Domenico Patassini  
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LO SPAZIO URBANO TRA CREATIVITÀ E CONOSCENZA


Sul libro curato da A.Cusinato e A.Philippopoulos-Mihalopoulos



Domenico Patassini


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Il libro curato da Augusto Cusinato e Andreas Philippopoulos-Mihalopoulos - Knowledge-creating Milieus in Europe. Firms, Cities, Territories (Springer-Verlag, 2016) - si colloca in una zona poco esplorata degli studi sui milieu urbani e solleva interessanti questioni epistemologiche, metodologiche e normative. Il testo è di per sé una metafora dell'argomento che tratta: mette in tensione prospettive diverse e coglie nei casi-studio l'opportunità di aggiustare la specifica classificazione, adattandola ai contesti. La classificazione delle attività generatrici di conoscenza e innovazione (in questa accezione creative) si basa su un modello logico-formale che merita una discussione a parte. Interessanti sono le implicazioni normative e di policy che accompagnano l'emergere di nuove pratiche.

 

Doppio percorso

Il testo propone un doppio percorso di avvicinamento al concetto di milieu come generatore di conoscenza. Nel primo percorso ('A Theoretical Framework') si evidenzia il potenziale dell'approccio ermeneutico (e di approcci contigui) all'economia della conoscenza, sottolineando i limiti del modello cognitivo. L'approccio ermeneutico all'economia della conoscenza si contrappone pragmaticamente a quello cognitivo, nato in era industriale, ma resistente e ancora in grado di condizionare le strategie di automazione e di sviluppo della intelligenza artificiale. Molti test operativi, e non soltanto logico-formali, sulla plausibilità di queste strategie evidenziano limiti negli schemi cognitivi, in particolare sui nessi fra conoscenza, creatività e innovazione. I nessi si possono presentare a micro-scala, all'interno di singoli processi, ma anche a scale maggiori determinando milieu a forte contenuto reticolare. Se a micro-scala il nesso si risolve in pratiche finalizzate e chiuse (sperimentali e orientate al risultato), a scala maggiore possono attivare processi esplorativi, sfruttare gradi di libertà e offrire possibilità di ri-contestualizzazione in plausibili schemi cognitivi.

Il testo propone e testa empiricamente un modello interpretativo delle relazioni fra impresa, città e territorio e definisce a livello normativo sintetiche linee di policy. Il ritardo dell'economia mainstream emerge rispetto a quanto è da tempo acquisito nel dibattito filosofico, letterario, sociologico, organizzativo e artistico; ritardo causato dall'inerzia del positivismo-logico nella definizione della nozione di conoscenza. L'inerzia sembra dovuta all'infondata separazione fra esplorazione (configurazione) e test, fra creazione e innovazione, separazione che impedisce di cogliere l'essenza della creatività e, quindi, di apprezzarla e, nei limiti del possibile, gestirla. Com'è noto, la creatività tende a divergere rispetto alla logica astratta dei modelli cognitivi per diverse ragioni: é sensibile alle relazioni e ai contesti, genera idee in modo sinaptico (associativo o disgiuntivo), é flessibile nei principi che adotta, si presenta indifferentemente in modo analitico o valutativo in persone dotate di diverso talento, si misura in modo non univoco con le forme di apprendimento sistematico. Queste ragioni (ma ve ne possono essere molte altre) influiscono sulle motivazioni favorendo o ostacolando il manifestarsi della creatività e delle sue capacità risolutive. La creatività, intesa come illuminazione (insight), è relativamente indipendente dall'apprendimento, da ciò che si è già appreso, in quanto implica una riorganizzazione del campo percettivo e cognitivo. Questa riorganizzazione può avvenire in modo più o meno consapevole, più o meno intenzionale: tanto é difficile riconoscere eventuali fasi preparatorie all'insight, quanto agevole definire percorsi creativi immediatamente dopo (1). Secondo i curatori, il ritardo dell'approccio mainstream contraddice il vissuto nell'interazione sociale, nella città contemporanea e nelle organizzazioni d'impresa, ma potrebbe, in assenza di recupero, indebolire la stessa 'disciplina' economica nel dominio delle scienze sociali. Ad un suo possibile riscatto non sembra abbia contribuito l'approccio 'evolutivo', a cui va comunque riconosciuto il merito di aver sottratto gli individui dall'anonimato, mappandone traiettorie e percorsi, pur senza riuscire a spiegarne le modalità. È questo black box che l'approccio ermeneutico cerca di aprire, riconoscendo il cambiamento (l'innovazione) non come 'naturale processo di selezione fra opzioni, ma come 'apprendimento' di agenti intelligenti.

