allo stesso modo è molto importante la realizzazione di infrastrutture per superare cesure urbane storiche, vere e proprie barriere tra parti di città; l’offerta di opportunità relative al tempo libero e alla frequentazione di spazi collettivi, civili e rappresentativi, ma anche di spazi per le nuove economie e il soddisfacimento di domande pregresse da tempo in attesa, come quelle di affordable housing e di occasioni di lavoro. La trasformazione degli scali dovrebbe restituire nuovi paesaggi e luoghi urbani capaci di accogliere la vita e di istituire relazioni significanti con i contesti. [p. 41]

I saggi di Emilio Battisti e di Nina Bassoli mettono in discussione il concorso e i relativi progetti facendone emergere il valore essenzialmente comunicativo. Battisti, in particolare, inizia ricordando il passaggio dallidea di Gabriele Albertini con Giorgio Goggi assessore che nel 2005 prevedeva che tutti i proventi derivanti dal recupero degli scali fossero utilizzati per migliorare il sistema di trasporto ferroviario milanese e regionale realizzando in particolare il secondo passante” – all’idea di Letizia Moratti che solo due anni dopo riduceva l’interesse verso l’acquisto di nuovi convogli, in qualche modo preludendo al futuro slogan della “città dei quindici minuti”. Prevale come sempre la centralità milanese ribadita poi dalla provocatoria definizione di città-stato, la città ‘pigliatutto’, come la chiama Gaetano Fontana. Le criticità del processo di rigenerazione o reinvenzione stanno in questi e altri tormentati passaggi che segnano le mutazioni del binomio valorizzazione/qualità. Bassoli ricorda la mostra della XVII triennale di Milano (1985) Le Città Immaginate. Un Viaggio in Italia. Nove Progetti per Nove Città con il progetto di Giorgio Grassi di allora per lo Scalo Farini per sottolineare un processo senza fine e così conclude:

Nel valutare la natura dell'area, il valore del sistema degli scali per una città come Milano e infine le discussioni che ci sono state intorno ad essi – l'altissimo livello dei mezzi di marketing e di comunicazione, il basso livello del dibattito culturale e infine l'assenza del confronto tra posizioni progettuali diverse – sorgono diversi dubbi circa la natura procedurale di operazioni come quella in esame, dove l'assunzione del concorso come strumento sembrerebbe essere volta a costruire consenso più che confronto. [p. 122]

L’ambiguità delle modalità viene sottolineata dalla redazione di EWT che sceglie di affiancare dopo i casi di Roma e Torino anche quello di Pescara per segnalare il rischio di estendere il processo di valorizzazione in tutta Italia senza saper discernere le differenze urbane, le diverse esigenze sociali e le diverse potenzialità, confermando le perplessità che anche Maurizio Marcelloni aveva espresso su Roma qualche anno prima in un altro libro non da trascurare sul progetto urbano. Marcelloni – nel suo ‘Qualche riflessione sui progetti urbani a Roma’, in Laura Valeria Ferretti (a cura di), L’architettura del progetto urbano (Franco Angeli, 2012), pp. 213–24 – notava che la definizione del progetto urbano è elemento necessario per gli architetti urbanisti e per i giuristi sia verso le sue implicazioni procedurali, sia per i contenuti:

Se gli architetti-urbanisti debbono farsi carico della necessità di una credibilità giuridica delle loro proposte innovative, è altrettanto vero che i giuristi debbono farsi carico di una necessità non eludibile e contribuire a risolverla. Nel caso specifico del progetto urbano siamo poi nel cuore del problema, dal momento che la sua dichiarata ambiguità concettuale ben si presta a una pericolosa ambiguità formale. (Ivi, p. 214)

L’ambiguità degli usi del termine “progetto urbano”, invece, come nota con sarcasmo Marcelloni, non dipende dall’essere una categoria indefinibile filosoficamente come argomentava Sant’Agostino a proposito del ‘tempo’, ma piuttosto la deve attribuire a un certo stato di ‘idee confuse’, come una volta ebbe a dire Benedetto Croce a proposito di chi “non sa esprimere quel che pensa” o, forse si potrebbe dire, di chi volutamente si mantiene vago e oscuro per non esplicitare quel che pensa: una strategia perversa e assai frequentata, come ricordava Norberto Bobbio – nel suo “La democrazia e il potere invisibile” in: Bobbio Norberto, Il futuro della democrazia. Una difesa delle regole del gioco, Einaudi, Torino 1984 (1978-1983), pp.74-124 – molti anni fa, troppi, quando ipotizzava che i tempi lunghi servissero proprio a infrangere le regole del gioco democratico. Marcelloni prosegue spiegando come le innovazioni procedurali del piano di Roma introducessero chiare definizioni e come la chiarezza fosse a supporto dei contenuti multifunzionali del policentrismo urbano e metropolitano, parole che nel piano hanno un significato ben definito, essenziale, e che in questo si sostanziavano quelle peculiarità urbanistiche romane.

Il numero monografico di EWT si arricchisce con un articolo su Lubiana e con interviste a Paolo Desideri, Franco Purini, Mosè Ricci, Nicola Russi e, infine, aggiunge tre sezioni, una dedicata alla rigenerazione dell’area ferroviaria di Rogoredo, un’altra ai rapporti degli artisti con le città e la terza alla didattica, che è ricerca, su questi temi.

