Lodovico Meneghetti  
  casa-della-cultura-milano      
   
 

POTEVA ESSERE RIVOLUZIONE?


Nel libro di Cesare Bermani il racconto di un'occasione perduta



Lodovico Meneghetti


altri contributi:



  ludovico-meneghetti-poteva-essere-rivoluzione.jpg




 

Ero alla festa in piazza Duomo, settantaquattresimo anniversario della Liberazione. Sentivo quanto valesse stare lì, nella Milano luogo topico della Resistenza, dell'antifascismo. Pensavo che non lo fosse stata meno Novara, la mia città natale. Anzi. Le battaglie del '43-'45 nelle valli dell'Ossola e in Valsesia appartengono alla storia più intensa della guerra partigiana. Temo che si sia perso il ricordo della repubblica indipendente dell'Ossola instaurata dalle formazioni "ribelli" nel cuore del dominio tedesco e fascista (10 settembre-23 ottobre 1944). Presidente fu Ettore Tebaldi, socialista, una delle figure eminenti di un partito che in seguito per un tempo troppo breve riuscirà a indirizzare insieme ai comunisti la lotta di classe degli operai e di altri lavoratori subalterni.

Il comune di Novara e il Novarese, noti come "provincia rossa" dal primo dopoguerra quando nelle elezioni del 1921 le sinistre raccolsero il 54 per cento dei voti, furono teatro delle vicende storiche d'Italia in tre passaggi. Del primo, anche gli scolari conoscono il momento principale: la battaglia del 23 marzo 1849, la sconfitta inflitta dall'esercito austriaco ai piemontesi presso il borgo della Bicocca a sud del capoluogo, l'armistizio firmato dal re Carlo Alberto in una cascina di Vignale davanti al maresciallo Radetzky. Pochi invece conoscono l'appassionata adesione dei cittadini ai moti rivoluzionari nazionali tra il 1848 e il 1849. Il terzo in ordine di data, indimenticabile, appunto la lotta armata contro i nazisti e i fascisti dopo il settembre 1943. Il secondo, quasi sconosciuto, la guerra civile tra fascismo e classe operaia nel luglio 1922, oggetto di questo libro straordinario di Cesare Bermani, La battaglia di Novara. 9-24 luglio 1922. L'ultima occasione di una rivolta antifascista (DeriveApprodi, 2010), che risolve in noi milanesi di adozione colpevoli vuoti culturali, ma nel contempo suscita una sensazione quasi di fierezza per essere vecchi novaresi, di nascita e tradizioni familiari. Si ridesta e risalta il ricordo dei luoghi delle battaglie, dei loro nomi: oltre a Novara, centro del territorio coinvolto, comuni e frazioni circostanti, Casalino, Lumellogno, Granozzo, Nibbiola, Trecate, Romentino… Barengo sotto la collina…, e i borghi urbani ubicati oltre i resti delle mura spagnole (i "Baluardi"), Sant'Andrea, Sant'Agabio, San Rocco…

Cesare Bermani dimostra che l'esplosione della violenza fascista fu concertata, eppure gli operai e i salariati agricoli non cedettero alla sorpresa e risposero colpo su colpo. Alla violenza fascista, intanto, se ne affiancava un'altra, quella delle guardie regie. Benché non colpevoli di delitti altrettanto gravi verso i manifestanti e gli scioperanti, si schierarono in favore delle bande di camicie nere e ostacolarono o bloccarono le controffensive proletarie che pur si trovavano dalla parte della legalità nazionale malamente rappresentata dalle forze di sicurezza. Come spesso negli eventi relativi a guerre, battaglie, invasioni, stermini scattò un pretesto, ossia un'auspicata ragione delle aggressioni fasciste, ben presto diventate feroce organizzazione di assalti prima ai luoghi della socializzazione, della resistenza e del contrattacco operaio, specie i Circoli e la Camera del Lavoro, poi alle sedi delle istituzioni democratiche, come i municipi se governati dai rossi. Il pretesto fu l'uccisione il 9 luglio 1922 a Casalino (piccolo comune agricolo a una dozzina di chilometri dal capoluogo in direzione di Vercelli) di un giovane, Angelo Ridoni, fascista e squadrista. Di qui comincerà quella che Bermani ha voluto chiamare "battaglia di Novara" intendendola reductio ad unum di molteplici scontri nelle due settimane dal 9 al 24 luglio, durante le quali si fronteggeranno la barbarie fascista e l'eroica arditezza proletaria, socialcomunista. A cominciare dagli scontri durissimi di Lumellogno (frazione del comune di Novara fra la città e Casalino), durante i quali si ebbero sei morti e sette feriti tra i proletari, un morto e quattro feriti tra i fascisti, si combatterono battaglie così numerose nei centri della campagna e all'interno della città che sarebbe possibile parlare di un'altra guerra (dopo la grande guerra patriottica), quella degli antifascisti novaresi contro i distruttori della debole democrazia: forse unico presupposto obbligato, vincendola, per evitare al paese la caduta nel gorgo della dittatura reazionaria e criminosa che lo porterà alla rovina.

