Tiziano Bonini  
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PER UNA COMUNICAZIONE "BIOLOGICA"


Un manifesto immaginario



Tiziano Bonini


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Questa estate ho letto Il dilemma dell'onnivoro di Michael Pollan e mentre l'autore descriveva la nascita del movimento biologico nell'agricoltura americana, ho pensato ai punti di contatto tra produzione industriale di cibo e produzione industriale di informazione. Entrambe si giovano di economie di scala e dei benefici dell'omogeneizzazione della produzione: così come l'agricoltura e l'allevamento industriale hanno bisogno di vasti appezzamenti di terra da coltivare a monocolture e vasti fabbricati per allevare animali da macellazione, la produzione industriale di informazione si avvale di processi che rendono efficiente la raccolta e il trattamento dell'informazione su vasta scala e favoriscono la concentrazione dei media nelle mani di pochi grandi gruppi e in un'epoca di crisi del giornalismo, sopravvivono ancora di più solo i grandi conglomerati mediali, proprietari di televisioni, radio, giornali.

Sia l'agricoltura che la produzione industriale di informazione, tendono alla mono-coltura, alla standardizzazione dei processi, all'oligopolio di pochi, grandi gruppi multinazionali (Cargill, Monsanto, la News Corporation di Murdoch): cibo e informazione tutta uguale, omogenea (negli Stati Uniti migliaia di radio appartengono allo stesso gruppo e riproducono lo stesso format in mercati diversi).

La produzione industriale di cibo e di informazione, se da un lato ha "democratizzato" l'accesso a questi due beni, il primo materiale e il secondo immateriale, ha anche riversato sulla società una serie di costi (ambientali, economici, sociali), le cosiddette esternalità negative, che rendono molto più salato il conto di questo tipo di produzione.

Se alla produzione industriale di cibo si è opposta, nel tempo, quella "biologica", una produzione rispettosa dell'ambiente, di chi lavora la terra e di chi la consuma, perché - mi chiedevo mentre leggevo Pollan - alla produzione industriale di informazione non potrebbe opporsi una produzione "biologica" di informazione?

Ma cosa significherebbe, produrre informazione "biologica", semmai questa espressione esistesse davvero?

Immaginiamo una piccola azienda, un giornale locale, un magazine online, una radio regionale, che un giorno decide di trasformare la sua filiera produttiva per iniziare a produrre "informazione biologica". Immaginiamo anche che la cosa funzioni e che altre aziende decidano di convertirsi a questo nuovo metodo produttivo e che si riuniscano in un consorzio e trovino un accordo comune sulle regole che permettono a un'azienda di fregiarsi della certificazione "biologica" dell'informazione che produce.

Cosa comporterebbe questa speciale "certificazione"?

L'obiettivo principale, come nell'agricoltura biologica, dovrebbe essere quello di ridurre l'impatto ambientale della produzione, nel rispetto di chi ci lavora. Quindi prima di tutto (regola n. 1) quest'azienda dovrebbe convertire la sua struttura produttiva al fotovoltaico o ad altre forme di alimentazione dei computer di redazione non basate sui combustibili fossili.

Poi dovrebbe garantire ai propri lavoratori e collaboratori un trattamento equo, evitando di pagare i freelance 15 euro al pezzo, per dire.

Ma ancora non siamo arrivati al cuore del problema: ovvero il significato di "informazione biologica". Un'azienda di coltivazione biologica, oltre a ridurre al minimo il consumo di combustibili fossili e pagare equamente i propri dipendenti, ha come obiettivo primario quello di produrre cibo di qualità superiore rispetto a quello industriale, almeno dal punto di vista delle proprietà nutritive, un cibo generalmente più "sano" (non entro nel dibattito biologico vs. industriale) e persegue questo obiettivo vietando l'impiego di concimi minerali, antiparassitari sistemici e diserbanti e geodisinfestanti di sintesi chimica, oltre al divieto di utilizzare ogm. Ma se trasliamo queste regole sull'informazione, come dovrebbe essere "coltivata" l'informazione, per dirsi "biologica" e quindi più "sana" e di qualità "superiore" a quella prodotta su scala industriale?