Nel secondo percorso ('Case Studies') si propongono, a sostegno dell'ipotesi generale, alcune evidenze empiriche del concetto di milieu, con classificazioni spaziali di attività di servizio alla conoscenza in città e aree metropolitane europee (Venezia, Monaco di Baviera, Parigi e sistema urbano francese, Milano, Pozna? e Pécs). Il doppio percorso evidenzia uno scarto fra spinta ermeneutica e sua irriducibilità statistica, fra il modo in cui si vive l'innovazione e la sua rappresentazione, spingendo il lettore a chiedersi se il milieu sia qualcosa di visibile, se esista davvero, o se sia una sorta di 'forza interiore', potenza, possibilità creata in modo non necessariamente intenzionale dall'interazione sociale. Le 'approssimazioni' statistiche proposte dai curatori sembrano confermare la seconda ipotesi, un'ipotesi che, ancora in nuce, è stata testata quasi sessant'anni fa in studi di psicologia comportamentale e di management industriale. Sulla base di test psicologici effettuati alla fine degli anni '60, Edward Deci (2), allora ricercatore alla Carnegie Mellon University, diceva che l'innovazione non si può comprare; non solo, ma che fare qualcosa solo per il piacere di realizzarla può portare a risultati inattesi e sorprendenti. Douglas M Mc Gregor, uno dei più noti studiosi di management del XX secolo (3), al quesito 'cosa dobbiamo fare per motivare i dipendenti?' rispondeva 'nulla, lasciateli fare'. L'idea della 'motivazione intrinseca' (4) si basa su considerazioni abbastanza semplici, ma solo apparentemente scontate. Gli esseri umani avrebbero una innata forza a ricercare l'autonomia, a sfidare le proprie capacità e a rafforzarle, a esplorare nuove opportunità e ad apprendere. Il vero problema sarebbe la creazione di contesti in cui queste attitudini possano liberamente esprimersi: dei milieu per antonomasia. Queste attitudini non possono essere considerate come 'reazioni' a incentivi e alla conoscenza, in quanto plasmate da una 'forza' interiore (una 'potenza' si direbbe) che spinge alla prova e all'errore. Ma se non appartengono a logiche di causalità lineare, se non sono 'reazioni' individuali o collettive, quando, come e dove si possono riconoscere? Che configurazioni assumono? Prevale una componente spaziale (areale) o foot-loose (reticolare)? La prima parte del testo riconosce l' 'autonomia generatrice' di questa forza evidenziando come possa essere 'favorita' con l'ermeneutica, con una particolare forma di dialogo sociale che alla causalità lineare tipica dei modelli cognitivi sostituisce forme di causalità mutua. La seconda parte del testo cerca di evidenziare se questo processo generi risultati riconoscibili identificando cluster (5) di attività di servizio alla conoscenza con profilo variabile a seconda dei contesti. Il test, per come è impostato e per la sua 'ampiezza', si limita agli 'stati' lasciando sullo sfondo i processi che li generano. Riferimenti interessanti sono i caratteri fisico-funzionali e di policy utilizzabili come proxy di condizioni e opportunità. Le attività sono classificate (con qualche problema comparativo) sulla base di gradienti di conoscenza e ci si chiede se vi siano ricorrenze nella relazione dei profili dei cluster con condizioni e opportunità generali. Ci si chiede, cioè, se in termini formali siano riconoscibili funzioni di appartenenza. La risposta fornita dagli esercizi empirici è parziale e differenziata, e serve un certo sforzo interpretativo per riconoscere al milieu specifiche capacità di generare conoscenza: come una lingua che si forma ed evolve a livello collettivo e impone le sue regole a chi parla, legge o scrive. La risposta è parziale anche perché non motiva come la solitudine dello 'space of the middle' di Gilles Deleuze e Félix Guattari possa sostituire l'interpretazione elusiva che del milieu danno le scienze regionali o che forniva il seminale lavoro di Émile Durkheim quando riconosceva le morfologie sociali come relazione fra volume, densità e spazio.