Forse: giacché il nodo della contesa storico-politica è questo: se, da un punto di vista della sinistra, la battaglia di Novara fu un'avventura già segnata prima dal destino che ebbe, oppure - è la posizione dell'autore, la stessa che tenne allora "l'Ordine Nuovo" - fu la grande occasione mancata per estendere la lotta all'intero paese, quantomeno alle città e alle regioni che ne costituivano il cardine sociale, economico, culturale rappresentato soprattutto dalla forza della classe operaia organizzata socialmente e politicamente. Questa possibilità, secondo l'analisi di Bermani, avrebbe potuto verificarsi solo grazie a una credibile gestione della crisi politica nazionale, a una forte consapevolezza politica dell'Alleanza del Lavoro, alla fiducia dei gruppi dirigenti della sinistra. Al contrario, prevalse la diffidente debolezza dei socialisti riformisti sia a Roma sia a Novara (d'altronde il loro ideale negava la rivoluzione), a costoro importava soprattutto la caduta del governo Facta; vinse, congiuntamente, la timorosa oscillazione di comportamento dell'Alleanza del Lavoro che non seppe o non volle decidere al momento giusto lo sciopero generale a sostegno degli scioperanti di Piemonte e di Lombardia. Infatti, lo decretò solo il 31 luglio, cioè a battaglia di Novara chiusa da oltre una settimana sulle macerie dei Circoli operai, della Camera del Lavoro, dei municipi e sui corpi dei compagni caduti.

"Un libro di storia non è un romanzo. […] la storia è racconto ma lo è di fatti documentati e non ricostruiti con la fantasia, bensì con rigorosi strumenti di accertamento della verità". Così l'autore nell'Introduzione (p.7). Lo storico del movimento operaio e del mondo popolare, vocato alla ricerca tenace delle fonti, al loro utilizzo scrupoloso, a non trascurare alcun indizio, inoltre a raccogliere personalmente i resoconti orali dei testimoni dei fatti, ci dà con questo volume una prova indubitabile della sua tesi. Il racconto è costruito facendo intervenire direttamente i documenti, fra i quali, autentica preziosità, le storie in dialetto novarese di persone presenti agli avvenimenti (si ricordi la data della prima edizione, 1972), con traduzione in appendice, e concatenandoli con propri passaggi come fossero spinte in avanti della narrazione.

Bermani lo ascoltiamo come fosse un direttore che orchestra diverse partiture e le rende coerenti con propri tocchi d'autore. Che infine nelle conclusioni, come nella ripresa dopo l'esposizione e lo sviluppo (per proseguire con la metafora musicale), conferma in risoluta chiarezza la propria convinzione circa l'occasione perduta di una possibile ricacciata dei fascisti. Prevalse, scrive, "l'incapacità dei dirigenti socialisti riformisti, abbagliati dall'ottica parlamentare, di dare [nel momento dei fatti di Novara] un'analisi corretta della situazione […], di coglierne gli aspetti nuovi. […]. Sfuggiva ai riformisti che le cose erano cambiate, che la lotta ormai non poteva che essere condotta fronteggiando il fascismo nel paese" (pp. 225-226).

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

31 MAGGIO 2019