Solo a questo punto è d’obbligo ritornare all’introduzione di Alberto Clementi, che spiega l’approccio usato di EWT in sette prerequisiti degli scali ferroviari:

1) gli scali ferroviari devono “mettere in gioco le relazioni delle stazioni con le città al loro intorno, (…) [riducendo] la distanza prima incolmabile tra le attese speculative degli investitori e le resistenze provenienti dalla popolazione locale, protesa verso il miglioramento del proprio quadro abitativo anche indipendentemente dall’intervento sullo spazio infrastrutturale”;
2) “Il progetto urbano, con i suoi tempi inevitabilmente lunghi (…) non può che essere processuale”;
3) Il progetto urbano “(…) si declina contemporaneamente a diverse scale di relazioni con l’urbano”;
4) “La sua messa a punto progressiva deve passare attraverso una fase di sperimentazione preliminare delle potenzialità trasformative di un dato contesto”;
5) “È piuttosto l’espressione di una convergenza multilivello di attori e popolazioni che vengono coinvolti responsabilmente in forma dialogica e negoziale, ricorrendo a strumenti pattizi”;
6) “Data la varietà di attori e interessi (…) va innovata la modalità di costruzione e di governo del progetto urbano, nella prospettiva di una nuova amministrazione per progetti”;
7) “Nel regime di corruzione diffusa (…) occorre in particolare bonificare i canali impropri che favoriscono eccessivamente il ricorso a micro interventi, (...) deve essere assolutamente migliorata la trasparenza e la correttezza degli atti amministrativi che sostanziano la procedura del progetto urbano”. Per concludere, dopo aver affermato che “le sue forme [del progetto urbano], i suoi contenuti, le sue dimensioni e lo stesso grado di complessità praticabile cambiano radicalmente in relazione alle condizioni peculiari del contesto” ribadisce la necessità di costruire il consenso attraverso una partecipazione attiva, attore necessario per inventare un “nuovo progetto urbano” [pp. 1-7]. Dunque, al centro della governance non pare esserci più la pubblica amministrazione e la sua autorevolezza, ma viene posta la società civile che dalla funzione di controllo passa a quella della definizione dei contenuti.

Da quanto esposto emerge quell’idea di partecipazione attiva, assai diversa dai movimenti di base che mezzo secolo fa contestavano politicamente le scelte di un’amministrazione sentendosi parte di una lotta democratica di critica al sistema, dove il potere era visto sempre e comunque come controparte. Ora la partecipazione, che cerca di nascondere una sua natura in qualche modo elitaria, si presenta invece in veste di supporto più che attivo di una pubblica amministrazione che ascolta molto e che, forse, è troppo avara di proposte. L’effetto finale delle trasformazioni degli scali ferroviari si muove tra chi riproporrebbe la logica dei piani urbanistici convenzionali capaci solo di massimizzare l’offerta di edificabilità e l’ambizione massimalista di chi vuole tutto e subito ma è privo di adeguate risorse obbligando la governance in un percorso pieno di difficoltà e pertanto lentissimo. In primo luogo, non è solo un problema di congiuntura, senz’altro un aspetto estremamente rilevante, ma di progettualità differenziate e personalizzate sulle necessità locali nelle loro complesse relazioni di sistemi urbani regionali e nazionali e anche di autorevolezza costruita nel tempo. Ancora una volta il rapporto tra urbanistica, progetto urbano e architettura si evolve intraprendendo strade che paiono sempre nuove. In secondo luogo, la complessità milanese richiede una lettura approfondita non solo di tutto il processo decisionale con i diversi attori ma anche del mutamento dal Pgt 2010 al Pgt 2019, senza scordare le condizioni economiche generali. In terzo luogo, per ultimo ma di primaria importanza, il discorso sulla “crescente domanda di spazi aperti, di verde e di servizi pubblici” e “sulle speranze collettive” non riguarda solo i residenti vicino alle zone interessate vista l’ampiezza dell’offerta e la dimensione economica complessiva: ancora una volta il discorso coinvolge la visione strategica con cui si vuole agganciare la regione urbana al suo capoluogo. L’occasione non può essere sprecata, ma senza dubbio non è solo una questione d’architettura.

Così ragionando, ritornavo a quel giudizio avventato di Merlo: Bohigas con il suo mare di Barcellona offriva altri spunti, che si intrecciavano con Madrid e con Campos Venuti e Leira e che sostenevano un fecondo rapporto tra urbanistica, architettura e progetto urbano, una cerniera che, se usata correttamente, può accelerare i tempi senza tradire gli obiettivi. Con questi pensieri la mia ricerca si imbatteva in un libro di una decina di anni fa Il progetto urbano nella città contemporanea L’esperienza di Salerno nel panorama europeo, con una nota introduttiva di Oriol Bohigas (Clean, 2011) di Maurizio Russo, rielaborazione e ampliamento della tesi discussa già nel 2008 per il ‘Dottorato in Architettura’ presso l’Università di Ginevra sotto la direzione scientifica di Cyrille Simonnet e con una commissione (giuria) composta da Jacques Blumer, André Corboz, Giuseppe Campos Venuti, Paolo Amaldi.

