Pietro Modiano  
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A 30 ANNI DAL 1992: LA CRISI FINANZIARIA


Uno spartiacque nella storia dell'Italia contemporanea



Pietro Modiano


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Premessa

Il 1992 è un anno cruciale. In pochi mesi si succedono eventi drammatici, ognuno portatore di discontinuità, catastrofici in senso proprio. Falcone e Borsellino, il referendum, le elezioni politiche con la Lega che vince e le forze di governo che perdono, Mani Pulite. E la crisi della lira, a settembre. Poi, l’Italia sarà diversa.

Impossibile vedere ognuno di quegli eventi separato dagli altri. Ma oggi proviamo a fare una semplificazione, e a concentrarci sul solo aspetto economico e finanziario della crisi del 1992, e sulle sue determinanti. È una buona occasione a distanza di trent’anni per rinfrescare la memoria, e mettere a posto le tessere del mosaico che nel tempo si sono mischiate. La materia è ancora calda. Sono in gioco due interpretazioni, una che in quella fase l’Italia, che aveva perso il suo status speciale dopo la caduta del Muro, sia stata vittima di manovre distruttive e autodistruttive, di congiure anche finanziarie, Soros e il Britannia, che hanno alterato un corso di eventi altrimenti positivo; l’altra, a cui credo, che sono allora venuti al pettine tutti in una volta i nodi degli errori e degli squilibri del passato, i nodi – per richiamare una interpretazione nota - dell’”approdo mancato”. C’è chi rimpiange la prima Repubblica, e chi no. Riandare alle vicende finanziarie di quell’anno serve anche per rimuovere il campo dalle nostalgie.

Proverò in questi prossimi 15-20 minuti a parlare di tre cose, dopo una premessa breve per definire la natura della crisi del ’92, finanziaria e non solo valutaria. Comincerò con un po’ di cronaca di quei mesi. Poi un passaggio un po’ più lungo sull’origine profonda della crisi: debito pubblico, imprese pubbliche, imprese private. Con due parole su quello che ritengo il vero peccato mortale di chi ha governato, e cioè la gestione dei vincoli europei. Per concludere su come ne siamo usciti, con un giudizio personale sui buoni e i cattivi.

 

Crisi finanziaria, non valutaria

Allora, definiamo il campo. Ciò che accade alla nostra economia quell’anno, e in particolare alla lira nel mese di settembre, ha avuto i caratteri di una vera e propria crisi finanziaria. Non sembri una affermazione ovvia. Una crisi può essere solo valutaria, cioè aggiustabile con la semplice revisione dei rapporti fra valute, senza essere finanziaria, cioè senza coinvolgere la stabilità complessiva di un paese. Per fare un esempio, proprio nel 92 la crisi della sterlina, contemporanea a quella della lira, non è stata l’espressione di una crisi finanziaria del Regno Unito, e infatti si risolse con la svalutazione del cambio, senza produrre altri contraccolpi. Soros, a proposito di congiure finanziarie, ha avuto il suo peso nella distruzione delle riserve della Banca d’Italia e della Banca d’Inghilterra, ma non ha determinato gli eventi. Anche perché, nel caso dell’Italia a rischio era molto di più del valore della moneta, era il merito di credito del paese, la sua capacità di rimborsare i debiti, per essere chiari la capacità di continuare a pagare le pensioni e i dipendenti pubblici. Stavamo finendo lì, Grecia 2011, ci siamo stati vicini.

Barucci, allora Ministro del Tesoro, sottotitola il suo libro sul triennio 92-94 “Cronache di un naufragio evitato”. Il governatore della Banca d’Italia, nel maggio 1993, parla di una crisi finanziaria sfiorata. Nei miei ricordi c’è, ed eravamo all’inizio di settembre del 92, una telefonata del direttore generale dell’associazione bancaria che mi chiede di affacciarmi su Piazza Cordusio per vedere se c’era la coda allo sportello del Credito Italiano, di gente che voleva prelevare i propri depositi. Quello era il clima e il rischio che abbiamo avuto davanti.