 

Testo come metafora

Il testo cerca di assumere un impianto ermeneutico e va riconosciuto ai curatori questo sforzo di coerenza che ne avvalora i contenuti (6). L'approccio ermeneutico viene infatti osservato da una 'posizione terza' a livello epistemologico, euristico, metodologico e normativo. Nel primo i curatori relativizzano la loro prospettiva, consapevoli che la realtà viene vista attraverso le loro lenti. Nel secondo verificano la consistenza interna, il potere esplicativo delle teorie nello spiegare la realtà: termini come atmosfera, milieu, landscape/paysage diventano strumenti concettuali utili. Nel terzo identificano procedure utili a valutare l'affidabilità delle teorie e nell'ultimo si chiedono quanto queste possano essere applicate a livello di policy. Questa 'posizione terza' viene assunta in modo peculiare da ciascun autore (soprattutto nella prima parte e in modo più problematico nella seconda) nello sforzo di tenere insieme i quattro livelli rispondendo a necessità espositive. Emerge così una interpretazione articolata del rapporto fra spazio, conoscenza e creatività che stimola riflessioni generali (sul testo nel suo complesso) e specifiche (sui singoli contributi). Fra le due riflessioni, generali e specifiche, affiorano alcune tensioni che la recensione cerca di cogliere e interpretare.

 

Danza di prospettive: contributi della prima parte

L'orizzonte teorico affiora nella ampia introduzione dei curatori e nei sei contributi che dovrebbero aiutare a riconoscere i molteplici ruoli della conoscenza nella generazione dei milieu: sulla conoscenza scientifica (Paolo Garbolino), su creatività ed economia secondo un approccio filosofico-musicale (Daniele Goldoni), sul nesso conoscenza-spazio (Giorgio De Michelis), sul ruolo di Ict (Carla Simone), su 'atmosfere' e nuovi spazi di conoscenza (Andreas Philippopoulos-Mihalopoulos) e sull'approccio ermeneutico all'economia della conoscenza (Augusto Cusinato). Ai sette casi-studio seguono due conclusioni, una di Roberto Camagni e l'altra dei curatori. L'indice registra una conclusione, anche se il contributo di Camagni sembra fare da contraltare, 'spruzzando' un po' d'ermeneutica sull'evolutivo approccio ai milieu da parte delle 'stanche' scienze regionali. Il suo stile nulla toglie (né aggiunge) al testo, ma per i contenuti avrebbe, forse, dialogato meglio con il Cusinato introduttivo.

L'approccio ermeneutico all'economia della conoscenza, introdotto da Augusto Cusinato, viene collocato rispetto ad un argomento saliente nel dibattito epistemologico: la separazione fra esplorazione e validazione, fra scoperta di una ipotetica legge, o regolarità, e suo test. Come rileva Paolo Garbolino ('The New Understanding of Scientific Knowledge'), nelle esperienze del positivismo logico, o neo-positiviste, soltanto validazione e test assumono rilevanza scientifica. Ad esempio, nella logica matematica un modello è una struttura che riconosce verità alle affermazioni di una teoria, dove la teoria è definita da un insieme di affermazioni espresse in linguaggio formale. L'esplorazione viene relegata ad uno stadio pre-scientifico, del tutto o quasi privo di interesse, quando non viene costretta al destino della validazione. Questa distinzione fra esplorazione e validazione è rilevante ai fini della teoria della innovazione, perché aiuta a riconoscere l'innovazione (epistemo)logicamente distinta dall'ideazione. La distinzione é alla base del modello lineare R&D. Garbolino cita una interessante definizione che Andrew Pickering dà di esperimento: 'an experiment is a dialectic of resistance and accommodation between the experimental apparatus and its running, the theory of the apparatus and the theory of the phenomenon under study: a successful experiment realizes a mutual agreement between all these factors' (p. 7). L'esperimento è dunque un conflitto a volte (non sempre) risolvibile. Secondo questa logica dicotomica (di separazione fra esplorazione e validazione, fra ideazione e innovazione), se il testo che sto recensendo fosse un esperimento di successo, dovrebbe offrirmi un repertorio (anche per tipi o classi generali) di dispositivi di conversione dell'ideazione in innovazione. In questi tipi o classi si potrebbe verificare se esista una coerenza fra disegno del modello sperimentale e suo impiego, fra teoria del modello interpretativo e teoria del fenomeno allo studio. L'esito in questa prospettiva mi sembra incerto e l'incertezza tende ad aumentare se si supera la dicotomia e le sue implicazioni paradigmatiche.