I nomi coinvolti, il tema del progetto urbano, la dimensione europea e l'abbinamento con la politica erano motivi più che sufficienti per approfondirne la conoscenza anche in considerazione che non mi pareva fosse mai stato oggetto di riflessioni approfondite, a parte qualche presentazione pubblica. A proposito di Salerno sono stati pubblicati molti articoli, attirati dalle grandi firme di alcuni progetti e dalla consulenza di Oriol Bohigas, cui di solito spettava un elogio di poche righe, uno spazio troppo ridotto per far comprendere la forma originale di approccio al piano urbanistico di Barcellona. Lo stesso dossier dell’Associazione Nazionale Ingegneri Architetti Italiani Aniai Campania – a cura di Ferdinando Coccia, “Salerno Contemporanea. Numero speciale Dossier Salerno”, Rassegna ANIAI. Pubblicazione trimestrale dell’Aniai Campania, XXXVI, n. 2/3 (2015) – resta incentrato essenzialmente sull’architettura, né gli interventi di Vincenzo De Luca e di Vincenzo Napoli paiono molto interessati a svilupparne il discorso: impostazioni molto diverse, dunque, da Russo.

Già all’inizio nello sfogliarlo mi evocava il confronto tra Campos Venuti Leira e Bohigas, in cui si ribadiva quasi come una necessità senza contraddizioni l’integrazione tra pianificazione e progettazione, tenendo assieme obiettivi, strategie, scelte operative, idea di piano e soluzioni ai fabbisogni sociali, nella consapevolezza di dover mettere in discussione tutto assieme nell’avanzare dei lavori gli ambiti di intervento, le priorità e la coerenza politica nel tempo. L’avventura salernitana di Bohigas inizia nel 1991, si consolida con l’incarico che il sindaco Vincenzo Giordano stipula con Mbm Arquitectes nel 1993 e proseguirà fino al 2005. Nella nota introduttiva scritta appositamente per l’occasione Bohigas spiega che le condizioni imprescindibili per il suo lavoro consistevano nel definire gli ambiti di attuazione con una dimensione sufficiente per arrivare a progettazioni precise e a soluzioni fattibili attuabili in tempi ragionevoli, aggiungendo che, di conseguenza, la città “deve essere analizzata per parti formalmente e socialmente determinate con una certa autonomia secondo un processo intellegibile che consenta la partecipazione degli utenti al momento opportuno” [p. 7]. Sono parole dalla valenza generale in cui si rispecchia lo stesso impegno di Russo, che osserva esempi e desumere ipotesi operative, incastonando nell’orizzonte europeo i riferimenti agli interventi salernitani, puntuali e documentati; lo sguardo teorico, da osservatore imparziale, li toglie da una scomoda posizione di rilievo guidando per riflettere sui termini generali: il metodo è efficace e ne fa il suo vero punto di forza.

I due termini della questione sono da una parte l’esigenza di una visione strategica che orienti “Il progetto urbano nella città contemporanea”, dall’altra l’individuazione e esecuzione di progetti architettonici a scala urbana “I progetti urbani nella città contemporanea”. L’attenzione di Russo si concentra su questi temi annotando come la somiglianza dei titoli è voluta per riflettere programmaticamente la polisemia di ‘disegno’ che contiene ‘il disegno come programma, piano o strategia’ e il ‘disegno come strumento di rappresentazione o di progetto’. Il primo significato di disegno, che si può manifestare variamente nella governance, richiede comunque autorevolezza del settore pubblico con un rappresentante politico garante dell’intero processo, che possa generare in breve tempo azioni e misure che a loro volta rafforzeranno la fiducia e quindi l’autorevolezza; il principio guida sta nella separazione delle strategie dalle regole. Il secondo è introdotto dall’innesto del concetto di paesaggio nella pianificazione delle città per mostrare le caratteristiche di una progettazione che rispecchi la complessità delle città, citando una frase di Manuel de Solà-Morales (Lotus, 1989): “Figlio della complessità e della sovrapposizione (…) il ‘progetto urbano’ nasce e si configura come il momento più adeguato, ricco, variato e capace per la progettazione della città moderna”, in altre parole di superamento della rigidità dell’azzonamento – la citazione è tratta da: Solà-Morales, Manuel de. 1990. “Un’altra tradizione moderna. Dalla rottura dell’anno trenta al progetto urbano moderno. Another Modern Tradition. From the Break of 1930 to the Modern Urban Project.” Lotus International, anno 1989/4, n. 64, pp. 6-31 –. Le due parti affrontano e confrontano casi-studio diversi offrendo l’evidenza di valori generali che vanno oltre le singole caratteristiche e che costruiscono uno schema teorico generalizzabile.

