Gabriele Pasqui  
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MILANO, OGGI. UN CICLO AL TRAMONTO


Le condizioni per una svolta



Gabriele Pasqui


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Fine di un ciclo?

Quando, un po’ a sorpresa, Giuliano Pisapia vinse le elezioni del 2011 Milano era una città in cui, dopo quasi vent’anni di governi di centrodestra e nel vortice di una crisi economica e finanziaria globale, si era fortemente indebolito il tessuto produttivo della piattaforma economica lombarda e milanese e si erano raffreddati gli entusiasmi sulle virtù salvifiche del mercato. Le amministrazioni di Albertini e della Moratti, pur con differenze e scarti significativi e in linea con il coevo governo regionale a guida ciellina, avevano incarnato negli anni precedenti una stagione di governo conservatore e market led, impoverendo le istituzioni e la capacità di governo pubblico e supportando un modello di sviluppo a forte trazione immobiliare.

La scommessa dell’embrione di coalizione, sociale prima che politica, che scelse di cambiare, sostenendo la candidatura di Pisapia, era incentrata sulla possibilità di rilanciare lo sviluppo urbano tenendo insieme innovazione e inclusione, attrattività e redistribuzione, efficienza e partecipazione.

A distanza di un decennio abbondante, e senza entrare nel merito dei passaggi che hanno condotto dall’amministrazione di Pisapia a quelle di Sala, penso si possa dire che la scommessa non è stata vinta.

La mia ipotesi è che questo fallimento, che oggi comincia ad essere percepito da larghe fasce della popolazione e a divenire oggetto di qualche conflitto urbano significativo (si pensi alla protesta delle tende o a quella dei ciclisti, per fare due esempi molto diversi), inviti a pensare che si è chiuso un ciclo, e che una prospettiva diversa per il futuro della città passi attraverso una sterzata, una vera e propria svolta che non riguarda solo l’amministrazione comunale, ma le forze sociali e politiche progressiste e di sinistra nel loro insieme.

 

Quale Milano

Per riflettere lucidamente sull’attuale fase è opportuno uscire dalle secche di una discussione spesso ideologica, poco argomentata, segnata dalle cadenze della comunicazione più che dalla riflessività sociale.

La prima mossa è riconoscere che usando la parola “Milano” nominiamo molte cose diverse.

Milano è innanzitutto la città vetrina, sfavillante negli spot pubblicitari e nelle strategie di marketing urbano, la città chiusa dentro la circonvallazione delle mura spagnole, o forse in quella più esterna, della 90/91. È la città attrattiva, globale, dinamica, la cui composizione sociale e la cui ricchezza sono state al centro di narrazioni che hanno segnato l’immaginario interno ed esterno sulla città, ma hanno anche generato rendite, profitto e benessere, sebbene sempre più concentrati.

Si tratta di una città che nel 2022, secondo i dati di Nomisma, su 11,7 miliardi di investimenti – italiani e soprattutto esteri – nell’immobiliare italiano, ne assorbe quasi la metà, oltre 5 miliardi; della città che ospita 18mila studenti stranieri, che nel 2022 è stata visitata da 6,7 milioni di turisti (quasi come nel 2019, anno del picco pre-Covid), che ha rigenerato un volume impressionate di ambiti dismessi o sottoutilizzati, con esiti controversi ma anche con una capacità realizzativa che non può essere sottaciuta, pur in presenza di molte trasformazioni incompiute.

Sarebbe un grave errore non riconoscere la forza, simbolica e materiale, di questa Milano. Chi la critica aspramente, chi ne evidenzia, con ottimi argomenti, le narrazioni vacuamente retoriche e talora imbarazzanti, spesso dimentica il livello di consenso che il modello di sviluppo milanese ha consolidato nel ciclo degli anni ’10, superando anche la grave crisi connessa alla pandemia, senza apparenti effetti catastrofici. D’altra parte, a sinistra, la proposta politica alternativa a quella di governo, incentrata sulla critica radicale all’amministrazione e su una contronarrazione spesso supponente e autoreferenziale, si è già dimostrata elettoralmente irrilevante. Gabriele Mariani, candidato che incarnava questa prospettiva di critica radicale, alle ultime elezioni amministrative ha ottenuto 7.566 voti (1,6%), la metà di quelli presi da Gianluigi Paragone.