Garbolino documenta il processo 'storico' che ha consentito il superamento di questa dicotomia: dalla nuova filosofia della scienza (7) alla distinzione fra conoscenza tacita ed esplicita di Michael Polanyi fino alle knowledge creating company di Ikujiro Nonaka (p. 11) (8). Si tratta di un superamento importante, necessario, ma comunque non sufficiente all'attivazione di un approccio ermeneutico. È necessario perché dà dignità alla esplorazione, all'interpretazione e alla ideazione, ma non è sufficiente se non riesce ad adottare un concetto 'meno esibito' di creatività e se non si confronta nel dialogo eco-tecnologico imposto dalla Rete ('field of ambivalence' ci ricorda Daniele Goldoni, ma anche Maurizio Ferraris con le sue ARMI, altrove). Sembrano due estremi troppo distanti per garantire condizioni di sufficienza. Eppure… Una 'intelligenza meno esibita' e 'riposta nel sottotraccia delle emozioni' può essere un vissuto che non rinuncia comunque al ragionamento, alla logica, che non fugge davanti all'insolito, al favolistico, alla imprevedibilità (9). D'altro canto, alla dimensione eco-tecnologica non si sfugge (o si crede ingenuamente di sfuggire), perché non solo rafforza il potenziale di relazione, modificandone significati e valori, proponendo nuove relazioni fra diritti e libertà, ma impone anche nodi di relazione diversi dagli agenti umani (actants) (10). Un'alternativa è tagliare i ponti (unplugging) e adottare forme anacoretiche o forme 'critiche' di neo-isolazionismo o neo-luddismo.

Nel suo contributo, Daniele Goldoni sviluppa una critica ermeneutica alla nozione di creatività (oggi ridotta ad estetizzazione dell'economia) e ai suoi contraddittori effetti: fra tutti, la mutevole accessibilità, i diversi esiti sociali, una varietà impressionante di tranelli cognitivi. Da musicista e docente di estetica, egli segue un approccio 'privilegiato', filosofico-musicale appunto, per evidenziare come la creatività possa nascere dal gioco ermeneutico nell'interazione sociale. In questo gioco egli ritiene possano maturare i germi della creatività e si delinei il suo possibile contributo alla innovazione. Goldoni ipotizza vi siano linee di forza convergenti o conflittuali (inter and trans-medial) che formano territori spazio-temporali in cui individui, gruppi e comunità scoprono (o credono di scoprire) le loro possibilità, le loro capacità e, forse, le loro intenzioni. L'esperienza musicale in una stanza può creare situazioni diverse: qui le condizioni spaziali e d'uso dello spazio (milieu) non possono essere disgiunte dalle performance o dai risultati. È un tipico esempio in cui lo stesso spazio metrico si può trasformare in diversi luoghi e il modello musicale si presenta simile ad un milieu creativo. A territori spazio-temporali diversi, perché alienanti, ma con evidenti analogie erano giunti anche Karl Marx discutendo sul feticismo delle merci e Guy-Ernest Débord con la città dello spettacolo: straordinari milieu dell'inganno e, se vogliamo, della critica. E qui la creatività può assumere connotati altri: può essere mimesis, inventio, meta-phorà (trasferimento di significato, sforzo o tensione per portare oltre, per andare oltre); un nuovo modo di agire e di pensare, non necessariamente innovativo o profittevole. Anche utopia. Nella creatività può essere del tutto assente l'utilità, a meno di non intendere l'utilità come contributo dei mezzi di comunicazione e di produzione; oppure, come piacere di fare e conoscere, come spinta o desiderio, come energia pura, individuale e collettiva. Ma la creatività non sembra indipendente dalle capacità e dai funzionamenti. Lo stesso Goldoni riconosce il 'creativo come post proletario in una atmosfera euforica' (p. 38), mentre Amartya Sen, attento alle diseguaglianze: 'poverissimo mi ingegno a sopravvivere'.

