Francesco Bellusci  
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MAGGIO 68, LA "RIVOLUZIONE SENZA RIVOLUZIONE"


Le metamorfosi della politica dall'azione al gesto



Francesco Bellusci


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Il 28 gennaio 1919, Max Weber entra nelle aule dell'università di Monaco di Baviera. Lo attende un pubblico di giovani e studenti irrequieti, impazienti, desiderosi di ispirarsi alla lezione del grande sociologo sul significato dell'agire politico, per ritrovare le ragioni dell'impegno civile e pubblico in una Germania, disorientata dalla sconfitta della guerra, che vive la difficile transizione alla repubblica federale, nella quale si è da pochi mesi incuneato, proprio a Monaco, l'esperimento rivoluzionario di una Repubblica Socialista Bavarese, in mano ai Socialisti Indipendenti, che, di lì a poco, sarebbe stato stroncato nel sangue dal Governo provvisorio nazionale. Weber, "scienziato di professione", ma ora coinvolto nell'agone politico tedesco dell'immediato dopoguerra, si muove su un crinale delicatissimo. Intende, da un lato, invitare quei giovani ad attingere nelle risorse dell'etica, delle convinzioni, dei valori, la tenacia e l'aspirazione all'impossibile(1) che devono contraddistinguere l'azione politica rispetto ad altre attività umane. Dall'altro, vuole richiamare alla necessità di subordinare queste risorse alla responsabilità, che impone la ricerca di scopi rapportati ai mezzi disponibili e alle conseguenze prevedibili. E a farlo, nell'immediato, in una Germania uscita stremata dalla guerra, dove il "prevedibile" insuccesso, appunto, di una rivoluzione comunista in Baviera avrebbe spalancato le porte alla rivalsa delle forze ostili alla democrazia parlamentare e al nuovo corso repubblicano (di fatto, sarà proprio nel clima reazionario di Monaco di Baviera che i nazisti avvieranno la loro funesta marcia politica). Weber è sorpreso dalla mancanza di senso di realtà di tanti giovani militanti, come il drammaturgo Ernst Toller, presente tra gli uditori della sua lezione, che prenderà parte nell'aprile dello stesso anno, come commissario per l'Armata rossa, alla radicalizzazione utopistica dell'esperimento rivoluzionario bavarese con la Repubblica Sovietica Bavarese e alla sua tragica conclusione.

Circa cinquant'anni dopo, nel marzo 1968, Edgar Morin è chiamato a supplire a Nanterre, alla Facoltà di sociologia, Henri Lefebvre, in partenza per la Cina. Qui, Morin incontra i giovani enragés del movimento "22 Marzo", che ha già occupato un'ala dell'università e tenta, seppure invano, di boicottare le sue lezioni. Incontra anche il loro leader Daniel Coh-Bendit, anarchico-libertario, lettore di Cornelius Castoriadis e della rivista di Socialisme ou Barbarie, che ha chiuso i battenti proprio l'anno prima, dopo varie defezioni interne al gruppo. Proprio su impulso di Castoriadis, l'elaborazione teorica della rivista tenta, nei suoi ultimi anni di vita, di uscire dalle secche limacciose della revisione critica del marxismo, riconvertendo l'idea di socialismo in quella di democrazia radicale, di autogestione, di superamento del clivage tra dirigenti ed esecutori, che caratterizza e aliena tanto le società capitalistiche dell'Ovest quanto le società socialiste dell'Est. Morin percepisce che c'è un fermento importante, un'esplosione imminente, e comincia a seguire con l'osservazione partecipante, diretta o mediata da altri collaboratori(2), la diastasi del movimento, che, dopo un prologo sotterraneo, incendierà il maggio francese con l'occupazione della Sorbona, le barricate, le manifestazioni e il contagio delle fabbriche. Una protesta violenta che paralizza il Paese, ma che si esaurisce alla fine del mese e, in quelli successivi, dà luogo a due cortocircuiti paradossali. Il primo: postosi all'inizio come l'occasione di una rivincita degli intellettuali come Castoriadis, Lefebvre, Lefort, Morin, Touraine, Sartre, che contro lo strutturalismo dominante negli anni sessanta avevano difeso il soggetto, la storia, la prassi, dissolti o opacizzati nell'invarianza anonima delle strutture epistemiche, sociali, linguistiche, il Maggio 68 finirà per aprire la strada a una riaffermazione trionfale dello strutturalismo e allo sdoganamento accademico dei suoi esponenti, nella misura in cui il movimento studentesco e giovanile prenderà di mira lo studio tradizionale di stampo umanistico ed esprimerà una sete di "scienza" che farà da viatico a questa riaffermazione, con due vedettes che si staglieranno sulle altre: Althusser e Lacan. Il secondo: fedele alla sua radice libertaria e comunitaria e pur inglobando giovani e gruppi di estrazione comunista, il movimento si rifiuterà di andare all'assalto del palazzo d'Inverno, condurrà la contestazione sospeso tra spontaneità e organizzazione, immaginazione e progetto, mentre i gruppi gauchiste (maoisti e trotzkisti) che hanno cercato di agirvi come parassiti, nei mesi successivi ne criticheranno la naïveté e si proporranno di porsi come l'avanguardia rivoluzionaria che gli studenti non erano stati in grado di adempiere, salvo poi, nei primi anni settanta, con il tramonto dell'illusione della palingenesi rivoluzionaria, rinfoltire i quadri del PCF e parzialmente del PS, ovvero proprio di quei partiti della sinistra ufficiale che si sono mostrati ostili e sospettosi, durante le giornate di maggio, nei confronti degli studenti e delle loro intenzioni di contagiare con la protesta le fabbriche.