D’altra parte, Milano non è solo questo. Non lo è geograficamente. Milano è anche la vasta area grigia tra periferie del comune capoluogo e comuni di prima cintura, oggi spesso in crisi, nei quali peraltro il centrodestra ha prevalso significativamente, con poche eccezioni, anche in città nelle quali la sinistra, dal secondo dopoguerra, aveva sempre governato. Questa Milano di mezzo è anche il luogo di molte “periferie” (fatte di quartieri pubblici e privati, ma anche di grandi infrastrutture e di ambiti ancora in larga misura in cerca di identità) nelle quali si concentrano disagio sociale e spaziale.

Milano è poi anche una grande città metropolitana caratterizzata da una conurbazione continua, ma anche da economie in crisi e condizioni ambientali da allarme rosso ed una regione urbana di 6 milioni di abitanti, che comprende città medie come Bergamo, Lecco o Pavia, nella quale il nesso tra capoluogo regionale e piattaforma economica e produttiva si va sempre più indebolendo.

Si tratta dunque innanzitutto di osservare attentamente queste molte Milano nelle loro specifiche dinamiche economiche, sociali, demografiche, ambientali, senza perderne per strada nessuna. Osservando Milano a queste diverse scale vediamo a mio avviso molto meglio i nodi critici che mi inducono a parlare della fine di un ciclo.

 

Un nodo trasversale e due disgiunzioni

Quali sono i caratteri delle difficoltà in cui versano oggi queste molte Milano? Un primo carattere, trasversale e decisivo, è che le diverse Milano, tutte e nelle loro reciproche interazioni, stanno vivendo una crisi ambientale ed ecologica di proporzioni inedite. Si tratta di una crisi che affonda le sue radici in un ciclo lungo di urbanizzazione e di crescita, ma che oggi assume un’accelerazione impensabile fino a non molto tempo fa.

Mai come ora l’area milanese è apparsa fragile: nel cuore della pianura padana, la città è collocata in una delle aree più inquinate d’Europa e la sua esposizione ai rischi climatici è enormemente cresciuta.

L’area milanese è lo scenario di eventi climatici estremi sempre più frequenti, più (si pensi alla tempesta di giugno e alle migliaia di alberi crollati o alle frequenti esondazioni del Seveso) o meno al centro dell’attenzione mediatica; di un consumo di suolo inarrestabile del quale l’ultimo Rapporto ISPRA offre una chiara fotografia; di un inquinamento atmosferico con un livello di concentrazione di inquinanti più che doppia rispetto a quella di riferimento dell’Oms e tra i peggiori tra le grandi città europee.

Questa condizione, destinata a peggiorare, ha una relazione con la persistenza di un modello di sviluppo urbano che ha ignorato rischi e fragilità, consumato risorse irriproducibili, colpito soprattutto i più poveri e i più deboli, intrecciando aumento della povertà economica e di quella ambientale ed energetica.

Ogni considerazione sul futuro di Milano dovrebbe quindi prendere le mosse dall’insostenibilità del modello di sviluppo che ha caratterizzato la città per lo meno a partire dagli anni ’90, e che è stato largamente assecondato dalle politiche pubbliche e dalle scelte di governo, tamnto a livello regionale che a scala municipale.

Dunque, non possiamo dimenticare che quello della crisi climatica è lo sfondo entro cui prendono corpo le due grandi “disgiunzioni” che costringono a ripensare radicalmente il modello di sviluppo.

La prima disgiunzione è quella tra la città dei ricchi e la città dei poveri. Per la prima volta nella sua storia recente, la crescita dei redditi complessivi, degli investimenti, dell’attrattività ha portato ad una significativa crescita dei divari sociali e spaziali.

