Stefano Rota  
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IL TEMPO DEI MIGRANTI


“Vedevo tutto bianco”: conversazione con Ahmad Ejaz



Stefano Rota


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La prima fase dell’età delle migrazioni in Italia prende avvio con i grandi cambiamenti nelle politiche migratorie nei paesi che storicamente avevano rappresentato la meta privilegiata dei flussi verso l’Europa, favorendo lo spostamento delle rotte di questi verso i paesi dell’area del Mediterraneo, Italia e Spagna in primo luogo. E’ un processo che inizia verso la metà degli anni Settanta, ma che assume dimensioni abbastanza significative solo nel decennio successivo. In quel periodo, i flussi migratori rappresentavano un fenomeno socio-politico e culturale di importanza relativa e non percepita come problematica, sia per la loro ancora scarsa consistenza e visibilità, sia per la fase alta di congiuntura economica che nei migranti trovava una nuova e importante linfa, soprattutto in alcune aree del paese e in settori economici emergenti.

La ridotta presenza di persone provenienti da paesi del sud del pianeta, unita alla totale assenza dei mezzi di comunicazione maggiormente utilizzati oggi, fanno si che, in larghissima parte, chi arrivava in Italia in quegli anni si trovasse di fronte una realtà totalmente sconosciuta. Per contro, chi arriva oggi, o comunque nel corso del nuovo secolo, ha ricevuto immagini, descrizioni, filmati, racconti di chi è già qui o di chi è rientrato, temporaneamente o no, al proprio paese. Capita spesso, parlando con migranti arrivati in tempi recenti, di sentirsi dire “quando sono arrivato, avevo l’impressione di esserci già stato qui”.

I cittadini stranieri che arrivavano in Italia in quel periodo incontrano un paese non abituato a confrontarsi con il fenomeno migratorio, ma, nelle situazioni più critiche, trovano il sostegno di pezzi della società civile, che dimostrano di capire, con un decennio di anticipo rispetto ad altri, che quello che si presenta è tutt’altro che un fenomeno marginale, ma, semmai, la conseguenza più evidente di quale fosse la direzione che il modello produttivo globale stava assumendo.

 

Vedevo tutto bianco”: conversazione con Ahmad Ejaz

Marzo 2015

Ejaz è un cittadino italiano di origine pakistana. Arriva in Italia nella seconda metà dell’89, insieme ad altre centinaia di cittadini provenienti dal subcontinente indiano, che costituiscono, di fatto, il primo nucleo della adesso molto folta comunità che unisce i cittadini di India, Bangladesh e Pakistan a Roma.

E’ da questo gruppo di migranti che nasce, con il sostegno del movimento della Pantera e di altri settori del panorama socio-politico romano, l’occupazione della Pantanella, sempre nel 1990, “il primo centro di accoglienza creato dalla società civile romana”, come lo definisce lo stesso Ejaz. Ma è stato anche un laboratorio politico e sociale importante, dove per la prima volta veniva alla luce il carattere centrale della soggettività migrante rispetto alla forma globale che gli eventi internazionali di quell’anno davano a intendere avrebbe preso il modello produttivo dominante.

Il passo di donna

Prova a raccontarmi le tue impressioni, quelle che ti si sono maggiormente impresse nella memoria, dei tuoi primi mesi in Italia.

Ejaz: Stavo sempre a Termini e vedevo questa folla di persone, romani, turisti, le ragazze vestite in questo modo, con le minigonne, vedere le gambe delle donne, la faccia, era per me era tutto strano. Su gli autobus erano tutti bianchi. Io vedevo tutto bianco. Vedevo questa popolazione che correva, per andare a lavorare e per tornare, con un modo di camminare che era diverso. Non vedevo quella gerarchia a cui ero abituato in Pakistan; era tutto nuovo, mischiato. Le donne che camminavano come gli uomini, non come le donne che avevo visto camminare con il passo da donna, che fumavano.

Com’è il passo da donna?

