G. Albanese, Il fascismo italiano. Storia e interpretazioni"/> G. Albanese, Il fascismo italiano. Storia e interpretazioni">
   
  casa-della-cultura-milano      
   
 

DISCORSO SUL FASCISMO


G. Albanese, Il fascismo italiano. Storia e interpretazioni






altri contributi:



  gianfranco-pasquino-fascismo-italiano-albanese.jpg




 

Giulia Albanese (a cura di), Il fascismo italiano. Storia e interpretazioni, Roma, Carocci, 2021, pp. 427.
ISBN 978-88-290-0924-4

 

Il fascismo continua a insegnare qualcosa su di noi e su una molteplicità di fenomeni politici. Il tempo passa non inutilmente se gli studiosi si confrontano con nuove informazioni e interpretazioni e i cittadini, non solo italiani, acquisiscono maggiore consapevolezza della loro storia. Che, poi, vogliano ripeterla o evitarla è, naturalmente, e rimane una loro scelta. Un dato, comunque, è sicuro e accertato: i libri e le ricerche sul fascismo occupano spazi enormi in tutte le biblioteche del mondo e attraggono un interesse che non cessa. I saggi raccolti e curati da Giulia Albanese, Il fascismo italiano. Scritti e interpretazioni, Roma, Carocci, 2021, costituiscono un ottimo esempio di quel che si continua a “scoprire” e sono accompagnati dalle indicazioni di quello che sarebbe utile indagare e approfondire.

Organizzerò la mia discussione intorno a tre semplici, ma essenziali, nuclei di domande e problemi: gli antecedenti, il ventennio, le conseguenze. I saggi dei collaboratori di Albanese mi sono apparsi particolarmente efficaci nel collegare alcuni aspetti del fascismo agli antecedenti, meno alle conseguenze. Giustissimo, ad esempio, ricordare che di violenza politica ce n’erano già stati numerosi casi nell’Italia post-risorgimentale, ma lo squadrismo fascista è fenomeno non solo quantitativamente, ma qualitativamente diverso in quanto prescelto e attuato in maniera deliberata e programmatica. Comunque, un po’ dappertutto in Europa il post-prima guerra mondiale e il post-rivoluzione sovietica ha visto un’impennata della violenza politica. Non esistevano allora predicatori di mitezza, ma molti cantori di purificatrici bagni di sangue. Anche le avventure coloniali, intese come civilizzatrici oltre che necessarie per un popolo che aveva bisogno di lavoro implicavano il ricorso alla violenza educativa: “per imporre le nostre idee ai cervelli, dovevamo a suon di randellate toccare i crani refrattari” (frase di Mussolini citata da Matteo Millan, p. 40) e molteplici altre nefandezze che continuano a meritare di essere evidenziate e condannate. La malattia dell’antisemitismo era diffusa in tutti i paesi europei, ma la sua estensione e la sua intensità hanno fatto molta differenza. L’Italia era fra i paesi meno contagiati e infettati. Sarebbe il caso di esplorare più in profondità l’antisemitismo strutturale dei vertici del cattolicesimo italiano nei confronti di coloro che venivano ritenuti colpevoli di avere ucciso il figlio di Dio. Infine, non era stato fatto abbastanza per riempire di contenuti politici e culturali la democratizzazione alla quale Giovanni Giolitti aveva dato una spinta notevole. Non poteva bastare cercare pazientemente di confezionare con abilità un abito adatto allo storpio. Era decisivo insegnare qualche postura adeguata, un po’ di ginnastica, stretching e altro. Fra gli antecedenti collocherei anche un’integrazione imperfetta degli italiani nel loro contesto geografico e culturale. Oggi parliamo di “coesione sociale”. Allora, il Regno d’Italia certamente non era “coeso”, forse l’aggettivo più preciso è squilibrato. La storia la si scrive con riferimento ai documenti e ai fatti di cui si dispone, ma non è sbagliato, anzi, può essere più che istruttivo, interrogarsi sulle alternative praticabili. Insomma, non entrare in guerra avrebbe consentito all’Italia e agli italiani di proseguire lungo la difficile democratizzazione.