I contributi successivi della prima parte sviluppano da diverse prospettive la nozione di spazio come componente (fisica e virtuale) co-essenziale alla conoscenza.

Giorgio De Michelis sottolinea la plasticità e la flessibilità dello spazio, potremmo dire la sua deformabilità nelle interazioni sociali contigue o a distanza. Le deformazioni si susseguono, a volte quasi inavvertite. In queste 'increspature' si possono riconoscere le capacità generative dei milieu. Ma, essendo generalmente limitato il contenuto intenzionale delle interazioni sociali, non è agevole agire sulle capacità generative. A meno di azioni forti e concluse, in certa misura autoreferenziali, o di eventi particolari, la stessa trasformazione di uno spazio (space) in luogo (place) non è così lineare e prevedibile. E ciò non sembra dovuto alle complessità reticolari introdotte da Ict, dalla creazione di canali di comunicazione per interazione a distanza, per tag di persone e documenti, o per la creazione di spazi virtuali di accesso, come sottolineato da Carla Simone nel contributo successivo. Per De Michelis ogni azione è interazione in una esperienza specifica dove i soggetti scambiano conoscenza acquisita (tacitamente o in modo esplicito), condizionando nuove interazioni. La conoscenza è situata nel tempo, nello spazio e nell'esperienza e la sua distribuzione non può essere considerata un problema di razionalità. 'Essere' é 'essere con', ma il problema è che noi e le nostre protesi tecnologiche siamo al contempo soggetti e oggetti dell'interazione, ne siamo condizionati, e ciò viene accentuato da quel clinamen (Nancy dell'Inoperative Community) che ci spinge l'uno verso l'altro: una inclinazione che 'fa comunità', dice De Michelis. Direi: una inclinazione che facilita l'interazione, ma che non la rende per questo del tutto intenzionale e descrivibile. Una significativa declinazione di 'pubblico' sta proprio qui: in quel collante non intenzionale che connota l'interazione sociale. Il riferimento al linguaggio diventa così problematico. Con Wittgenstein, l'interazione umana può essere considerata come 'gioco linguistico' con logica propria. Nella 'teoria raffigurativa' del Wittgenstein del Tractatus il linguaggio viene isolato dalle circostanze sociali di impiego, passando dalle convenzioni alle regole che conferiscono alle parole il loro significato. Qui, il triplo intreccio di fatto, convenzione e valore esplicita le connessioni con la 'filosofia del linguaggio comune'. Sen ricorda il 'gesto napoletano di fregarsi il mento' (citato da Piero Sraffa) per spiegare come per capire il significato di una affermazione non basti osservarne la forma logica, come sosteneva Wittgenstein (11). Logica ed allusioni para-logiche che consentono al gioco linguistico di creare spazi e di appropriarsene, di non considerare lo spazio come un supporto dato, indipendente, lì fuori. È impossibile sottrarsi a un discorso spaziale proprio perché il gioco linguistico lo crea.