Ejaz: Le donne camminano in Pakistan come donne, gli uomini hanno una loro camminata, le donne anche e sono due camminate diverse. Qui no, tutti camminano allo stesso modo, perché devono correre. Anche le parolacce qui sono uguali, mentre da noi esistono le parolacce degli uomini e quelle delle donne. Tutto il linguaggio in generale è separato in Pakistan, qui è mischiato. La cosa che mi ha colpito è che Valentina e i suoi amici si baciavano sulla guancia: in Pakistan, se baci una donna su una guancia, è un atto osceno e la galera è da sei mesi a due anni. Qui, quando ti parla una donna, ti guarda; in Pakistan, no, non ti guarda quando ti parla, così come fanno anche i bambini con i grandi. Ti insegnano a scuola che non devi guardare il tuo interlocutore. Per gli occidentali è obbligatorio guardare l’altro negli occhi. Quando ho cominciato a lavorare come mediatore, i bambini pakistani si lamentavano che la maestra gli diceva: guardami quando ti parlo, mentre noi diciamo al bambino: non mi guardare quando io parlo. Anche la gestualità, la distanza che si tiene quando di parla è tutto diverso.

Cibo per animali e abbronzatura

Immagino che ci fossero aspetti che delle vita che ti ruotava intorno che trovavi buffi, ridicoli nella loro incomprensibilità. A me, ad esempio, è successo di notarne quando arrivai in Mozambico. Cose che dopo un po’ non ci fai più caso.

Ejaz: Certo che ce ne sono! Quando ho cominciato a lavorare in un magazzino Bologna, la cosa più strana per me era vedere una corsia intera di cibo per gli animali. Venivo da un paese dove il cibo era importantissimo e tutto quel cibo era solo per cani e gatti. E io dovevo lavorare lì! Quando lo raccontavo ai miei amici, non ci credevano.

Un giorno ho conosciuto una persona che ha speso quattro milioni di lire per il funerale del gatto. Quando ne ho parlato sul mio giornale, l’ho spiegato dicendo che qui non fanno figli e che quindi nasce un rapporto con l’animale molto diverso, lo portano dal dottore, sono preoccupati per la loro salute, lo lavano con lo shampoo, gli danno cibi prelibati. Per me tutto questo era incomprensibile.

L’altra cosa che mi ha colpito molto degli italiani è che quando è arrivato luglio, nei fine settimana la città era vuota. Ma dove sono andati tutti? Peggio ad agosto! Allora sono andato con un mio amico con il quale vendevamo braccialetti, collane indiane, a Ostia. Stavano tutti lì! Ho chiesto al mio amico: cosa fanno qui? Mi ha risposto: stanno seduti davanti al sole, tutto il giorno, guardano il sole. Io non ci credevo; pensavo: staranno qui un’ora e poi se ne vanno. Invece no: due, tre, quattro ore, andavano a pranzare e tornavano. Non riuscivo a capire come potesse essere possibile. Noi, se possiamo, scappiamo dal sole, odiamo stare al sole. Per noi, una bella giornata è quando piove. Ci sono molte canzoni legate alla pioggia dei monsoni, la pioggia è un dono di dio. Gli italiani, all’inizio, quando mi dicevano: che bella giornata! Io guardavo fuori e c’era il sole. Ancora adesso un mio amico mi chiama da Lahore e mi dice: oggi è una bella giornata, sta piovendo. I poeti parlano della pioggerella nelle loro poesie romantiche, nei film di Bolliwood, fanno la pioggia finta nelle scene più toccanti.

“Io” e “gruppo”

Col passare del tempo, conoscendo le persone, hai notato altri aspetti della vita in Italia che ti risultavano in qualche modo estranei?

Ejaz: Sì, c’erano cose che vedevo e rifiutavo, come ad esempio il concetto di anziano che esiste qui. L’abbandono degli anziani, all’interno di un sistema familiare, fatto comunque di poche persone, tre quattro persone al massimo. Da noi, ci sono sempre nipoti, vicini di casa, le case stesse sono fatte in modo diverso, sono sempre aperte agli ospiti. La nostra identità culturale è basata sul gruppo, a differenza di un’identità culturale basata sull’individuo in Europa, che rende difficile la gestione dei rapporti. Da dove vengo, “io” era poco rilevante. Qui, “io” è “me”. Io, che ho una data di nascita. Per noi la data di nascita non è obbligatoria.

