Roberto Cornelli  
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RIPULIRE LA CITTÀ IN MODO EFFICACE


I nodi problematici di un episodio di violenza di polizia a Milano



Roberto Cornelli


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Milano città inclusiva. Non passa giorno in cui qualcosa non faccia traballare l’immagine di una città che, riprendendo lo storico motivo del coer in man, ha puntato tutto sul connubio tra attrattività di capitali e turismo, da un lato, solidarietà e apertura alle diversità, dall’altra. È ciò che viene definito “modello Milano”.

Le immagini tratte da video condivisi sui social di ciò che sembra essere a tutti gli effetti un’operazione di fermo di una donna trans accompagnata da un uso del tutto sproporzionato della forza da parte di uno o più agenti di polizia locale appare scollegato con la crisi del cd. modello Milano. In realtà ne è una delle ricadute più drammatiche. Perché è più facile essere inclusivi con chi porta soldi, più difficile è esserlo con chi porta sofferenze, difficoltà o fastidio.

Da tempo gli studi di sociologia e criminologia urbana rilevano come di pari passo con la creazione di città globali che si misurano e competono sull’attrattività dei capitali (e delle persone che spendono) si sia affermata la necessità di “ripulire” la città (o le sue zone migliori) dai problemi che ne limitano le potenzialità. La lotta al degrado e alle inciviltà è diventata così un pilastro delle politiche urbane fondato sulla “criminalizzazione del fastidio”: non è più solo il codice penale a fissare ciò che va represso e portato in un altrove lontano dalla vista; nuove leggi, regolamenti, ordinanze, ordini di allontanamento e daspo hanno sancito la legittimità di togliere di mezzo chi è percepito come fastidioso e non funzionale al bene della città.

Di questa nuova tensione al disciplinamento urbano si fanno interpreti anzitutto (ma non solo) gli agenti della polizia locale, da cui ci si aspetta, più ancora che dalle polizie nazionali, di intervenire in tutte quelle situazioni che creano disagio, disturbo o fastidio. Così, quando si richiede che qualcuno urgentemente intervenga perché una persona è in uno stato di alterazione, è anzitutto alla polizia locale che ci si rivolge ed è la polizia locale che interviene. Come?

Questa è la domanda che dovrebbe lacerare le coscienze dei politici e degli amministratori pubblici. Che tipo di polizia locale (o anche di polizia in generale) stiamo edificando attraverso i nostri discorsi e le nostre decisioni? A quale idea di ordine sociale stiamo agganciando il lavoro delle polizie?

Per mesi si è parlato di un allarme sicurezza che infine persino il Ministro dell’Interno Piantedosi ha dovuto ammettere non giustificato dai dati (noi criminologi lo diciamo da tempo). Ma intanto è un allarme che ha generato tensioni tra le persone e nelle istituzioni, ha giustificato richieste di aumento degli organici di polizia, ha rinvigorito il dibattito sugli equipaggiamenti e le armi in dotazione e ha generato proposte di legge quali l’abrogazione del reato di tortura, sul presupposto che gli agenti vanno lasciati liberi di agire se si vuole che siano efficaci nel garantire l’ordine e la sicurezza pubblica.