In realtà la crisi italiana, la crisi finanziaria, il rischio del naufragio, aveva iniziato a materializzarsi qualche mese prima di settembre.

 

Che cosa è successo

A questo punto facciamo un po’ di cronaca di quel periodo: serve a capire come le catastrofi si generino, e da uno stato di calma si possa passare rapidamente ad uno di caos. Il governatore della Banca d’Italia, maggio ‘92, all’inizio della sua relazione annuale aveva ammonito: “Ai problemi del paese va data certezza di soluzione in tempi brevi, agendo nelle prossime settimane”. Nelle prossime settimane.

L’entità del pericolo inizia ad essere chiara all’inizio di luglio. Amato, qualcuno lo ricorda, era in carica da pochissimo, tre mesi dopo le elezioni vinte dalla Lega e che avevano messo la parola fine sull’ultimo governo di pentapartito, l’Andreotti settimo. Appena insediato, prende atto della necessità, appunto, come chiede il Governatore, di “dare certezza di soluzione ai problemi del paese”, e di doverlo fare “in poche settimane” (e ne erano già passate parecchie).

L’emergenza non era in quel momento la lira, era in primo luogo il debito pubblico. E cioè a sua entità – il 108% del PIL - la sua crescita fuori controllo (ricordo che all’inizio dell’esperienza dei governi di pentapartito era all’80%), la sistematica tendenza del disavanzo a crescere di anno in anno – tendeva a superare il 10% del PIL – smentendo per eccesso un anno dopo l’altro i piani e le previsioni ufficiali.

Una prima manovra correttiva venne varata appunto a inizio luglio. Fu l’ammissione scioccante dell’entità del problema, a lungo sottaciuto, e della difficoltà di farvi fronte. Quella manovra conteneva una misura assurda, che è rimasta nella memoria degli italiani, e cioè il prelievo forzoso dello 0,6% dei depositi in conto corrente, una misura che denunciava panico ed improvvisazione (non si sa alla fine con il consenso di chi sia stata varata), indicava che si era arrivati al fondo del barile, spaventava i risparmiatori, stimolava l’uscita clandestina di capitali, e il tutto per un ammontare di entrate non enorme, 6 mila miliardi.

Una società di rating degrada subito dopo il debito dell’Italia. Non siamo ancora ai titoli spazzatura da crisi greca, ma c’è un problema: un downgrading che segue una manovra di aggiustamento è una bocciatura, e contiene un messaggio comunque inquietante, che cioè di aggiustamenti, subito dopo quel precedente drammatico, ce ne volevano altri. Già, ma - problema - come si sarebbe dovuto fare, se il fondo del barile era già stato raschiato? Un messaggio che il mercato finanziario, più ancora dell’opinione pubblica e dei giornali, raccoglie immediatamente, e l’allarme che serpeggiava comincia a diffondersi. Il cappio comincia a stringersi.

Subito dopo il ministro del Tesoro dà corpo ai timori, annunciando ai ministri finanziari della Comunità Europa che il deficit pubblico si avviava, nel 94, nonostante la manovra precedente, a sfiorare il 15% del PIL. Ed è da qui che si va a precipizio verso la crisi. Un’asta dei BOT va male. La prima volta. Chi finanzierà il debito pubblico?

Siamo nell’ultima settimana di luglio, il governo Amato annuncia in vista del 1994 una manovra correttiva da 83 mila miliardi, 5% del PIL di allora, ma anche questa viene giudicata tardiva e insufficiente, tanto più in un quadro che si deteriora, con il referendum danese che mette in discussione il progetto europeo, tassi d’interesse tedeschi in crescita. E infatti con tassi italiani destinati a crescere i miliardi mancanti diventeranno 93 mila, che sarà l’entità, non dimenticata, di quella manovra senza precedenti.