Per quanto riguarda l’urbanistica salernitana Bohigas dopo aver affermato di non essere mai stato “disposto a accettare l’incarico se non fosse stato cambiato radicalmente il sistema” – citazione da Oriol Bohigas, Contro l’incontinenza urbana. Riconsiderazione morale sull’architettura e la città (Gangemi, 2008), p. 115 – si concentra su sei obiettivi strategici: la distinzione del tessuto urbano in compatto e diffuso; città del turismo e del commercio; un sistema integrato pubblico e privato della mobilità; l’equità urbanistica e la perequazione; la crescita demografica; lo sviluppo delle tecnologie per la cultura e della sostenibilità. Nelle prime righe della premessa alla bozza del Prg ribadisce che il processo “analisi-obiettivi-progettazione-pianificazione” non deve né può essere un processo gerarchico e lineare, ma uno sviluppo attraverso un raffronto iterativo tra tutte le fasi, che nel tempo si influenzano e si modificano imponendo approfondimenti e confronti con gli attori coinvolti e con la popolazione (Comune di Salerno et al., ‘Piano Regolatore Generale. Bozza dicembre 2002. Progetto-Sintesi. Relazione descrittiva’, Comune di Salerno, 2002, p. 1).

La redazione del Prg viene affiancata dai ‘progetti urbani’. Nel Documento Programmatico approvato nel 1995 compare il primo atto di riconoscimento ufficiale dello ‘progetto urbano’ strumento del piano tramite l’invenzione delle AAPU Aree di Attuazione Puntuale Urbanistica per riqualificare una città e Bohigas fornisce una spiegazione dell’acronimo più appropriata sarebbe Aeree di attuazione di Progetto Urbano. Nella Bozza del 2002 sono elencate le sette AAPU iniziali assieme alle quattro aggiunte per “la necessità di affrontare, con la dovuta consapevolezza, problemi urbanistici di particolare urgenza e rilevanza”: (1) Centro Storico sud; (2) Centro Storico nord; (3) Santa Teresa e Villa Comunale; (4) Lungomare Trieste; (5) Piazza della Concordia; (6) Litoranea Orientale; (7) Lungo Irno; (8) Frazioni alte; (9-10) Quartieri Italia-Europa e Mariconda; (11) Lungomare Colombo (Comune di Salerno et al., ‘Piano Regolatore Generale 2003. R1 Relazione illustrativa’, Comune di Salerno, 2003, par. 3.4, pp. 18-19 e tavola I2 Sintesi del Piano.

Il libro di Russo rispecchia questo processo: per quanto le argomentazioni siano rigorosamente ripartite tra le due parti, quella sul livello strategico e quella sulla progettazione, richiedono un continuo scambio per tenere uniti i fattori che influenzano gli sviluppi urbani: dal contesto dei cambiamenti socio economici globali alle caratteristiche urbane europee, dalle politiche delle Strategie di Lisbona allo sviluppo teorico e metodologico della disciplina e alle numerose applicazioni concrete. Per ogni argomento Russo mette a disposizione un ricco apparato di riferimenti e di citazioni distribuito in oltre seicentosettanta note a commento dei casi studio: Helsinki Zurigo, Barcellona, Curitiba, Sesto San Giovanni, Bilbao, Londra, Lione, Montreal, Parigi, Reggio Emilia con il suo piano strutturale, alcuni con ampi approfondimenti, altri con brevi cenni, mai fuori luogo. Il confronto tra ipotesi teoriche, politiche e situazioni reali offre ancora allo studente e allo studioso uno strumento utile e aperto, dopo dieci anni dalla pubblicazione. Russo focalizza l’attenzione sulla combinazione dei tre processi costruzione delle strategie - formazione dei piani a breve termine - invenzione dei progetti urbani: sono a tutte gli effetti le condizioni necessarie per conseguire con successo gli obiettivi e i contenuti che dovrebbe avere la riforma legislativa, segnando anche la sua adesione politica sostanziale a un modo alternativo di concepire il governo urbano, che, in altra occasione ma sempre nel 2003, Bohigas sintetizzava efficacemente:

Yo por esto pienso que la arquitectura lo que tiene hacer es obedecer a dos principios básicos, uno que sus contenidos sean de serviciales respecto a la realidad de la vida y de la sociedad, y que, por otro lado, se aclimate bien al entorno físico en donde se sitúa Quero decir que una arquitectura en la ciudad debe responder muy claramente, muy directamente a la estructura de esta ciudad y con una arquitectura en el paisaje debe ser respetuoso con la estructura propia, autónoma y característica de ese mismo paisaje. A esto hay que añadir todavía otro factor importante que una ciudad non puede ser un elemento monótono y repetitivo, porque por esto decidimos encargar a treinta arquitectos las distintas casas que constituyen este barrio con lo cual el barrio tiene esta continuidad no homogénea y no monótona que tiene la arquitectura tradicional de la ciudad. (Blas, Juan M. Martín de, Elogio de La Luz. Oriol Bohigas, Pasión Por La Ciudad, TVE, 2003, trascrizione, tempo 16’:00”-17’:10”).