Sulle polizie ricadono queste tendenze, questi discorsi e queste aspettative. A loro si dà mandato di ripulire la città in modo efficace. La legittimazione del loro operato, più che sul rispetto delle regole o delle persone, si fonda sull’efficacia nel raggiungere l’obiettivo. Di questo dovrebbero parlare i sindacati di polizia e i politici: della tensione che ricade sugli operatori di polizia, delle aspettative impossibili di cui sono destinatari, della necessità di riportare il lavoro di polizia dentro l’alveo suo proprio, senza chiedere loro di sconfinare continuamente nell’occuparsi di problemi sociali di ogni tipo perché mancano altre agenzie istituzionali che possano occuparsene adeguatamente. Se si ha a cuore la salute degli agenti, bisogna chiedere di avere più centri psichiatrici territoriali, più assistenti sociali, più agenzie educative in modo che gli operatori di polizia possano appoggiarsi su di loro quando serve, evitando la sindrome del supereroe che affronta con un unico potere la complessità della vita sociale. E poi, bisogna chiedere più formazione, non solo tecnica, ma culturale e morale. L’uso della forza di polizia è sempre problematico in una società democratica, anche quando risulta legittimo: possibile che il poligono di tiro e l’addestramento tecnico non possano essere accompagnate da altre materie di approfondimento? Possibile che la formazione sia gestita in modo così autoreferenziale da non consentire spazi di dialogo con la società esterna?

Con queste riflessioni in testa, forse possiamo meglio comprendere quanto è successo a Milano il 24 maggio. Comprendere non per giustificare, semmai per individuare i nodi problematici su cui la politica può intervenire.

Il punto di partenza è come gli agenti di polizia locale si relazionano a persone che sembrano essere in stato di alterazione. Già la sentenza sul caso Aldrovandi aveva indicato come gli operatori di polizia (in quel caso erano della Polizia di stato) debbano adottare un approccio dialogico e non repressivo, per evitare che una situazione di disagio possa sfociare in un evento critico. Inoltre, una persona può essere in stato di alterazione per diversi motivi. Potrebbe per esempio avere un disagio psichico, aver bevuto troppo o assunto sostanze stupefacenti, oppure essere stata vittima di un atto di discriminazione o di violenza. Chi interviene deve comprendere la situazione per capire come intervenire.

Occorre però una disponibilità culturale a non vedere quella persona come un fastidio da eliminare, ma qualcuno da ascoltare e semmai da proteggere. La violenza si esercita più facilmente nei confronti di persone appartenenti a categorie che sono considerate pericolose, indegne o ai margini della società. Se si vuole ridurre l’uso improprio della forza di polizia, bisogna partire dagli stereotipi sociali che, quando agiscono nelle pratiche delle istituzioni del controllo, si fanno ancora più pericolosi.

Occorre, poi, più formazione alle tecniche di ascolto, di mediazione e di de-escalation. Le polizie sono un potere, non una forza: gli agenti devono essere messi nelle condizioni di articolare i loro interventi in modo da evitare il più possibile tecniche violente, che, come previsto dalla normativa sovranazionale, vanno considerate extrema ratio da usare in caso di assoluta necessità.

Occorre, infine, rinforzare il sistema di welfare, in modo che gli stessi agenti, comprendendo i propri limiti, possano appoggiarsi su altre agenzie, su altri saperi, facendo un passo indietro laddove risulti più utile a ridurre la criticità della situazione. Non è semplice pensare che a volte per affrontare alcune situazioni critiche è preferibile per le polizie non intervenire e chiamare altre professionalità. Non è semplice perché queste professionalità spesso non sono così diffuse e pronte come lo sono le polizie. Non è semplice perché le aspettative sociali e politiche riposte sulle polizie vanno in direzione opposta: il mandato alle polizie di ripulire la città le legittima a intervenire con atteggiamenti muscolari anche laddove non ce ne siano i presupposti giuridici. E questo al netto di violenze evidentemente sproporzionate, come la manganellate a una persona in quel momento inoffensiva.

In conclusione, un’avvertenza. Parlare e confrontarsi su ciò che fanno le polizie è essenziale: sono istituzioni che si trovano nel punto di incontro tra autorità e libertà e da come agiscono in concreto dipende la qualità della nostra democrazia. Per questo motivo, occorre andare a fondo nell’analisi delle situazioni e delle tendenze, evitando derive (tanto giustificazioniste/negazioniste quanto generalizzanti) che polarizzano i discorsi senza aprire percorsi di riforma urgenti e necessari.

 

 


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30 MAGGIO 2023