Alessandro Cavalli  
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RICORDO DI ALESSANDRO PIZZORNO


Il suo insegnamento resta un indispensabili punto di riferimento



Alessandro Cavalli


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Quando muore una persona della levatura di Sandro Pizzorno si usa dire che "è una grave perdita per la cultura italiana e non solo". È vero, se Sandro fosse vissuto ancora un poco, avrebbe forse finito il libro su Hobbes al quale aveva lavorato negli ultimi anni. Quello che avrebbe ancora potuto darci lo abbiamo effettivamente perduto. Però nessuno ci potrà sottrarre quello che ci ha lasciato e anzi sarà nostro compito che anche le generazioni di studiosi presenti e future possano attingere al grande patrimonio della sua, non sterminata, ma densissima produzione scientifica. Per una generazione di ricercatori sociali venuta subito dopo quella dei rifondatori della sociologia italiana nel dopoguerra, alla quale appartengo, Sandro Pizzorno è sicuramente stato un indispensabili punto di riferimento.

Noi che abbiamo avuto il privilegio di conoscerlo, e alcuni anche di lavorare con lui, conserviamo il ricordo di tanti incontri e conversazioni dai quali uscivano sempre con la consapevolezza di aver imparato qualcosa in più, sia dalle sue risposte alle nostre domande, ma anche dalle sue domande sui lavori che stavamo facendo. Pizzorno era curioso del nostro lavoro e sapeva ascoltare e soprattutto faceva domande che aprivano prospettive alle quale non avevamo pensato.

Tra le varie occasioni, ricordo un incontro con alcuni allievi della Scuola Superiore di Sociologia di Milano nel 1967 o 68 in cui Pizzorno cercava di far ragionare coloro che assumevano posizioni estreme, suggerendo che non è necessario avere la certezza di non avere nessuno alla propria sinistra, come i bambini che non riescono a dormire se non abbracciano il proprio orsacchiotto, o la coperta di Linus. Ritrovo in questo frammento di ricordo una serie di elementi del ragionare teorico di Sandro, soprattutto il suo concetto di identità e di riconoscimento al centro di quella straordinaria raccolta di saggi che è Il velo della diversità (2007). Il non voler avere nessuno alla propria sinistra non è solo un bisogno infantile, ma la volontà di collocarsi in uno spazio relazionale dove non si da la possibilità di mediazione.

C'è un altro ricordo che affiora. Un giorno presentai a Sandro le mie perplessità sulle conclusioni del suo saggio, peraltro assolutamente magistrale, in cui smontava con analitica precisione la tesi di Banfield sul "familismo amorale"(Familismo amorale e marginalità storica ovvero perché non c'è niente da fare a Montegrano (1967), sostenendo che, nelle condizioni di un villaggio meridionale del secondo dopoguerra, l'agire degli abitanti di Montegrano, e cioè il perseguimento dell'interesse di breve termine della propria famiglia, era perfettamente razionale. Il tema della razionalità, soprattutto la critica al tentativo di costruire su di esso l'impianto della teoria sociale, sarà una costante del pensiero di Pizzorno fino alla fine, ma resto convinto che se avesse voluto riscrivere quel saggio alla luce delle sue riflessioni successive avrebbe forse cambiato qualcosa delle conclusioni.

Per dimostrare l'originalità del suo pensiero basta pensare al saggio "sulla maschera" scritto all'inizio degli anni '50, forse senza aver letto Simmel, ma sicuramente senza aver letto il Goffman della vita quotidiana come rappresentazione, di qualche anno posteriore, ma avendo certamente letto Pirandello che aveva anticipato sia Simmel che Goffman.

Vorrei infine citare un altro episodio significativo. Eravamo un gruppo di giovani sociologi appena reduci da un bagno di formazione americano e ci accingevamo a collaborare alla Scuola, già citata prima, di cui Sandro è stato per un periodo direttore. Prendendo un po' in giro ironicamente la nostra aria americana ci invitò a seguire il seguente comandamento: "Now thau shalt study your own society". Guardatevi intorno e studiate quello che osservate. Sandro Pizzorno non è stato solo un costruttore di teorie ma un attento ricercatore empirico, solo che per lui, come dovrebbe essere, la ricerca empirica non deve solo descrivere, ma rispondere a domande che vengono dalla teoria. La ricerca, questo era il suo insegnamento, deve rispondere sempre alla domanda "È vero che …?", non ci sono risposte senza domande. Le sue ricerche dalla prima a Rescaldina, sulle trasformazioni indotte dall'industrializzazione (Comunità e razionalizzazione, 1960), alle indagini sulle lotte operaie (Lotte operaie e sindacato in Italia, 1968-1972), all'indagine sulla corruzione (Lo scambio occulto,1992, con Donatella Della Porta), sono tutte indagini che nascono da un interrogativo teorico, non hanno intenti normativi o politici, ma sono fatte in modo da poter essere lette anche da chi volesse utilizzarle per fini non conoscitivi. Per Pizzorno, come per Weber, scienziati sociali e attori politici possono, anzi forse devono, interagire, ma mantenendo distinti i loro ruoli reciproci.

Pizzorno era un intellettuale che non amava esporsi, vorrei dire, esibirsi come maitre à penser, rifuggiva dalle mode e dalle ribalte mediatiche, il suo luogo naturale erano le università (ha insegnato a Teheran, a Milano, ad Ancona, a Oxford, ad Harvard e, infine, all'Istituto Universitario Europeo di Firenze). Il suo insegnamento e il suo stile non scompaiono con la sua morte.

 


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09 APRILE 2019