Aggiungerei solo una supposizione a margine, credo non infondata, a proposito del concorso “Edifici Mondo” e cioè che la sua mancata attuazione non sia dovuta alla mancanza di risorse economiche, quanto all’assenza di idee sull’uso. La stessa lettura della Relazione Generale pare sostenere questa ipotesi; già nella bozza del 2002 fino alla versione definitiva del Puc 2005, nelle due pagine magistrali intitolate “Scelta politica. Esigenza sociale e culturale. Sostenibilità” e firmate in calce da Oriol Bohigas: un monito alla politica salernitana, un’epigrafe conclusiva di un incarico in cui aveva sinceramente creduto, dove la sfiducia verso l’urbanistica ha origine dalle sue applicazioni convenzionali e, direi, dalle maschere dell’ipocrisia, che un tempo era quella dei piani “tenuti nel cassetto”, elaborati e mai approvati:

Un PUC serve a molto poco - o è addirittura uno strumento pernicioso - se non è seguito da una buona gestione e da una capacità politica di iniziativa e di controllo. Le città possono essere fatte e dirette solo dai politici nella loro qualità di rappresentanti della volontà popolare. Questa volontà va, però, esercitata in termini radicalmente decisionali, con criteri saldi (...). [deve] mantenere una struttura tecnica relativamente autonoma (...); il controllo politico è fondamentale (…); il mantenimento di una disciplina urbanistica radicale. Una città non deve essere solamente un buon contenitore, deve essere, innanzi tutto, un ottimo contenuto. La città è la gente che la abita e la utilizza. (Comune di Salerno et al., ‘Piano Regolatore Generale 2005. R1 Relazione Illustrativa. Relazione adeguata alle osservazioni accolte’, p. 61.)

Prosegue indicando che le finalità del piano non possono dimenticare né la promozione delle attività verso l’esterno e soprattutto verso le risorse interne, né la sostenibilità:

non soltanto in termini energetici, ma anche rispetto alla esigenza che ogni trasformazione urbana proposta possa essere realizzata senza perdere il suo carattere radicale, ma senza ridurre l'importanza dei caratteri e degli elementi fisici e spirituali della Salerno storica. La sostenibilità, intesa in questi termini, postula i seguenti obiettivi: istituzione di una linea di frontiera tra la città consolidata e la città diffusa evitando così un maggior consumo di territorio vergine; il mantenimento della zona collinare con le sue attuali caratteristiche paesaggistiche, senza maggior urbanizzazione, frenandone il progressivo degrado; lo sforzo di riciclaggio che consiste nell'utilizzo di settori urbani obsoleti per impiantare la crescita della città; il recupero delle spiagge e dell'insieme della zona marittima. (Ivi, p. 62)

Queste sono le ragioni del libro, una testimonianza in sintonia con Bohigas. Nelle conclusioni Russo cerca di distillare alcuni principi che forse potrei ascrivere alla dimensione etica e che lui definisce “doveri”: il dovere di conoscenza, il dovere ecologico, il dovere della complessità; il dovere della partecipazione e della governance; il dovere della coesione, della bellezza e della competitività; il dovere della buona amministrazione. Qui l’elenco dei doveri si ferma, e qui sta il luogo della politica dove questi doveri dovranno essere declinati e misurati a seconda del tipo di risposta che viene data alle istanze sociali, ma il testo prosegue inducendo nel lettore altri ragionamenti. Un primo ragionamento riguarda la lentezza di tutto l’iter amministrativo: dopo l’incarico segue un decennio con l’avvio parziale delle Aapu assieme agli approfondimenti analitico-propositivi e si giunge alla prima formalizzazione del Prg (2002-2003); a livello regionale si approva la Legge Regionale 16/2004 “Norme sul governo del territorio”: il Prg diviene Puc, Piano Urbanistico Comunale, in cui si introducono ‘opportuni’ adeguamenti; seguono altri quattro anni comprendenti osservazioni adozione del Puc adeguato nel novembre 2006, e relativa approvazione nel gennaio 2007 (vigente dall’agosto).

Un secondo ragionamento riguarda lo stato delle attuazioni. Rispetto alle idee originali di undici Aapu al 2011 solo quattro erano quasi completate e una appena avviata; nella variante si inseriscono, però, settantasei “comparti” che riprendono la logica dei vecchi piani urbanistici con indimostrabili previsioni; nonostante una realtà di contrazione della popolazione (la popolazione del comune scende da 138.000 unità nel 2001 a 129.000 nel 2020), il Puc mantiene l’obiettivo di 180.000 abitanti consentendo l’edificabilità di quasi due milioni di mq di superficie lorda (1.143.115 mq di residenziale e 771.641 mq di attività terziarie, produttive, turistico-ricettive e servizi). Non solo l’abbondanza della diffusione dei comparti impedisce il controllo, ma i servizi sono lasciati nell’incertezza dell’intervento pubblico e sono reintrodotte zone di edilizia pubblica esterne. Di fatto, il piano, maturato come rilancio di una città capace di integrare bisogni sociali in nuove strategie tese a guadagnare un ruolo di rilievo tra le città europee, è stato virato verso uno schema liberistico dalla massima previsione delle urbanizzazioni, nel segno della continuità, e della forza, dell’incontinenza urbana. O, come si scriveva altrove a proposito dell’esperienza di Madrid negli anni Ottanta del secolo scorso, una giunta di sinistra ha virato il “suo” piano da sinistra a destra (Teresa Bonilla, “El Plan y sus normas urbanísticas. El largo adiós” in: Sambricio, Ramos (a cura di) 2019, El urbanismo de la transición: el Plan General de Ordenación Urbana de Madrid de 1985, 2 vol, Madrid: Ayuntamiento de Madrid. Área de Gobierno de Desarrollo Urbano Sostenible. vol 1, p. 204). L’argomento quindi di che cosa si intenda per buona urbanistica o per buona amministrazione non sta certo in un limbo tecnico privo di etica e di politica.