Edgar Morin è nella posizione ideale per cogliere, al di là di questi cortocircuiti, gli aspetti nuovi e significativi del Maggio 68. Da alcuni anni sta proponendo contro la sociologia ufficiale, improntata ai metodi quantitativi del campionamento e del questionario, una sociologia più centrata sul fenomeno che sulla disciplina, più sull'evento che sulla variabile, più sulle crisi che sulle regolarità statistiche. Una sociologia per la quale l'evento perturbatore improvviso, la crisi virulenta, possono rivelarsi enzimi, acceleratori o inneschi di movimenti più profondi e durevoli e il Maggio 68 gli si presenta chiaramente, allora, come un'occasione imperdibile, un oggetto ideale per collaudare la sua proposta metodologica. Morin è il primo a individuare e a esplorare, nei suoi articoli su Le Monde e poi nei saggi scritti a distanza di dieci e vent'anni, le dimensioni più profonde del Maggio 68: la contestualizzazione in una corrente internazionale e globale della protesta, che parte dalla rivendicazione di una riforma dell'università e investe, a seconda dei contesti, il sistema politico o l'organizzazione economico-sociale, le regole e i valori della società adulta, cercando di trasformare la condizione di segregazione e marginalità giovanile in autarchie esistenziali (come nella controcultura californiana) o, come nel caso francese, nello spazio occupato e autogestito dell'università nella forma di una "Comune" studentesca; l'emergenza di una "classe" sociale giovanile e di una lotta di classe d'età, che si pone come l'anello debole della catena sociologica dove si concentrano, in modo virulento, i mali, i malesseri, le insoddisfazioni, le aspirazioni diffuse e latenti nella società "normale"; l'ambivalenza del movimento, fin dalla sua genesi a Nanterre, a causa delle motivazioni opposte che spingono alla contestazione i giovani studenti e gli operai, oscillanti tra il rifiuto della civiltà borghese e il desiderio di maggiore integrazione nella società del benessere; il Maggio 68 come breccia culturale (la metafora è mutuata dalle riflessioni di filosofia della storia di Walter Benjamin), che porta alla superficie un disagio che cova nell'intera società e fa da apripista alle questioni che si affermeranno nel dibattito pubblico e nell'agenda politica degli anni successivi (il problema ecologico, la riduzione degli armamenti nucleari, il tema della parità uomo-donna, l'emancipazione sessuale, i diritti civili).