Provo qui a fare un esercizio di immaginazione e definire alcune regole per questa ipotetica "certificazione biologica" dell'informazione, che in un'epoca di fake, deep fake news, fatti alternativi e propaganda di stato potrebbe forse restituire un po' di dignità al lavoro giornalistico. Ma vi invito, nei commenti, a fare anche voi con me questo esercizio di immaginazione e avanzare altre proposte.

Uno dei pilastri dell'agricoltura e dell'allevamento biologici è mettere la pianta o l'animale in condizione di crescere secondo ritmi naturali, senza condizionarne o accelerarne artificialmente la crescita, tramite azoto (per le piante) o porzioni bibliche di mais (per i manzi). Piante e animali, secondo Pollan, sono dei medium, degli intermediari, posti tra noi e l'energia solare: il loro lavoro è catturare l'energia solare necessaria per crescere e per nutrirsi, immagazzinandola dentro le loro cellule. Piante e animali, interagendo tra loro, si alimentano a vicenda, senza necessità di diserbanti chimici che inquinano l'ambiente e questa interazione si trasforma poi in energia "sana" per noi che li consumiamo.

Anche i giornali sono dei medium, come le piante e le vacche: fanno da intermediari tra noi e la realtà, si nutrono di fatti, li digeriscono nel rumine e ce li servono in porzioni confezionate ad alto valore aggiunto di approfondimento e intrattenimento.

Come rendere questo processo di ruminazione il meno artificiale possibile?

Innanzitutto, eliminando la pubblicità, che sta all'informazione come i diserbanti chimici alla coltivazione della terra.

Invece di dipendere dalla vendita di spazi pubblicitari, un medium biologico dovrebbe dipendere il più possibile, e progressivamente sempre di più, dai propri consumatori: vendita diretta, cioè abbonamenti e sottoscrizioni, che svincolano il produttore dalle fluttuazioni del mercato pubblicitario e dalla vendita di dati del proprio pubblico. Se Facebook fosse un'azienda biologica e ci facesse pagare un abbonamento per utilizzare i suoi servizi, non sarebbe esistito il caso Cambridge Analytica, ad esempio, oppure non verremmo bersagliati continuamente con messaggi promozionali su Instagram, che riempiono di rumore di fondo la nostra esperienza visiva.

La pubblicità è spam nel senso originale del termine, che risale, per chi non lo sapesse, a uno sketch comico del Monty Python's Flying Circus trasmesso il 15 dicembre 1970 (stagione 2, episodio 12): nello sketch un gruppo di vichinghi sta mangiando a capo chino e una cameriera, mentre presenta loro il menù, condisce la sua tiritera infilando la parola "spam" tra una frase e l'altra.

Se utilizziamo la teoria matematica della comunicazione di Shannon e Weaver del 1949, il primo modello di comunicazione ad introdurre il concetto di segnale/rumore, la spam potrebbe essere compresa come il rumore di fondo che interferisce sulla ricezione del segnale. La pubblicità è come il jamming radiofonico, l'interferenza sulla linea comunicativa. In agricoltura, la spam sarebbe un'erbaccia.

Quindi, regola n.2 (la prima era relativa all'impatto ambientale e ai diritti dei lavoratori) di una comunicazione biologica: vietato ricorrere alla pubblicità come introito. Ne deriverebbe una ricezione del "segnale" di più alta qualità.

Ora lo so che molti si alzeranno in piedi, arrabbiati, per sostenere che anche la pubblicità è un testo a sé, di alto valore culturale, che in alcuni casi è più godibile del resto del giornale o del flusso televisivo in cui è inserita, ma questi sono argomenti per le tesi in semiotica dell'immagine, nella vita quotidiana, la maggior parte della pubblicità che assorbiamo, è spam di cui faremmo volentieri a meno (tipo il rimedio per la parodontite sulle radio della Rai).