Un terzo ragionamento prende atto che dopo la prima consegna del Piano Regolatore Generale (2002-2003) le intenzioni politiche cambiarono: l’assessore all’urbanistica Fausto Martino si dimise, Bohigas chiuse la consulenza nel 2005, il Concorso internazionale di idee sul tema “Difesa, riqualificazione e valorizzazione della costa del Comune di Salerno” fu pubblicato e nel 2007 vinto da Bofill assieme alla C. Lotti & Associati Spa, di cui non resta che prendere atto dell’enorme diversità come contenuto e esiti con l’altro concorso del 1997 “Edifici Mondo”: questo, vinto dallo studio Sanaa assieme a Antonio Monestiroli e Antonio Las Casas, non fu realizzato; quello, indetto dopo aver scartato ben tre studi di Bohigas e nonostante forti contestazioni, fu inaugurato nel 2016. Russo non confronta i progetti di Bohigas con quello di Bofill, ma riporta solo una piccola immagine dell’ultima ipotesi, allegata al bando ma “non vincolante”; occorrerà consultare la tesi di Annarita Teodosio per trovare una descrizione delle proposte di Bohigas che accompagnano il lento formarsi, o deformarsi, delle prospettive edificatorie, e traditrici (cfr. Annarita Teodosio, I luoghi del mare: storia e interventi di recupero dei waterfront. L’esperienza di Salerno nel panorama europeo, Dottorato di Ricerca in Ingegneria delle Strutture e del Recupero Edilizio ed Urbano X Ciclo N.S. 2008-2011, Salerno, Università degli Studi di Salerno, Dipartimento di ingegneria civile, 2012, Unisa. Si rimanda al capitolo “5.3 Aree strategiche lungo il fronte mare: indirizzi e criteri per il recupero” e in particolare alle pp. 146-156 sulle tre ipotesi di Bohigas). Il processo intrapreso da Bohigas è ormai assorbito in nuove e annunciate varianti soffocanti. Non resta che aggiungere che dopo dieci anni il libro di Russo resta un importante riferimento, non tralasciabile, per discutere di progetto urbano inalterato dalle successive trasformazioni del rapporto tra il sindaco e l’urbanista, tra il piano e la città, un rapporto così cambiato da richiamare l’attenzione della Rai e la protesta degli intellettuali campani (v. FuoriRoma 2017/18 - Salerno - 25/03/2018 - Video’, RaiPlay; Aurelio Musi et al., ‘Lettera aperta al segretario del Partito Democratico’, 9 Marzo 2022).

L’intero testo di Russo risente positivamente delle sue origini nella ricerca universitaria, combinando sia aspetti definitori e esplicativi, sia fornendo un ampio corredo di esempi concreti, arricchiti dalle annotazioni, dagli apparati bibliografici e delle referenze fotografiche. Nell’affrontare direttamente la questione della polisemia del progetto urbano, lo inquadra correttamente nella sua essenza originale di strumento progettuale a cerniera tra approcci urbanistici e approcci progettuali, come acceleratore delle trasformazioni, senza dimenticare, forse con qualche riluttanza, la natura politica dei piani urbanistici e l’irrisolta questione della loro valutazione. A pieno titolo si concentra sull’importanza della dimensione teorica.

Tutto quanto avvenne a Salerno negli anni successivi non altera il giudizio sul libro e sulla funzione del progetto urbano. Il testo è ottimo, spiega il processo suggerito da Bohigas e i ruoli che spettano al piano, al progettare urbano e alla progettazione; un testo ideale per gli studenti e gli studiosi di urbanistica e di architettura, senza dimenticare chi si occupa di diritto o di economia urbana e di chi vorrà frequentare un’eventuale scuola per della pubblica amministrazione, che sempre manca, con un’ultima avvertenza: la costruzione della città è un fenomeno corale, la differenza sta nel “direttore”, lasciando a chi di dovere il compito di disvelarne le finalità.

L’intervista in cui Bohigas passeggia sul lungomare di Barcellona è un implicito elogio anche a Pasqual Maragall, il sindaco che aveva creduto nelle sue idee e con cui le aveva attuate:

Pocos arquitectos pueden pasearse por una ciudad sabiendo que parte de su alma moderna es la suya propia, porque él la ha diseñado amándola desde que se inició en el tablero del estudio hasta ver la crecida en un ensanche en un nuevo barrio. Oriol Bohigas camina por este espacio de Barcelona que se asoma al mar; la mirada de este arquitecto intelectual y político se extiende sobre un horizonte de barcos como un sueño que solo ha sido posible mediante una larga lucha por la cultura el racionalismo y la belleza. (Blas, op. cit., trascrizione, tempo 29:14”- 30:11)

 

Conclusioni

La mia conversazione è proseguita passeggiando attraverso l’Europa, soffermandoci a Milano Salerno e Barcellona, visitando la Sapienza, il Politecnico di Milano e lo IUAV; le opere e le argomentazioni hanno illustrato contesti, impianti generali e dettagli; le evidenze delle realizzazioni indicavano ora un’architettura, ora un’urbanistica che sono state, o che avrebbero potuto essere, sapienti. Non sono state trascurate le implicazioni pedagogiche e legislative a fronte di quest’epoca di grandi impulsi e di grandi necessità, mettendo sempre a confronto approcci convenzionali e burocratici e approcci risolutivi dei problemi. Costante è stato l’invito a guardare ai luoghi e alle persone che vi abitano, ad ascoltare i loro sogni, a cercare di offrire a tutti la dignità dell’abitare; le trasformazioni delle città e dei territori offrono opportunità e rischi, lasciando largo spazio all’intuizione e all’invenzione, che non sempre il puro mercato può comprendere: questa capacità di anticipare il futuro richiede di governare dominando il conflitto tra valorizzazione economica, diseguaglianze sociali e sostenibilità ambientale.