Il culmine dell’impatto degli antecedenti a favore del fascismo fu espresso nell’interpretazione di Piero Gobetti che ho sempre considerato suggestiva e la più vicina alle mie convinzioni: il fascismo come autobiografia della nazione. Nel tempo, sono, però, giunto a ritenere eccessivo l’elemento di determinismo presente in questa interpretazione. L’autobiografia della nazione conteneva la possibilità di uno sbocco fascista, non la sua ineluttabilità. Mi sono anche convinto che il problema dell’autobiografia della nazione è stato che le mani che la scrissero, in particolare, dopo il 1918-19, furono quelle di élite istituzionali e burocratiche piuttosto che politiche, che la democratizzazione la subivano e la consideravano pericolosa per i loro interessi, personali e di gruppo/ceto, ma anche per loro visione di Italia. Sintetizzo le mie riflessioni concludendo che il fascismo era/fu una componente importante, ma non totalmente assorbente, dell’autobiografia dell’Italian democracy in the making (secondo il titolo di un importante libro di William Salomone, 1949). Qui è il punto più giusto per formulare una generalizzazione che ritengo particolarmente importante riguardo le eventualità di crisi, declino, crollo, morte delle democrazie. Fermo restando che è necessario procedere ad una verifica la più estesa e la più approfondita possibile, la generalizzazione che ritengo più plausibile e maggiormente dotata di potere predittivo è che le élite, istituzionali, economiche, politiche sono responsabili della “morte” delle democrazie ancora più di quanto siano/possano essere responsabili della loro nascita, comparsa, funzionamento, durata. Mussolini godette e sfruttò abilmente la connivenza delle élite che pensavano di utilizzarlo, manovrarlo, addomesticarlo.

L’espressione maggiormente ricorrente in tutti i capitoli del libro è “totalitario”. Non ricordo di avere visto l’aggettivo autoritario riferito al fascismo. Qui si colloca il mio dissenso concettuale e politico profondo. Molto apprezzabile rimane la distinzione effettuata da Renzo De Felice fra fascismo-movimento e fascismo-regime, mentre molto discutibile è che il regime meriti di essere definito totalitario. Valeria Deplano annuncia una “svolta verso lo Stato totalitario” (p. 53) a partire dal 1925-26. Questa svolta non portò mai alla costruzione di uno Stato totalitario. Né Mussolini né, tantomeno, il Partito Nazionale Fascista acquisirono mai il controllo totale e assoluto sulla società italiana e sulle altre istituzioni/organizzazioni come stava avvenendo in Unione Sovietica, come sarebbe avvenuto nella Germania di Hitler, come è successo nella Cina da Mao a Xi Jin-ping. Il dubbio dovrebbe forse essere venuto anche a Alessio Gagliardi che, discutendo molto abilmente di “Propaganda, mass media e cultura di massa”, scopre una dimensione che “ben poco si accordava con il modo di essere della dittatura: è probabilmente per questo che non riscontriamo dinamiche analoghe negli altri Stati totalitari” (p. 274). Che, invece, il mancato riscontro dipenda proprio dal fatto che il fascismo non assurse mai a totalitarismo? Vado di corsa. La monarchia sabauda continuò. Le Forze Armate non furono mai “fascistizzate”. La Chiesa ottenne e mantenne privilegi tanto che, grazie alle sue organizzazioni, educò la classe dirigente democristiana. Gli industriali non si fecero dettare la linea dal fascismo. Infine, sua Eccellenza il Cavalier Benito Mussolini fu semplicemente dimissionato dal Re e, invece, del caos che segue il crollo di un regime totalitario, iniziò una transizione non predestinata ad un nuovo regime. Insomma, come il grande studioso spagnolo Juan Linz (qui mai citato) scrisse in maniera originale e convincente il fascismo italiano, allo stesso modo del franchismo, fu un caso di pluralismo limitato, non competitivo, non responsabile, dunque: autoritarismo non totalitarismo a sua volta caratterizzato da monopolio del potere, nessuna competizione, totale discrezionalità/arbitrarietà. Cruciale, poi, è rendersi conto e rendere conto della transizione dall’autoritarismo alla democrazia facilitata dalle organizzazioni che avevano preservato una loro autonomia, fenomeno che non ha mai luogo nei regimi totalitari. Anche per questo è imperativo confrontarsi con Linz operazione che già in partenza servirebbe ad arricchire e modificare l’analisi di Ilaria Pavan.

