Gianluca Didino  
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HYPERFICTION


Nulla esiste fuori del gioco senza fine della rappresentazione



Gianluca Didino


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Una delle caratteristiche dell’arte postmoderna, forse la principale o fondante, è l’utilizzo programmatico dell’autoconsapevolezza come strumento di riflessione culturale: l’autore si distacca dalla propria opera, sdoppiandosi nell’entità che crea e in quella che osserva l’atto della creazione all’interno del suo contesto. Così che in pressoché qualsiasi opera d’arte postmoderna (letteraria, cinematografica, architettonica) ci troviamo di fronte a due livelli paralleli, il racconto e il discorso-intorno-al-racconto: in molti casi questo doppio binario viene realizzato per mezzo dell’ironia, che enfatizza l’atto ludico (cioè mai completamente serio) implicito nella creazione dell’opera d’arte. Come dire, il mondo non è un foglio bianco sul quale tracciamo il percorso della nostra espressione individuale, ma un insieme di segni la cui combinatoria è (l’hanno dimostrato i membri dell’Oulipo negli anni Sessanta) a tutti gli effetti un gioco.

In questi ultimi vent’anni il postmoderno ha cominciato a morire di diverse malattie: rarefazione minimalista, nuova sincerità, rigurgito realista, autofiction, saturazione dei significanti. Nella loro diversità, queste patologie sono accomunate da un appiattimento sulla superficie (della verità, del corpo, della realtà ecc.) che ha come effetto collaterale anche quello di far collassare il doppio binario della narrativa postmoderna: più spesso sul versante della storia, come è reso eclatante dal successo della fiction di testimonianza (da Roberto Saviano a William Vollman a Svetlana Alexievich, in cui il sottotesto è sempre: “questo è reale e le mie ferite lo dimostrano”), ma talvolta anche sul versante del puro gioco. È così che nasce e si diffonde quella che qui ho voluto chiamare hyperfiction.

Il termine hyperfiction non è stato scelto a caso: coniato da Robert Coover in un famoso articolo del 1993, indicava quella narrativa ipertestuale prodotta con l’ausilio dei computer e fruibile per mezzo degli stessi che avrebbe dovuto realizzare pienamente, portandola al suo zenit intrinseco, la scrittura postmoderna. Sulla carta il ragionamento non era sbagliato, sebbene fosse in parte viziato dalla ventata di entusiasmo portata dalla diffusione del World Wide Web: se il testo postmoderno era uno spazio labirintico edificato sull’idea stessa di possibilità, di cui il modello della rete era la rappresentazione perfetta, allora l’ipertesto ne era la logica continuazione. La pratica però si è rivelata poco propensa a seguire la teoria, e l’ipertesto come forma letteraria autosufficiente non si è per ora diffuso al di fuori dei circoli accademici e sperimentali.

Tuttavia l’idea di narrativa come spazio ludico delle possibilità infinite ha trovato una realizzazione forse inaspettata grazie a un’industria che all’inizio degli anni Novanta stava muovendo i primi passi: quella dei videogiochi. In molti hanno fatto notare che “i videogiochi sono il business più serio del XXI secolo”, e man mano che le tecnologie digitali sono evolute, sfumando progressivamente il confine con la realtà (maggiore verosimiglianza dei videogiochi, giochi che interagiscono con la realtà, persino commistione tra gioco e guerriglia urbana) sono nate forme ibride, da videogiochi massicciamente narrativizzati all’uso massiccio di effetti speciali digitali nei film. Ma al di là dell’aspetto tecnico, la gamification ha trasformato la narrativa postmoderna in maniera meno ovvia, ed è qui che entra in campo il nuovo significato del termine hyperfiction.

Siccome il digitale porta con sé una forte componente visiva (la “retorica visuale del Web” come la chiamava Jay David Bolter) non sorprende che la forma narrativa più massicciamente influenzata da questo processo sia stata il cinema. Se si dovesse fissare un punto di passaggio dal cinema postmoderno a quello dell’hyperfiction questo sarebbe probabilmente Inception di Christopher Nolan (2010), un film sul fare film nell’epoca della possibilità tecnica illimitata, costruito sul modello di scatole cinesi e spazi alla Escher dai quali è impossibile uscire: davvero il postmoderno al massimo delle sue potenzialità, estremizzato, esagerato fino all’ipertrofia.

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01 FEBBRAIO 2016

 

 

 

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