De Michelis, contrariamente a Goldoni, sembra dare più fiducia al linguaggio: ne dilata, infatti, il dominio e le forme. Goldoni concludeva il suo discorso dicendo 'the real issue about 'hermeneutics' is a certain overestimation of language'. È come se un certo rischio ermeneutico dipendesse da una forma di abuso linguistico o, viceversa, che l'eccesso linguistico influenzasse negativamente l'ermeneutica. Ma abusi ed eccessi sono oscillazioni contingenti, ridondanze che non reggono alle istanze del 'dizionario necessario' o 'minimo', in quel po' di memoria a cui ogni circostanza rinvia: sedimento. E una di queste prove è che il linguaggio è un mezzo collettivo che crea le condizioni per condividere esperienze, riflette la conoscenza attraverso l'esperienza (pp. 52-53), è uno spazio condiviso, volenti o nolenti. De Michelis riprende opportunamente il concetto di ba definito negli anni '90 dai filosofi giapponesi Kitaro Nishida e Hiroshi Shimizu (12). Ba é 'a shared space for emerging relationship' di tipo fisico, virtuale, mentale. Secondo Ikujiro Nonaka e Noboru Konno ciò che differenzia ba dalla interazione sociale ordinaria è il concetto di 'creazione della conoscenza'. Ba sarebbe una sorta di piattaforma per l'avanzamento della conoscenza individuale e collettiva, un luogo che ospita significati (per questo place): 'a shared space that serves as a foundation for knowledge creation' (13). Si potrebbe dire che è una sorta di linguaggio acquisito che consente di interpretare quanto di inedito e di non intenzionale propone ogni interazione sociale. Può essere intesa come componente costitutiva di un milieu più o meno fertile, una componente su cui non è facile, e forse è a volte inutile o controproducente, intervenire, proprio per i modi in cui si forma.

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27 OTTOBRE 2017

 

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

in redazione:
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Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

powered by:
Istituto Naz. di Urbanistica

 

Gli incontri

2013: programma/present.
2014: programma/present.
2015: programma/present.
2016: programma/present.
2017: programma/present.

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017:

E. Scandurra, Dall'Emilia il colpo di grazia all'urbanistica, commento a: I. Agostini (a cura di), Consumo di luogo (Edizioni Pendragon, Bologna)

M. A. Crippa, Uno scatto di "coscienza storica" per le città, commento a: G. Pertot, R. Ramella (a cura di), Milano 1946 (Silvana Ed., 2016)

R. Gini, Progettare il paesaggio periurbano di Milano, recensione di V. Gregotti et al., Parco Agricolo Milano Sud (Maggioli, 2015)

G. Fera, Integrazione e welfare obiettivi di progetto, commento a: L. Caravaggi, C. Imbroglini, Paesaggi socialmente utili (Quodlibet, 2016)

C. Bianchetti, La ricezione è un gioco di specchi, commento a: C. Renzoni, M. C. Tosi (a cura di), Bernardo Secchi. Libri e piani (Officina, 2017)

P. Panza, L'eredità ignorata di Vittorio Ugo, replica al commento di G. Ottolini a: A. Belvedere, Quando costruiamo case... (Officina, 2015)

A. Calafati, Neo.Liberali tra società e comunità, replica al commento di M.Ponti a: G. Becattini, La coscienza dei luoghi (Donzelli, 2015)

M. Ponti, Non-marxista su un dialogo tra marxisti, commento a: G. Becattini, La coscienza dei luoghi (Donzelli, 2015)

G. Semi, Tante case non fanno una città, commento a: E. Garda, M.Magosio, C. Mele, C. Ostorero, Valigie di cartone e case di cemento (Celid, 2015)

M. Aprile, Paesaggio: dal vincolo alla cura condivisa, commento a: G. Ferrara, L'architettura del paesaggio italiano (Marsilio, 2017)

S. Tedesco, La messa in forma dell'immaginario, commento a: A.Torricelli, Palermo interpretata (Lettera Ventidue, 2016)

G. Ottolini, Vittorio Ugo e il discorso dell'architettura, commento a: A. Belvedere, Quando costruiamo case, parliamo, scriviamo. Vittorio Ugo architetto (Officina Edizioni, 2015)

F. Ventura, Antifragilità (e pianificazione) in discussione, commento a: I. Blečić, A. Cecchini, Verso una pianificazione antifragile (FrancoAngeli, 2016)

G. Imbesi, Viaggio interno (e intorno) all'urbanistica, commento a: R. Cassetti, La città compatta (Gangemi 2016)

D. Demetrio, Una letteratura per la cura del mondo, commento a: S. Iovino, Ecologia letteraria (Ed. Ambiente, 2017)

M. Salvati, Il mistero della bellezza delle città, commento: a M. Romano, Le belle città (Utet, 2016)

P. C. Palermo, Vanishing. Alla ricerca del progetto perduto, commento a: C. Bianchetti, Spazi che contano (Donzelli, 2016)