Prima di chiudere mi accorgo quanto in questa strana scienza che è l’urbanistica sia curioso l’uso delle parole: è vero che quasi tutte le parole sono polisemiche, ma nell’urbanistica, come spesso accade anche nella politica, mi pare che le stesse parole negli stessi contesti possano assumere significati e sfumature a seconda di chi sta parlando. Tali diversità rendono ambiguo il linguaggio, come se ci fosse un implicito rifiuto a divenire una scienza normale; senz’altro il governare il territorio implica questioni di democrazia e di partecipazione, ma al centro sta però la capacità politica di cogliere nel presente le necessità del futuro. Dal riformismo al progetto urbano, dalla reinvenzione delle città alla coesione sociale, dal tessuto urbano ai piani di ricucitura, le parole chiave sono sempre polisemiche ma sono i contesti ambigui, di certo aiutati delle incoerenze legislative a dare la sensazione di “idee confuse”. A Barcellona il progetto urbano serviva a ridurre i tempi dell’urbanistica, a Milano il progetto urbano dai tempi lunghi, ancor più lunghi dei piani, si configura essenzialmente come strumento di governance, mentre a Salerno assume forme diverse, dall’anticipazione del piano alla sua variante.

Se potessi discuterne con Bohigas, e con tutti i partecipanti a questo conversare, premetterei che lo capisco bene quando si lancia contro il piano urbanistico generale, contro gli azzonamenti monofunzionali, contro il sistema degli archistar; riconoscerei che l’urbanistica, nonostante alcuni esempi eccezionali, soffre di una certa inadeguatezza legislativa, nonostante la spinta a rinnovarsi derivata da esperienze eccezionali; troppo spesso l’urbanistica si è espressa con approcci meramente burocratici privi di impegno politico e di visioni strategiche, solo per soddisfare formalmente le leggi. Ma poi direi anche che fare i piani è necessario nonostante tutto, che bisogna farli ‘in altro modo’; anzi aggiungerei che è urgente che si affronti la teoria sciogliendo le molte riserve mentali, foriere di incomprensioni e divisioni, per affrontare insieme i problemi reali perché questa è la sfida che merita d’essere giocata. Null’altro.

Spero, dunque, che qualcuno si soffermi a meditare su questi libri, non importa se talvolta condividendo pareri, talaltra contestando oppure traendone imprevedibili suggestioni. Sento, però, ricorrere la stessa domanda: ‘Basterebbero, dunque, una buona urbanistica e una buona amministrazione?’ La risposta non tarda: ‘Un conto sono l’efficienza di un’amministrazione e l’efficacia dei suoi strumenti, un conto è valorizzare il patrimonio immobiliare o ridurre diseguaglianze territoriali e degrado ambientale. Fatta questa prima scelta, il resto va di conseguenza, ma ricorda che la maggior difficoltà sarà mantenere nel tempo lungo la coerenza. E l’urbanistica è un’azione di lunga durata.’ Dopo un attimo di silenzio altri chiederanno ‘Come dovremo agire per essere tempestivi?’ Alla fine la risposta è nota: ‘Idee lungimiranti, concretezza e risorse sono inutili se manca l’autorevolezza. Gli accordi devono trovare un equilibrio tra risorse e tempi e solo la volontà politica li può governare, perché gli strumenti non sono altro che strumenti.’

Luca P. Marescotti

 

 

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Teodosio, Annarita. ‘I luoghi del mare. Storia e interventi di recupero dei waterfront. L’esperienza di Salerno nel panorama europeo’. Dottorato di Ricerca in Ingegneria delle Strutture e del Recupero Edilizio ed Urbano X Ciclo N.S. (2008-2011), Università degli Studi di Salerno, Dipartimento di ingegneria civile, 2012.

 


 

N.d.C. – Luca P. Marescotti, già professore associato di Urbanistica del Politecnico di Milano, ha insegnato alla Facoltà di Architettura, alla Scuola di Specializzazione di Restauro dei monumenti e alla Scuola di Specializzazione in Beni architettonici e del Paesaggio. Ha collaborato con università, società industriali, consorzi universitari e pubbliche amministrazioni per consulenze su cartografia e sistemi informativi geografici, trasporti e piani del traffico, beni culturali.