Cosa c’è sul documento d’identità?

Ejaz: Abbiamo il nome e il nome del padre; noi non abbiamo il cognome. Lo inventiamo per prendere il permesso di soggiorno. Dal nome del padre e dal nome nostro, peschiamo un nome e lo mettiamo come cognome. Anch’io ho messo Ahmad come nome ed Ejaz come cognome, perché non potevo dare il nome di mio padre, è troppo lungo. Il nostro cognome, di indiani, bangladesi, pakistani, è un’invenzione, che abbiamo tirato fuori da quello che c’è scritto sul passaporto. Uguale per la data di nascita: per noi non è importante. All’inizio avevamo 00/00 e l’anno sul passaporto, ma il computer italiano non lo accettava, quindi le ambasciate dicevano di mettere 1° gennaio, per non far perdere tempo all’impiegato. Adesso ci sono decine di migliaia di persone nate il 1° gennaio. La data di nascita non è importante, perché non è importante l’individuo. Pensa a un Pakistano, bangladese che lavora 10 ore al giorno, non vive per sé: alla fine del mese, manda tutti i soldi a casa della famiglia. Questi soldi, 500-600 euro, la madre li riceve e li divide tra altre dieci persone, che sono figli, cugini, le donne di casa. Noi siamo contenti così.

Un’altra responsabilità nostra è che dobbiamo fare sposare le sorelle, le figlie. Questo comporta una spesa di 10-20.000 euro. Lo stesso vale per mandare un figlio in occidente: è un percorso che, passando dall’Iran, la Turchia, può durare da sei mesi a due anni, con un costo di 10-15.000 euro. Quindi la famiglia deve vendere il negozio, la casa, si riempie di debiti, ma è una responsabilità collettiva.

Tempi di vita e tè freddo

Una cosa che mi aveva colpito molto in Mozambico è una totale differenza del concetto di tempo. Le persone aspettavano un pullman anche un giorno intero, andavano in un ufficio e dormivano, perché sapevano che la loro attesa poteva essere molto lunga. Hai notato anche tu questa differenza?

Ejaz: Parlare con te di queste cose è facile, perché sai esattamente cosa significano. Quello che dici è anche il mio vissuto, ma quello che mi ha colpito qui è il concetto di tempo libero. In occidente è molto sentito: le ore di lavoro, le attività extra-lavorative, le ferie. Per noi è tutto diverso: i negozi stanno aperti girono e notte. Anche qui, un commerciante, se ha avuto il permesso per stare aperto dalle otto di mattina a mezzanotte, sta sempre aperto in quell’orario. Quando sono arrivato, vedevo che tutti i commercianti chiudevano a pranzo e riaprivano alle quattro di pomeriggio. Un concetto di tempo libero che non capivo.

Noi abbiamo un grande rapporto con il tè, da noi non esiste il caffè. Il chai col latte è molto importante quando arrivano gli ospiti. Deve essere bollente, perché chiacchieri e bevi, piano piano. E’ importante che sia bollente perché devi avere il tempo di bere il tè e chiacchierare con gli altri. Il vostro caffè al bar è ordinato, preparato e bevuto in un minuto e mezzo, addirittura in piedi, per fare prima. Per noi, invece, ha un significato completamente differente. Questo è legato al nostro concetto di tempo: un film dura tre ore, un matrimonio sette giorni, l’autobus parte solo quando è pieno. Se poi è Ramadan, all’ora della preghiera, non parte perché prima c’è la preghiera.

Un giorno, era estate, un mio amico mi ha detto: vuoi un tè? Io gli detto sì. Mi porta questo bicchiere, che io ho bevuto, e mi sono detto: adesso, dopo questa bevanda fredda, arriverà il tè. Il mio amico mi ha detto: quello è il tè, il tè freddo. Io sono rimasto un po’ incredulo, perché per me il tè è solo caldo, bollente.

Direi che la differenza principale tra i nostri concetti di tempo è tra un’idea del tempo verticale, il vostro, proiettato nel futuro, e un’idea circolare, la nostra, che dà importanza al presente...

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22 GENNAIO 2016

 

 

 

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