Il merito storico fondamentale del Sessantotto appare, allora, quello di aver interrotto il destino delle gabbie d'acciaio, il corso fatale delle strutture sclerotiche, patriarcali e criptoautoritarie, che, a tutti i livelli, dalla famiglia all'università alle fabbriche, improntavano la società "ordinata" e borghese della produzione e del benessere, dentro la quale doversi rassegnare alla vita individuale di "specialisti senza spirito e gaudenti senza cuore"(3), icasticamente descritta nella famosa e pessimistica prognosi weberiana. È l'interruzione di questo decorso apparentemente trionfale e progressivo che pone l'Occidente di fronte alla sfida di conciliare benessere economico, coesione sociale e libertà politica, la "quadratura del cerchio" realizzata nei decenni successivi, che, a partire dalla metà degli anni Novanta, Ralph Dahrendorf vedrà minata dalle pressioni competitive della globalizzazione e dai modelli autoritari alternativi del mondo asiatico(4). E nella prospettiva della lunghissima durata e dell'"età del ferro planetaria" inaugurata dalla scoperta delle Americhe, il Maggio 68 è il grido di allarme di un'umanità che avverte di avere di fronte a sé non un futuro sempre più radioso, ma di andare verso la catastrofe (nucleare, ecologica, demografica), che prende coscienza della problematicità del progresso e della grande minaccia che incombe oggi sul pianeta: "l'alleanza fra due barbarie"(5) , quella della violenza dei massacri e delle guerre che proviene dal fondo arcaico della storia umana e quella della meccanizzazione della vita e della manipolazione mediatica che proviene dall'attuale civiltà tecno-industriale-burocratica. Sono, quindi, da considerare fuorvianti le letture del Maggio 68 (ad esempio di Régis Debray e di Gilles Lypovetsky(6)), circolate già a partire dal decimo anniversario e da allora ricorrenti, che vi hanno visto il "cavallo di Troia" del neocapitalismo o l'opera di un'"astuzia della ragione liberale", per abbattere gli ultimi ostacoli frapposti da una società ancora tradizionalista e sclerotizzata alla piena e acritica diffusione dell'ideologia della nuova società dei consumi. Non è il movimento del '68 a spalancare definitivamente le porte alla società dei consumi e al suo "vuoto" narcisistico, semmai è il "discorso del capitalista" (di lacaniana memoria) che ha saputo strumentalizzare e trasformare il desiderio di individuazione, di soggettivazione, di realizzazione di sé, espresso da quel movimento, in individualismo, l'edonismo dell'essere nell'edonismo dell'avere(7).

E tutto questo come lo fa il Maggio 68, come "agiscono" i suoi giovani ribelli? Come intuisce Morin, la loro è "una specie di rivoluzione (nel suo dinamismo) senza rivoluzione (nelle sue conseguenze)"(8), che, per motivi opposti e simmetrici, appare, dal punto di vista weberiano, altrettanto irresponsabile del progetto che anima i giovani rivoluzionari bavaresi come Tollers, per l'assenza di una capacità e volontà coerente di determinare e orientare l'azione su scopi rapportati ai mezzi disponibili, all'analisi delle forze proprie e antagoniste, al contesto di uno Stato moderno parlamentare e tecnico-burocratico. Anche le interpretazioni più benevole sul Sessantotto francese, ma anche italiano, finiscono per condividere lo stigma di un evento "impolitico" o fallito sul terreno politico (considerato, oltretutto, che nell'immediato innescò la restaurazione vittoriosa delle classi dirigenti conservatrici al potere), accompagnato, nel breve-medio periodo, secondo Roberto Esposito, addirittura da "una conseguenza suicida: da un lato la spoliticizzazione nel privato, dall'altro l'iperpoliticismo leninista, fuori tempo e fuori luogo, di una rivoluzione impossibile"(9). Indulgere in questo master frame sul Sessantotto, significa però perdere di vista proprio la novità politica che quel movimento introduceva nello scenario del Novecento, troppo spesso incrostata e occultata dal ricorso sterile e ridondante al lessico rivoluzionario tradizionale, in assenza di un linguaggio nuovo con cui esprimere le nuove aspirazioni di autonomia e di solidarietà, a cui però chiaramente alludeva, secondo Morin, il "metamarxismo" di quei giovani libertari come Daniel Cohn-Bendit. Come Morin, è Claude Lefort, sempre pochi mesi dopo l'evento, a cogliere il senso di quella "rivoluzione senza rivoluzione" addirittura come una maturazione dell'idea di rivoluzione, che non si presenta più secondo lo schema della conquista del potere da parte di senza-potere, che dopotutto è in nuce la definizione "realistica" di politica che Weber dava nella sua conferenza del 1919. Secondo Lefort, la crisi virulenta del Maggio 68 ci ricorda che "il Potere, in qualsiasi modo pretenda di dominare, troverà oppositori che non sono per questo pronti a installarne uno migliore"(10), che lì dove una società sta per cristallizzarsi in certe gerarchie interne, sta per rinchiudere le vite, le esistenze in queste gabbie, ci sarà sempre qualcuno che potrà agire per scompigliare i piani. E i giovani del 68 lo fanno senza anticipare un progetto alternativo di società buona, perfetta, organica, ma con un'azione tesa a riaprire la società al gusto del possibile. Più specificatamente, dovremmo forse parlare non di "azione" ma di "gesto", come fa Giorgio Agamben nel suo ultimo libro, ponendosi alla ricerca di un modello di attività umana che non sia quello basato sulla connessione mezzi-fini e imputabile a un soggetto, che finora, a suo dire, ha paralizzato la politica e l'etica dell'Occidente, ma quello che, sviluppando l'indicazione benjaminiana di una "politica dei mezzi puri", definisce come "un'attività o una potenza che consiste nel disattivare e rendere inoperose le opere umane e, in questo modo, le apre a un nuovo, possibile uso"(11). Agamben esemplifica questa modalità di azione con quella del danzatore o del mimo e così ci rimanda all'aspetto ludico e festoso del Maggio 68 su cui Edgar Morin concentrava la sua analisi del fenomeno(12): i giovani che "mimano" o "recitano" la rivoluzione con le barricate, provocano e si difendono dalla polizia come in un rito d'iniziazione alla vita adulta, ma senza proporsi mai la violenza come mezzo per fini giusti. E se, continuando l'esercizio delle "vite parallele", paragoniamo la vicenda di Daniel Cohn-Bendit, l'eroe del Maggio francese, che diventerà un animatore politico dei Verdi in Germania e un militante federalista europeo, al triste epilogo della vita del drammaturgo Ernst Toller, l'eroe della Repubblica Sovietica Bavarese, morto suicida nel 1939, esule negli Stati uniti, ci rendiamo conto di come il "gesto" del Sessantotto abbia tracciato per la generazione della contestazione giovanile sentieri politici più praticabili di quanto non sia accaduto per la velleitaria e generosa generazione dei giovani rivoluzionari tedeschi dell'immediato primo dopoguerra. Un gesto che, come ha ricordato di recente il filosofo francese Jean-Luc Nancy , si può riassumere anche come la domanda di più democrazia e di superamento delle inadeguatezze della democrazia a se stessa e alle sue promesse interne, che, nella seconda metà del Novecento, cessa di alimentare i movimenti "totalitari" della prima metà del secolo. Una domanda che può assopirsi, ma sempre latente e pronta a riemergere e riesplodere come accadde nella primavera di cinquant'anni fa.