Su questo punto non è possibile avere dei dubbi: Milano, in linea con alcune global city europee (ma non con tutte) cresce aumentando la forbice tra ricchi e poveri. L’indice di Gini sul reddito è cresciuto dello 0.51 allo 0.54 in quattro anni, a fronte di una media nazionale dello 0,43. La polarizzazione (sociale e spaziale) cresce anche in termini di aumento della povertà assoluta e di fragilizzazione del ceto medio, che spesso, anche per effetto della pandemia, è sceso sotto la soglia della povertà relativa.

I senzatetto censiti sono quasi 10mila nel comune di Milano, su un totale di circa 15mila a livello di città metropolitana e i rapporti annuali Caritas ci mostrano che il numero dei poveri cresce in modo significativo.

L’altra faccia di questa crescente fragilizzazione sociale è riconoscibile nell’aumento del lavoro povero e precario. Secondo l’Osservatorio sul Mercato del Lavoro di Città Metropolitana, il 73% degli avviamenti riguarda contratti a tempo determinato, con un aumento dei contratti inferiori ai tre giorni.

D’altra parte, l’OML rileva anche oltre 250 mila inattivi tra 15 e 34 anni nel 2022, sebbene il tasso di partecipazione (anche femminile) rimanga nel complesso elevato rispetto alla media nazionale. A Milano si lavora, ma male e in una condizione inaccettabile di limitazione dei diritti e di incertezza sul futuro.

Senza dimenticare che nel comune di Milano vivono circa 300 mila stranieri, molti dei quali in condizioni lavorative, sociali e abitative incompatibili con qualsiasi standard di cittadinanza.

In definitiva, (pochi) ricchi diventano sempre più ricchi e cresce il numero dei fragili e dei poveri, in un contesto di precarizzazione che penalizza innanzitutto quei giovani, italiani e stranieri, che la città vorrebbe attrarre e che spesso transitano da Milano, ma non riescono a radicarvisi.

La seconda disgiunzione è quella tra dinamiche della città centrale, talvolta più piccola, talvolta più grande degli stessi confini amministrativi del comune di Milano, e il suo territorio. Milano, fin dalla prima industrializzazione, si è sviluppata insieme al suo territorio di riferimento, offrendo un ampio mercato, ma anche servizi ad alto valore aggiunto ad una piattaforma economica che cresceva insieme alla città centrale, in uno scambio osmotico di abitanti e funzioni ed in relazione a complesse catene del valore.

Certo, il tema del policentrismo, inteso come contrasto alla concentrazione delle funzioni rare e pregiate, è di vecchia data, ma le relazioni tra Milano e la sua regione urbana sono sempre state molto fitte. Oggi, è invece possibile parlare di un vero e proprio “divorzio”, le cui conseguenze non sono ancora chiare nemmeno agli attori economici e politici.

Qual è il destino di una città centrale sempre più autoreferenziale, che taglia i ponti e limita gli scambi con i suoi territori e che assume sempre di più il profilo di una città duale non solo al suo interno, ma anche rispetto al suo territorio esteso?

Quali le prospettive di un hinterland (per usare una antica espressione) che in qualche caso rischia di riprodurre, in chiave minore, le stesse logiche del capoluogo (si pensi alla crescita esponenziale della logistica, al persistere di investimenti discutibili nella grande distribuzione, ma anche alla disponibilità di grandi aree dismesse per operazioni immobiliari che talvolta si sono avviate decenni fa); in altri finisce per diventare il recapito di chi fugge dai costi insostenibili della città centrale e scambia costi abitativi più bassi con una qualità della vita e servizi urbani di minore qualità.

 

Quale base economica urbana, quale modello di sviluppo

Le due disgiunzioni, tra città centrale e regione urbana da una parte e tra ricchi e poveri dall’altra devono essere a mio avviso interpretate alla luce di una più lucida comprensione delle dinamiche della base economica urbana.