I mercati valutari erano intanto in tensione, appunto per l’aumento dei tassi tedeschi post-unificazione e per il referendum danese. Tutte quante le tensioni di cui abbiamo parlato si scaricano sul valore della lira, nessun aumento dei tassi italiani avrebbe potuto farvi fronte, e qualunque aumento sarebbe stato fatale all’equilibrio dei conti. Banca d’Italia prova una difesa, con un aumento del tasso di sconto, forzatamente moderato, e un impiego di riserve che rendono chiaro soltanto che le munizioni sono finite. La permanenza nella banda stretta dello SME è insostenibile. La lira esce dallo SME, il 16 settembre, e perde nel giro di qualche settimana un terzo del suo valore.

La crisi si era manifestata sul mercato dei cambi, ma come abbiamo visto era intrecciata in modo inestricabile con il debito pubblico e il suo finanziamento. Crisi finanziaria, appunto, non solo valutaria. Ci dobbiamo tornare.

Facciamo quindi un passo indietro e vediamo l’origine più lontana della crisi e le relative responsabilità.

 

Le origini

I motivi erano tre, e venivano da lontano. Il primo riguardava lo abbiamo detto il debito pubblico e le prospettive del suo finanziamento. Il secondo motivo, che amplificava il primo, era la crisi delle aziende pubbliche. Il terzo, che aveva a che fare con il cambio ma non solo, era la capacità competitiva delle imprese. Il tutto, nel quadro dei vincoli europei. E ovviamente della generale instabilità politica dell’epoca - muoiono fra maggio e settembre Falcone e Borsellino - di cui non parliamo e assumiamo come dato di scenario, che rendeva oscura la possibilità di una svolta positiva.

 

 

La qualità (non solo la quantità) del debito

Della quantità del debito abbiamo detto. Parliamo della sua qualità, che era un problema non meno importante. I disavanzi pubblici accumulati negli anni ottanta venivano da una spesa corrente in crescita sistematica, inseguita da un tassazione a sua volta crescente, che andava a compromettere la capacità di crescita dei consumi e degli investimenti privati, ma era sempre insufficiente a ridimensionare i disavanzi annuali. Gli investimenti pubblici, quelli che servivano alla crescita, e potevano servire all’innovazione, erano sacrificati alla spesa corrente.

Di più. Una parte determinante della spesa corrente e quindi del debito crescente dipendeva dal peso degli interessi sul debito. Un circolo vizioso. Gli interessi salgono con il debito, e il debito con gli interessi. L’inflazione si riduceva – passò dal 20% del 1980 al 6-7% di dieci anni dopo - ma si manteneva più alta che negli altri paesi; il cambio ne soffriva e i tassi d’interesse dovevano essere sempre più elevati in termini nominali di quelli di altri paesi, e gravavano sul debito pubblico, alto, crescente, divergente rispetto a quello dei paesi più virtuosi. Il debito pubblico cresce e fa salire i tassi. Un circolo vizioso, da spezzare e, prima, da riconoscere. Ma erano anni di ottimismo.

Nei gloriosi anni ’80 l’Italia cresceva, sull’onda di un ciclo mondiale molto positivo fino al 1988, ma mente cresceva accumulava problemi. Non si era messa su un sentiero di convergenza con gli altri paesi. Il debito pubblico era il punto di crisi, i meccanismi che lo avevano prodotto e lo facevano crescere erano difficilissimi da disinnescare. La crescita era minata da una tassazione elevata e da investimenti deboli. Il ciclo mondiale che si inverte nel 1988 e le scadenze europee rompono l’incantesimo. Ed è allora che il meccanismo della crisi si mette in moto.

 

 

La gestione dei vincoli europei

Decisive le scadenze europee, che non ci sono state imposte, ma che abbiamo voluto e accettato.