F. Indovina, Pianificazione "antifragile": problema aperto, commento a: I. Blečić, A. Cecchini, Verso una pianificazione antifragile (FrancoAngeli, 2016)

F. Gastaldi, Urbanistica per distretti in crisi, commento a: A. Lanzani, C. Merlini, F. Zanfi (a cura di), Riciclare distretti industriali (Aracne, 2016)

G. Pasqui, Come parlare di urbanistica oggi, commento a: B. Bonfantini, Dentro l'urbanistica (Franco Angeli, 2017)

G. Nebbia, Per un'economia circolare (e sovversiva?), commento a: E. Bompan, I. N. Brambilla, Che cosa è l'economia circolare (Edizioni Ambiente, 2016)

E. Scandurra, La strada che parla, commento a: L. Decandia, L. Lutzoni, La strada che parla (FrancoAngeli, 2016)

V. De Lucia, Crisi dell'urbanistica, crisi di civiltà, commento a: G. Consonni, Urbanità e bellezza (Solfanelli, 2016)

P. Barbieri, La forma della città, tra urbs e civitas, commento a: A. Clementi, Forme imminenti (LISt, 2016)

M. Bricocoli, Spazi buoni da pensare, commento a: C. Bianchetti, Spazi che contano (Donzelli, 2016)

S. Tagliagambe, Senso del limite e indisciplina creativa, commento a: I. Blečić, A. Cecchini, Verso una pianificazione antifragile (FrancoAngeli, 2016)

J. Gardella, Disegno urbano: la lezione di Agostino Renna, commento a: R. Capozzi, P. Nunziante, C. Orfeo (a cura di), Agostino Renna. La forma della città (Clean, 2016)

G. Tagliaventi, Il marchio di fabbrica delle città italiane, commento a: F. Isman, Andare per le città ideali (il Mulino, 2016)

L. Colombo, Passato, presente e futuro dei centri storici, commento a: D. Cutolo, S. Pace (a cura di), La scoperta della città antica (Quodlibet, 2016)

F. Mancuso, Il diritto alla bellezza, riflessione a partire dai contributi di A. Villani e L. Meneghetti

F.Oliva, "Roma disfatta": può darsi, ma da prima del 2008, commento a: V. De Lucia, F. Erbani, Roma disfatta (Castelvecchi, 2016)

S.Brenna, Roma, ennesimo caso di fallimento urbanistico, commento a: V. De Lucia e F. Erbani, Roma disfatta (Castelvecchi 2016)

A. Calcagno Maniglio, Bellezza ed economia dei paesaggi costieri, contributo critico sul libro curato da R. Bobbio (Donzelli, 2016)

M. Ponti, Brebemi: soldi pubblici (forse) non dovuti, ma, commento a: R. Cuda, D. Di Simine e A. Di Stefano, Anatomia di una grande opera (Ed. Ambiente, 2015)

F. Ventura, Più che l'etica è la tecnica a dominare le città, commento a: D. Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città (Ombre corte, 2016)

P. Pileri, Se la bellezza delle città ci interpella, commento a: G. Consonni, Urbanità e bellezza (Solfanelli, 2016)

F. Indovina, Quale urbanistica in epoca neo-liberale, commento a: C. Bianchetti, Spazi che contano (Donzelli, 2016)

L. Meneghetti, Discorsi di piazza e di bellezza, riflessione a partire da M. Romano e A. Villani

P. C. Palermo, Non è solo questione di principi, ma di pratiche, commento a: G. Becattini, La coscienza dei luoghi (Donzelli, 2015)

G. Consonni, Museo e paesaggio: un'alleanza da rinsaldare, commento a: A. Emiliani, Il paesaggio italiano (Minerva, 2016)

 

 

I post

L'inscindibile legame tra architettura e città, commento a: A. Ferlenga, Città e Memoria come strumenti del progetto (Marinotti, 2015)

Per una città dell'accoglienza, commento a: I. Agostini, G. Attili, L. Decandia, E. Scandurra, La città e l'accoglienza (manifestolibri, 2017)