Nei regimi totalitari il privato viene travolto schiacciato eliminato dallo Stato. Nonostante effettivi tentativi in questo senso nel fascismo non vi fu la totale scomparsa del privato (suggestive le riflessioni di Joshua Arthurs). Peraltro, contrariamente a quello che scrive Deplano, neppure dopo la conquista dell’Impero il fascismo riuscì a occupare “tutti gli ambi della vita pubblica e privata dei cittadini” (p. 46). Gli mancò la tecnologia necessaria, ma non ebbe neppure le risorse politiche e culturale adeguate e sufficienti. Aggiungo che lo stesso modo di vivere degli italiani, i loro sentimenti verso le autorità, la loro dispersione geografica e sociale li rendevano refrattari ad un controllo che non poteva essere capillare come si desume dal capitolo di Roberta Pergher. Per l’uomo nuovo fascista non bastarono né i distintivi né il voi invece del lei né il saluto “igienico”, come un nostalgico dei nostri tempi pandemici ha definito, eseguendolo, il saluto fascista. L’attenzione analitica potrebbe essere rivolta ai renitenti all’irreggimentazione fra i quali orgogliosamente colloco il mio nonno materno spesso punito per la sua non osservanza dell’abbigliamento e, più in generale, delle ricorrenze del sabato fascista. Dal canto suo, mia nonna, maestra elementare, si era placidamente collocata nella zona grigia dell’afascismo.

“E gli Hyksos se ne andarono”, avendo fatto anche qualcosa di buono (o anche no, non possiamo saperlo). No, primo, con buona pace di Benedetto Croce, i fascisti non erano Hyksos, fu necessario sconfiggerli, non se ne sono andati, molti non persero neanche tutto il potere di cui si erano appropriati. A cominciare dalle argomentazioni di Bruno Setti e di Andrea Caglioti, le cose buone in economia e nell’organizzazione della scienza non sono dovute al fascismo. Hanno fonti precedenti il fascismo che possono persino fare sollevare l’interrogativo se, invece, il fascismo non abbia rallentato e in parte deviato la modernizzazione e alcuni sviluppi che avrebbero potuto essere molto più rapidamente produttivi. Sento la necessità di approfondimenti e comparazioni.

Antecedenti, regime e conseguenze che, come dimostrano i numerosissimi riferimenti al fascismo, ancorché spesso del tutto o quasi inappropriati, polemici, faziosi, continuano a essere con noi. Un passato che non passa anche perché è un passato comunque di notevolissima importanza nella storia dell’Italia e che può essere variamente (ri)elaborato. Per esempio, l’allora Presidente del Consiglio Giuliano Amato, dopo l’approvazione del quesito referendario del 1993 che portò ad una legge elettorale tre quarti maggioritaria in collegi uninominali, commentò che si trattava di “un autentico cambio di regime, che fa morire dopo settant’anni quel modello di partito-stato che fu introdotto in Italia dal Fascismo e che la Repubblica aveva finito per ereditare, limitandosi a trasformare un singolare in plurale”. Non fu subissato di consensi, ma coglieva il punctum dolens della propensione dei politici italiani alla non-competizione. “Se non puoi sconfiggerli unisciti a loro” è un detto inglese. L’adesione conformista al fascismo fu ampia. Oggi non può bastare per dimostrarsi convincentemente estranei al fascismo dichiarare la propria data di nascita, di molto posteriore anche alla sconfitta della sanguinosa Repubblica di Salò. Ci vuole ben altro. I saggi di questo ottimo libro ci dicono che la strada che conduce fuori dal fascismo storico, politico e quotidiano merita di essere periodicamente e costantemente illuminata dalla mole di conoscenze acquisite.

 

Gianfranco Pasquino

Professore emerito di Scienza politica e socio dell’Accademia dei Lincei ha di recente pubblicato Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana (UTET 2021).

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

25 GIUGNO 2021