La politica negli anni 80 è infatti strabica. Si assumono obblighi e impegni solenni e cogenti nei confronti dell’Europa, e nel momento stesso in cui si assumono si creano le condizioni per disattenderli.

Il 1986 segna l’avvio del processo che porterà al mercato unico, nel 1992, e poi all’euro. In quell’accordo sono previste tante cose, ma in particolare tre: la liberalizzazione dei movimenti di capitale, merci persone e servizi all’interno dell’Europa; la tendenziale stabilizzazione dei cambi, con la limitazione delle oscillazioni intra-SME al 2,5% dal 1990; l’illiceità degli aiuti di stato. Dal divieto degli aiuti di stato doveva conseguire un intenso risanamento dell’impresa pubblica in crisi, non più sostenibile con fondi di stato, e privatizzazioni, per ridurre il debito senza far mancare risorse alle imprese pubbliche meritevoli.

Movimenti di capitale liberi e cambio fisso, siamo nel 1990, impongono un massimo di disciplina nella formazione dei prezzi, dei tassi, e dei disavanzi. Ma si continua fino alla fine ad andare dalla parte sbagliata. Un episodio secondo me è emblematico. Nel 1990, proprio quando la lira entra nella banda stretta dello SME, il governo chiude i contratti dei dipendenti pubblici con aumenti del 15%. Un numero enorme, il doppio dell’inflazione, e il doppio della crescita tendenziale dei salari nell’industria. Una spinta all’inflazione, alla rincorsa salariale, al disavanzo dello stato, tutto in una volta, e questo dopo aver sottoscritto un impegno cogente alla convergenza con gli altri paesi aderenti allo SME. Qualcuno non aveva capito le regole del gioco che aveva contribuito a creare, e continuava in una politica inflazionistica e di erogazione di prebende pubbliche a scopo di consenso.

 

 

Le imprese pubbliche

E veniamo al secondo motivo della crisi, tutt’uno con il primo, che riguarda le imprese pubbliche a cui abbiamo accennato, che dal 1986 non possono essere più né salvate né ricapitalizzate con soldi pubblici, pena sanzioni per aiuti di stato, che cominciarono fra l’altro ad arrivare davvero, in almeno due casi, quelli dell’Alfa Romeo e della Lanerossi. Su questo l’Europa ha sempre fatto sul serio, guai a sottovalutarla. Come ho detto, una classe dirigente responsabile di fronte al divieto agli aiuti di stato avrebbe dovuto agire prontamente, per risanare e privatizzare.

Sulle privatizzazioni in quanto tali si può discutere quanto si vuole. Ma con l’Atto Unico, appunto con il divieto agli aiuti di stato, le privatizzazioni non erano più una scelta. Data la situazione delle imprese pubbliche, erano diventate un obbligo. Lo stato aveva pochi soldi, e gli aiuti di stato erano vietati. Quindi per salvare ciò che era meritevole di essere salvato bisognava cedere ciò che non era recuperabile o non era strategico: era l’unico modo per fare la cassa utile per salvaguardare il resto. Altrimenti ciò che marciva avrebbe travolto l’intero sistema. Possibile che non ci si sia mossi per tempo e si sia aspettata la crisi? In Francia le privatizzazioni le fanno nel 1986, da noi non si agirà se non dal 1993, a crisi conclamata.

Si ricorda come fra il 1991 e il 1993 la quantità di pubblicizzazioni, cioè di imprese private entrate nel perimetro dello stato, abbia di gran lunga superato quello delle privatizzazioni, con un rapporto quasi di uno a dieci.

Non tutto andava male. C’era la fatica dell’IRI, che arriva ad uno stentato pareggio nel 1988, ma non esce dalle trappole dei condizionamenti politici delle scelte manageriali, che anzi si accentuano i quegli anni. Dopo il 1990, quando il cappio della stabilità del cambio e della libertà dei movimenti di capitale era stretto al collo, e gli aiuti di stato erano da tempo impossibili, e l’IRI aveva ricominciato a perdere, succedono due cose molto gravi: la crisi di Federconsorzi e il fallimento dell’EFIM.