Quali sono le economie che sostengono le dinamiche a cui ho fatto rapidamente riferimento?

Non è facile rispondere, ma in prima istanza io vedo un conflitto in atto tra economie produttive e economie della rendita.

Queste ultime, a loro volta sono fortemente influenzate dai processi di finanziarizzazione del mercato urbano e dalla crescente importanza della rendita immobiliare nell’accumulazione del capitale.

Tuttavia, voglio essere chiaro, credo sia necessario un supplemento di indagine e di ricerca che permetta di costruire una rappresentazione territorializzata dei modi di produzione del valore nell’area milanese allargata. In un contesto estremamente articolato dal punto di vista territoriale, convivono infatti economie di piattaforma ed economie della conoscenza e della ricerca; forme della terziarizzazione alta e bassa e loro intrecci; filiere e catene del lavoro, corte e lunghe, in un contesto di riassetto delle geografie della globalizzazione; riorganizzazione della logistica urbana e della filiera del commercio; ristrutturazione delle economie del turismo e persistenza di cluster produttivi, in alcuni casi di grande qualità e competitivi su scala internazionale.

Queste diverse economie vanno studiate nelle loro interrelazioni e interdipendenze reciproche, provando a indicare come esse configurino una modalità peculiare di capitalismo urbano che presenta importanti conseguenze, su cui non mi soffermo qui, sulla demografia urbana, sempre più caratterizzata da invecchiamento della popolazione autoctona, aumento della popolazione straniera, riduzione della taglia delle famiglie e riduzione del tempo di permanenza dei nuovi arrivati, italiani e stranieri, che si localizzano inizialmente nelle aree più centrali ma che sovente non riescono a rimanervi per il costo degli alloggi, dei servizi e della vita.

Al mutamento in atto della base economica urbana si accompagnano poi i cambiamenti della fenomenologia del lavoro, anche in relazione agli effetti, in larga parte ancora da comprendere, dei processi di riorganizzazione che hanno seguito la pandemia.

D’altra parte, alcuni elementi del capitalismo milanese sono chiaramente riconoscibili. Tra questi, un ruolo essenziale gioca l’assetto del mercato urbano, che spinge sempre più sulle economie della rendita, e che ha fatto emergere negli ultimi anni una rinnovata emergenza della questione abitativa, a sua volta plastica dimostrazione della rilevanza dei processi di polarizzazione sociale e spaziale oggi in atto.

 

La questione abitativa, per esempio

La dimensione drammatica della questione abitativa è sotto gli occhi di tutti, a Milano e altrove. Non voglio qui discuterla in dettaglio, ma solo come sintomo di una incapacità delle politiche pubbliche e delle istituzioni di trattare un tema nel quale si intrecciano fortemente le due disgiunzioni a cui ho fatto riferimento.

A Milano sono quasi 18mila gli annunci di case destinate ad affitti brevi. Come afferma l’Osservatorio OCA del Politecnico, il livello medio degli affitti ha raggiunto il costo di circa 240€/mq annui e lo stock controllato da Aler e Comune, offerto a costi contenuti, si ferma al 10% del totale (ed è molto diminuito dopo i piani di vendita). Il reddito medio dei lavoratori a Milano in un terzo dei casi è inferiore ai 15.000 euro l’anno e per il 60% al di sotto di 26.000 euro l’anno. Ciò significa che una persona con uno stipendio di 1.500 euro netti al mese potrebbe permettersi – spendendo al massimo il 30% del suo reddito netto per il canone (senza tenere conto delle spese condominiali) – un alloggio di soli 45 mq in periferia, di meno di 25 mq nel semicentro e addirittura di meno di 18 mq nel centro.

D’altra parte, se il costo medio per l’acquisto a Milano è di 5.500 Euro al mq, i valori immobiliari a Cormano sono di 2.300 Euro al mq, a Rozzano 2400, a Cinisello 2100.

Il mercato urbano è dunque articolato e diversificato, ma gli investimenti sono concentrati, con effetti spaziali che sono ancora in larga misura da valutare.