 

Note
1) M. Weber, La scienza come professione. La politica come professione, Mondadori, Milano 2006, pp. 134-135
2) V. E. Morin, "Prefazione" a: Id., Maggio 68. La breccia, Raffaello Cortina editore, Milano 2018
3) M. Weber, Sociologia della religione. I. Protestantesimo e spirito del capitalismo, Edizioni di Comunità, Milano 2002 p. 187
4) R. Dahrendorf, La società riaperta. Dal crollo del muro alla guerra in Iraq, Laterza, Bari 2005, pp. 109-140
5) E. Morin, I miei filosofi, Erickson, Trento 2013, p. 94
6) V. E. Neveu, La memoria del Maggio '68 in Francia, in: D. della Porta (a cura di), Sessantotto. Passato e presente dell'anno ribelle, Feltrinelli, Milano 2018, p. 87
7) V. M. Revelli, 1968. La grande contestazione, in: AA. VV., Novecento italiano, Laterza, Bari 2008, p. 150
8) E. Morin, 1968: sociologia critica e sociologia criticata (auto interrogazione sociologica), in: Id., Sociologia del presente, Edizioni del Lavoro, Roma 1987, p.. 147
9) R. Esposito, "L'anno del testacoda", L'Espresso, 21 gennaio 2018, pp. 94-95
10) C. Lefort, Le désordre nouveau, in: E. Morin, C. Castoriadis, C. Lefort, Mai 68. La Brèche suivi de Vingt ans après, Fayard, Paris 1988, p. 81
11) G. Agamben, Karman. Breve trattato sull'azione, la colpa e il gesto, Bollati Boringhieri, Torino 2017, p. 138
12) V. E. Morin, Maggio 68. La breccia, op. cit. pp. 30-31

 

 

(Questo articolo è la sintesi dell'intervento tenuto nella Sala Ribaud del Comune di Formia, il 15 dicembre 2018, nell'ambito del sesto ciclo di incontri organizzato dall'Associazione Confronti)

 


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06 GENNAIO 2019