Di queste vicende richiamo solo una conseguenza, che fa parte della mia personale memoria, ed è lo sconcerto delle banche estere che avevano copiosamente finanziato quelle due strutture.

Un senso di panico strisciante, di fronte all’eventualità che lo stato non riconoscesse la propria garanzia sul loro credito, che era debito di aziende partecipate al 100% dallo stato e quindi era a tutti gli effetti debito pubblico. Su Federconsorzi intervennero alla fine le banche italiane, pubbliche di fatto ma da allora schermate dalle fondazioni, e quindi non riconducibili al settore pubblico. Ce la siamo cavata, ma il segnale di allarme – nei comitati di crediti delle banche estere - si era acceso.

EFIM arriva un anno dopo e poteva essere una tragedia. La trappola era duplice. Se lo stato non fosse intervenuto,, oltre ai problemi per i lavoratori, i crediti esteri e nazionali non sarebbero stati rimborsati e la crisi del debito pubblico italiano sarebbe stata conclamata. Tutto il debito delle imprese pubbliche diventava a rischio di default, e l’intero debito nazionale ne sarebbe stato travolto. Ma, attenzione. Se il debito fosse stato rimborsato, l’Europa sarebbe intervenuta con immediate sanzioni (che pesano per l’intero ammontare dell’aiuto) per aiuti di stato. Scacco matto, o quasi. Ne siamo usciti con una manovra spettacolare di Beniamino Andreatta, allora nostro ministro degli esteri, in accordo con il Commissario Europeo alla concorrenza Van Miert. Per il rotto della cuffia.

I giornali dell’epoca non davano conto della portata della minaccia vera, e cioè della tentazione delle banche in particolare straniere di mettere a rientro le partecipazioni statali, e qualcuna cominciò a farlo davvero. Non se ne parlava. Se ne sussurrava. Reggeva una cortina di discrezione, che accomunava la politica, il governo, le banche italiane e quelle estere. Altri tempi, da questo punto di vista più facili di adesso. Chi cercasse nelle cronache dell’epoca l’evidenza della pericolosità di quel passaggio non ne troverebbe molte tracce. Nel suo rendiconto Barucci si limita a dire che l’ “EFIM è stata una maledizione biblica “.

Sta di fatto che il baratro di una crisi dell’intero debito delle partecipazioni statali si era spalancato davanti a noi, e chi era sul bordo del vulcano ne era consapevole. La combinazione di un debito pubblico che continua a crescere e un sistema di imprese pubbliche in difficoltà a rimborsare i creditori è esplosiva. Nel fallimento dell’asta dei BOT del settembre del ’92 c’era tutto questo.

 

 

Le imprese private

Terzo protagonista della crisi, la grande impresa privata, con un peso minore, ma non dalla parte giusta. Qui ci sono due aspetti.

La stabilità del cambio aveva obiettivamente ridotto la competitività di prezzo degli esportatori, e quindi è vero che, sotto questo aspetto, un riallineamento del cambio sarebbe stato vantaggioso e forse necessario.

Ma è vero anche che la bilancia dei pagamenti correnti avrebbe retto, e bene, se nei settori dominati dalla grande impresa fossimo stati capaci di accumulare un surplus commerciale pari a quello dei settori tradizionali, dominati dall’impresa media e piccola.

La debolezza finanziaria dei grandi gruppi aveva cominciato a manifestarsi in quegli anni, dopo il periodo d’oro degli utili fra il 1984 e il 1989. La svalutazione era auspicata. Il che si capisce anche, ma non è un bello spettacolo vedere che mentre la banca centrale lotta per un risanamento dell’economia che consenta di essere coerenti con gli impegni europei le imprese leader del paese non stiano dalla sua parte, magari con qualche sacrificio per i propri interessi. Che classe dirigente è.