D’altra parte, le soluzioni di mercato, ma anche quelle supportate dalle politiche pubbliche (a partire dall’esperienza, interessante ma di nicchia, del cosiddetto “housing sociale”, che ha visto come protagonisti fondi immobiliari no-profit e attori della cooperazione) non sembrano in grado di affrontare il tema di quelle che il sociologo Antonio Tosi chiamava “le case dei poveri”, ossia della domanda abitativa di quella fascia di cittadine e cittadini (per esempio, molti immigrati) che vivono condizioni inaccettabili di vera e propria “povertà abitativa”, in un contesto di svendita del patrimonio pubblico.

La questione abitativa è dunque l’esempio più chiaro delle dinamiche in atto in un mercato urbano che sempre meno costituisce la piattaforma di filiere e catene del valore produttive, e sempre più rappresenta il luogo in cui si manifestano logiche speculative e persino predatorie.

 

Le politiche urbane, la strategia urbana

Quanto le politiche pubbliche e più in generale l’azione pubblica, nelle diverse articolazioni della governance multilivello (nazionale, regionale, comunale e locale) sono stati e sono in grado di affrontare le sfide che ho provato a delineare?

La mia lettura è che da questo punto di vista il ciclo che si sta chiudendo si sia caratterizzato per una scarsa capacità di interpretare il ruolo della regia pubblica, a fronte di un complessivo impoverimento delle risorse, delle competenze e delle capacità delle amministrazioni, a partire da quella comunale, di interfacciarsi con gli interessi privati da una posizione autorevole, che rispetto ai temi del mercato urbano e dell’urbanistica avrebbe potuto anche avvalersi del fatto che un mercato effervescente permette anche di innescare uno “scambio leale” a partire da una posizione di maggiore forza.

D’altra parte, non dobbiamo dimenticare la decisa riduzione delle risorse, soprattutto di parte corrente, che i comuni si trovano ad affrontare. Non si tratta solo di garantire una maggiore regia, ma di consentire alle amministrazioni di svolgere la propria azione con risorse (finanziarie e di personale) adeguate.

Penso anche che la debolezza delle politiche urbane, soprattutto nella regolazione delle dinamiche del mercato, dipenda da un orientamento culturale che nemmeno le evidenze del Covid hanno scalfito, e che attraversa trasversalmente la società e le culture politiche. Secondo questo orientamento il discredito dovuto all’inefficacia e la scarsa autorevolezza dell’azione pubblica spingono ad affidare alle logiche di autoregolazione del mercato la produzione di beni pubblici.

Ma non c’è solo questo. Mi sembra che quel che più manca sia una visione d’insieme della collocazione di Milano nello sviluppo del Paese e in relazione alle dinamiche delle città europee. Quale destino immaginiamo per la città? Come contrastare i rischi che Milano finisca per assomigliare troppo a Londra, e più in generale alle città nelle quali le dinamiche della globalizzazione e della finanziarizzazione hanno finito per svuotare i centri, espellere le popolazioni più povere, gonfiare i valori immobiliari e costruire una perversa compresenza tra nicchie sociali ad alto e altissimo reddito e una popolazione che offre servizi di cura o a basso valore aggiunto?

L’utilizzo delle risorse straordinarie del PNRR, pur considerando tutti i limiti “interni” del dispositivo, è a mio avviso sintomatico della rinunzia a pensare gli investimenti pubblici come tasselli di una più generale strategia urbana.

Quali sono dunque le condizioni per riallacciare i rapporti tra la città e il suo territorio, anche consolidando un principio di equivalenza (almeno tendenziale) dell’offerta di servizi (compresi quelli abitativi) nelle diverse parti del territorio?

 

Come cambiare rotta. Condizioni preliminari

La mancanza di una strategia urbana di lungo periodo che sia in grado di immaginare diverse prospettive per il modello di sviluppo di Milano (e anzi, delle diverse Milano) e il prevalere di logiche che affidano al mercato la risoluzione dei problemi collettivi sono a mio avviso i primi ostacoli da rimuovere per dare corpo ad una diversa prospettiva di sviluppo, che scarti radicalmente rispetto a quanto si è affermato e consolidato negli ultimi anni.