Tra i suoi libri: Urbanistica. Documenti e testimonianze (Accademia, Milano 1979); con A. Belgiojoso (curatori), Il passante ferroviario e la trasformazione di Milano (Clup, 1985); con A. Canevari (curatori), La cartografia per l'urbanistica e l'architettura (Clup, 1985); con A. Bellini e A. Canevari, M.C. Giambruno, M. Mascione (curatori), Territorio, beni culturali, piano. Un esperimento in Lombardia (Alinea, 1995); con V.M. Curti e L. Mussone, Pianificazione dei trasporti e gestione del traffico urbano (Il Rostro, 1999); (curatore), Beni architettonici e ambientali: dalle indagini alla pianificazione urbana e territoriale (Angeli/Provincia di Milano, 1999); con V.M. Curti e L. Mussone, Rotonde. Tecnologie per la progettazione, per la realizzazione e la valutazione delle rotonde (Libreria Clup, 2004); Città tecnologie ambiente, (Maggioli, 2004); Urbanistica. Fondamenti e teoria (Maggioli, 2008).

Pubblicazioni open source: (curatore) Insegnare l'urbanistica come scienza. Conoscenze e tecnologie appropriate per la sostenibilità e la resilienza nell'urbanistica (2016); L'urbanista e il Piccolo Pianeta (2017); Paesaggi (2018); Città globale e menti collettive (2020); Le ragioni e il fascino dell’urbanistica. Omaggio alle lezioni di Giuseppe Campos Venuti al Politecnico di Milano (2021).

Per Città Bene Comune ha scritto: Urbanistica e paesaggio: una visione comune (10 giugno 2019); L'urbanistica innanzitutto (15 ottobre 2021).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 

 


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01 LUGLIO 2022

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Luca Bottini
Oriana Codispoti
Filippo Maria Giordano
Federica Pieri

cittabenecomune@casadellacultura.it

iniziativa sostenuta da:
DASTU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Conferenze & dialoghi

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2021: V. Magnago Lampugnani | G. Nuvolati
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

 

 

Gli incontri

2021: programma/1,2,3,4
2022: programma/1,2,3,4
 
 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori
2019: Alberto Magnaghi

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021: online/pubblicazione
2022:

L. Rossi, La cartografia come spazio di vita, commento a: D. Poli, Rappresentare mondi di vita (Mimesis, 2019)

C. Tedesco, Una cultura urbana che riparta dal vissuto, commento a: C. Cellamare, F. Montillo, Periferia. Abitare Tor Bella Monaca (Donzelli, 2020)

M. Barzi, Indagare i margini, ovunque si trovino, commento a: J. L. Faccini, A. Ranzini, L’ultima Milano (Milano, Fondazione G. Feltrinelli, 2021)

C. Mazzoleni, Riaffermare il ruolo dell'Urbanistica, Commento a: C. Doglio, Il piano aperto, a cura di S. Proli (Elèuthera, 2021)

A. M. Brighenti, Il fascino discreto dell'interstizio urbano, commento a: B. Bonfantini, I. Forino, (a cura di), Urban interstices in Italy (Lettera Ventidue, 2021)

R. Pavia, Il porto come soglia del mondo, commento a: B. Moretti, Beyond the Port City (Jovis, 2020)

S. Sacchi, Lo spazio urbano è necessario, commento a L. Bottini, Lo spazio necessario (Ledizioni, 2020)

D. Calabi, La "costituzione" degli ebrei di Roma, commento a: A. Yaakov Lattes, Una società dentro le mura (Gangemi, 2021)

F. Ventura, Memoria dei luoghi ed estetica dell'Ircocervo, riflessione a partire da: G. Facchetti, C’era una volta a San Siro (Piemme, 2021) e P. Berdini, Lo stadio degli inganni (DeriveApprodi, 2020)

E. Scandurra, Il territorio non è una merce, commento a: M. Ilardi, Le due periferie (DeriveApprodi, 2022)

A. Mela, Periferie: serve una governance coerente, commento a: G. Nuvolati, Alessandra Terenzi (a cura di), Qualità della vita nel quartiere di edilizia popolare a San Siro, Milano (Ledizioni, 2021)

M. A. Crippa, Culto e cultura: una relazione complessa, commento a: T. Montanari, Chiese chiuse (Einaudi, 2021)

V. De Lucia, La lezione del passato per il futuro di Roma, commento a: P. O. Rossi, La città racconta le sue storie (Quodlibet, 2021)

M. Colleoni, Mobilità: non solo infrastrutture, commento a: P. Pucci, G. Vecchio, Enabling mobilities (Springer, 2019)

G. Nuvolati, Una riflessione olistica sul vivere urbano, commento a: A. Mazzette, D. Pulino, S. Spanu, Città e territori in tempo di pandemia (FrancoAngeli, 2021)

E. Manzini, Immaginazione civica, partecipazione, potere, commento a: M. d'Alena, Immaginazione civica (Luca Sossella, 2021)

C. Olmo, Gli intellettuali e la Storia, oggi, commento a: S. Cassese, Intellettuali (il Mulino, 2021); A. Prosperi, Un tempo senza storia (Einaudi, 2021)

A. Bagnasco, Quale sociologia e per quale società?, commento a: A. Bonomi (a cura di), Oltre le mura dell’impresa (DeriveApprodi 2021)

R. Pavia, Le parole dell'urbanistica, commento a A. A. Clemente, Letteratura esecutiva (LetteraVentidue, 2020)

G. Laino, L'Italia ricomincia dalle periferie, commento a: F. Erbani, Dove ricomincia la città (Manni, 2021)

G. Consonni, La bellezza come modo di intendersi, commento a: M. A. Cabiddu, Bellezza. Per un sistema nazionale (Doppiavoce, 2021)