Regola n. 3, un corollario della regola n. 2: non si può pagare per promuovere un messaggio, ma egli deve fare il suo corso naturale. In marketing esiste già un'allusione al linguaggio dell'agricoltura biologica, se ci pensate bene: è la distinzione tra "organic" e "paid" audience: tra audience raggiunta naturalmente o a pagamento. Così come una pianta biologica cresce al ritmo della luce e delle sostanze nutritive che essa è capace di assorbire dal sole e dalla terra, senza l'aiuto di fertilizzanti chimici che ne accelerano la crescita ma che la espongono anche all'alta possibilità di crescere più fragile e ammalarsi o essere attaccata da afidi che devono poi essere combattuti con i pesticidi, anche la comunicazione biologica si distingue da quella industriale se "cresce", cioè circola con le sue forze e quelle dei suoi lettori "reali", senza essere pompata da fertilizzanti chimici come l'annuncio a pagamento o da OGM come gli eserciti di bot macedoni.

Un post "pompato" dal pagamento di una quota a Facebook o Google è un atto di corruzione del canale comunicativo: pago il gestore del canale per assicurarmi un vantaggio competitivo sui miei avversari.

Ed esattamente come una pianta coltivata ad azoto, o una mucca allevata a resti di ossa animali triturati, una comunicazione "pompata" è una comunicazione dalla salute fragile e "pazza", come la mucca che impazzisce se mangia ossa triturate di animali, che sì, la fanno crescere più in fretta, ma la fanno ammalare anche più in fretta.

Pagare per essere più visibili non è una pratica di comunicazione biologica e alla lunga genera solo danni ambientali, come i fertilizzanti e i pesticidi usati per far crescere più velocemente le piante, che poi ricadono sul bilancio dello stato e dei cittadini inquinando terreni e corsi d'acqua. Raggiungere tante persone solo perché abbiamo pagato per mettere il nostro messaggio di fronte ai loro occhi può nel lungo periodo avere effetti negativi sia su chi produce sia su chi consuma il messaggio:

1) fa male a chi produce perché insinua l'idea che un'idea o un messaggio, per farsi strada nella testa di qualcuno non debbano essere necessariamente di buona fattura ma basti semplicemente pagare un intermediario per posizionare la nostra idea di fronte agli occhi di chi vogliamo raggiungere;

2) fa male a chi la consuma perché genera assuefazione: a forza di ricevere messaggi sponsorizzati sparsi in mezzo alla timeline delle nostre bacheche social, ci distraiamo e ci assuefacciamo al flusso di messaggi. Io ormai appena vedo un messaggio sponsorizzato su Instagram, di qualunque natura esso sia, anche fosse Bernie Sanders che dice cose bellissime e giuste, lo salto a pié pari. Inoltre, un ambiente informativo troppo saturo di messaggi sponsorizzati mi fa perdere interesse per tutto l'ambiente informativo e credo che questo sia uno dei paradossi a cui devono far fronte i grandi conglomerati industriali dei social media contemporanei: il sistema finanziario sul quale sopravvivono li costringe alla crescita infinita di utenti (così come gli agricoltori sono costretti ad aumentare all'infinito la resa per ettaro dei loro campi), che genera a sua volta maggiori entrate pubblicitarie, ma l'aumento della pubblicità e più in generale del rumore di fondo all'interno dei social media contemporanei, porta gli utenti a disaffezionarsi e a consumare meno tempo all'interno del recinto di Facebook and co., e questo ha una ricaduta negativa sulla fiducia dei mercati azionari nelle potenzialità di crescita futura di Facebook. E se la fiducia dei mercati viene meno, anche le valutazioni delle azioni di Facebook traballano.

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21 SETTEMBRE 2018

 

 

 

 

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