E aggiungo a questo proposito, a mo’ di parentesi, che dalle statistiche risulta che i deflussi di capitale dall’Italia del terzo trimestre del 1992 erano sì il frutto di finanziamenti esteri a breve venuti meno, ma soprattutto di uscite di capitali domestici. Le uscite attraverso la fatturazione irregolare del commercio con l’estero superano i diecimila miliardi in tre mesi. A proposito di Soros.

Questo è dunque il quadro delle cause non immediate della crisi. Che non sono macroeconomia, è la crisi di una classe dirigente.

 

Conclusione

Per chiudere, due parole su come ne siamo usciti.

La svalutazione del 35%, è stata la manifestazione della crisi, ma ne è stata anche la soluzione. Il rifinanziamento del debito pubblico diventa più facile, gli investitori pensano che la dose di svalutazione è sufficiente, ricominciano ad investire. E poi ovviamente stanno molto meglio le imprese esportatrici, e quelle che sul mercato domestico competono con i prodotti d’importazione.

Comincia una nuova storia. Il ciclo economico grazie all’export riprende, così i profitti. L’inflazione resta bassa, i tassi scendono, si privatizza, i titoli pubblici riprendono valore. E alla fine del decennio si entra nell’Euro. Ma non è stato affatto facile. Ne siamo usciti, ma quella crisi è costata molto al paese, o almeno ad una sua parte. I costi per uscirne sono stati pesanti. Tre questioni.

Il primo, un processo di privatizzazioni fatto sotto il fuoco nemico, all’inizio in fretta e furia e poi senza strategia. Come si è privatizzata la telefonia, ma anche le autostrade, resta un buco nero della nostra storia economica.

Il secondo, forse il più importante, una redistribuzione dei redditi a sfavore del lavoro dipendente che pesa ancora sugli equilibri sociali del paese. Se non si è innescata, dal 1992, una micidiale spirale prezzi-salari è perché il sindacato ha accettato nel luglio 92 la completa deiindicizzazione salariale. Bruno Trentin non era d’accordo, la accettò perché messo nell’angolo e nell’interesse del paese, e si dimise. Credo che gli si debba essere grati. Con questo sacrificio si è evitata la spirale argentina, l’inflazione non è aumentata. La storia dopo la svalutazione sarà quindi buona per la macroeconomia e le imprese. Lo sarà molto meno per i lavoratori, la redistribuzione non si più fermata, e il paradosso è che il sindacato sarà attaccato per aver difeso troppo i garantiti.

Infine, il risanamento del bilancio dello stato non è stato un pranzo di gala. Dover produrre per decenni avanzi primari sistematici, rilevanti, maggiori di quelli delle economie più virtuose per pagare gli interessi, rientrare nei parametri e restarvi ha pesato sul tasso di crescita della nostra economia, che è stato sistematicamente più basso per almeno due decenni di quelli dei paesi concorrenti (il quarto di secolo peggiore della storia, dice Ciocca).

E infine, l’Italia dopo quella crisi si è incattivita. Si è divisa fra le vittime vere del fisco, colpite dalle manovre di aggiustamento, e le vittime presunte. Queste ultime dal 1994 hanno cominciato ad alzare la voce e pesare, eccome, nella politica italiana, e non è una buona cosa. Sono ancora spaventati dalla patrimoniale del 92, le tasse per loro sono “le mani nelle tasche dei cittadini”, e non le pagano. Gli altri continuano a pagarle tutte e non si lamentano neanche.

 

A 30 ANNI DAL 1992: Uno spartiacque nella storia dell'Italia contemporanea
2° incontro
CRISI FINANZIARIA E CROLLO DELLO STATO IMPRENDITORE
intervengono: Franco Amatori, Pietro Modiano, Edoardo Reviglio


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13 MAGGIO 2022