Per promuovere questa svolta, in presenza di una evidente fragilità della politica, che è apparsa troppo schiacciata sull’amministrazione, e della oggettiva assenza di una riconoscibile coalizione sociale critica, pur in presenza di embrioni di conflittualità tra loro scarsamente comunicanti, mi sembra sia necessario realizzare alcune condizioni.

La prima è il rilancio di un dibattito pubblico non reticente, informato, aperto a una molteplicità di voci, e che sia in grado di riconoscere anche le dinamiche positive della città ma che non sia elusivo sulle contraddizioni e sugli elementi di criticità. Un dibattito alimentato da una molteplicità di attori, e che sia intramato anche all’azione e al protagonismo sociale, senza chiudersi in gabbie ideologiche e autoreferenziali. Un dibattito, infine, che sappia valorizzare le conoscenze e le competenze prodotte sulla città, dentro e fuori dai luoghi tradizionali di alta formazione (a partire dalle università).

 

Seconda condizione preliminare è la verifica della condivisione, almeno parziale, delle principali priorità, che a mio avviso sono così sintetizzabili:

  • nel contrasto alla crisi ecologica attraverso un ciclo di politiche pubbliche e investimenti capaci di promuovere una forte rinaturalizzazione dei territori della regione urbana, di sostenere un progetto ampio di riconversione ecologica dell’economia urbana e di rilanciare la manutenzione della città pubblica e il miglioramento della qualità urbana nella prospettiva della vita quotidiana e dell’economia fondamentale;
  • nell’attivazione di forme di regolazione e di incentivi e disincentivi che limitino i vantaggi comparati delle economie speculative e della rendita, con particolare attenzione ad una politica abitativa coraggiosa e rivolta alle esigenze delle fasce più deboli della popolazione e che contrasti gli effetti espulsivi della gentrificazione e della bolla speculativa;
  • nella costruzione di un modello di città “equipotenziale”, che sposti risorse e investimenti dal nucleo urbano ristretto alla regione urbana, anche attraverso un rafforzamento dei servizi sociali e di mobilità pubblica ad una scala metropolitana, nella prospettiva di quella che è stata chiamata “economia fondamentale”;
  • nel rilancio di un modello istituzionale di governance che non si limiti alla pur necessaria rivisitazione della fallimentare esperienza della Città metropolitana, ma che assuma la pluralità di poteri e di interessi che costituiscono la rete di fatto del governo metropolitano, facendo perno sulla necessità di promuovere azioni, programmi e progetti a forte regia pubblica, soprattutto in relazione ai temi ambientali, dell’energia e dei grandi servizi pubblici, del trasporto pubblico locale, della casa.

 

Nel loro insieme, questi orientamenti sfidano l’amministrazione, ma anche le forze politiche e sociali, a ridefinire radicalmente il modello di sviluppo urbano, prestando particolare attenzione alla redistribuzione di risorse sociali e spaziali verso i gruppi sociali più svantaggiati e alla necessità di affrontare la grande questione ecologica come chiave trasversale delle politiche e dei programmi di investimento.

 

Insomma, alimentare una discussione pubblica di qualità e ricostruire un percorso di condivisione allargata di una ragionevole agenda strategica, mi sembra più urgente che lavorare sulla sola dimensione delle narrazioni.

Per conseguire queste condizioni per la svolta è dunque importante che ciascuno (attori politici, sociali, del mondo della cultura e dei saperi) faccia il proprio, a partire dalla propria postazione e in relazione alla propria capacità di alimentare discussione critica e conflitti.

Questa mi sembra essere una possibile via per dare respiro a una prospettiva che metta al centro un modello di sviluppo alternativo per la città e che sappia avviare un difficile processo di ricostruzione di una coalizione sociale e politica.


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18 DICEMBRE 2023