Nadia Urbinati  
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IL PENSIERO POPULISTA


Una relazione parassitaria con la democrazia rappresentativa



Nadia Urbinati


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Una versione più lunga di questo saggio è uscita su

 La società degli individui, n 52, anno XVII, 2015/1 (pp 47-62).

 

Il populismo è un concetto difficile da definire e lo si può rendere con: ‘avvicinare la politica alla gente’ e ‘la gente alla politica’[1]. La sua intrinseca vaghezza è accentuata dall’uso quotidiano che se ne fa: il termine indica un giudizio negativo sugli adempimenti della democrazia rappresentativa nonché sui politici e sui governi eletti[2]. In questo articolo presenterò il populismo come un fenomeno che sta in relazione parassitaria (in quanto interno ad essa) con la democrazia rappresentativa che è il suo vero e persistente bersaglio[3]. Tale conflittualità, sostengo, non incrementa necessariamente la politica democratica.

Benché «non esista assolutamente una teoria del populismo»[4] in questo articolo propongo la seguente definizione generale, tratta dall’esperienza storica: un movimento populista che ottiene la maggioranza di una società democratica tende a creare forme istituzionali che alterano e perfino lacerano la democrazia costituzionale; persegue la centralizzazione del potere, il minor controllo costituzionale sul governo, il disprezzo degli avversari politici e la trasformazione dell’elezione del leader in plebiscito. Il populismo ha una visione polarizzata della comunità politica, non in senso classista, ma in quanto evocatrice della tradizione repubblicana classica piuttosto che di quella democratica. Ritengo tale questione imprescindibile, benché trascurata[5] per cogliere sia il significato anti-individualista del ‘richiamo al popolo’ sia il motivo dell’ostilità del populismo verso il pluralismo, il dissenso, le ideologie minoritarie e il decentramento del potere: verso tutte le qualità essenziali che le procedure democratiche suppongono e promuovono[6].

Come Bobbio, colloco il populismo all’interno della democrazia rappresentativa, non della democrazia semplicemente; sostengo inoltre che la sua aggressiva e talvolta drammatica contestazione delle procedure e delle istituzioni della democrazia costituzionale, difficilmente si traduce in un arricchimento di quest’ultima[7]. Similmente al rapporto tra demagogia e democrazia diretta nell’antica polis, sebbene in sé stesso non costituisca una violazione della democrazia, il populismo può, se vincente, provocare l’esodo dalla democrazia. D’accordo con Canovan, considero il populismo un’ideologia del popolo che, per quanto espressione del linguaggio democratico è in contrasto con la «prassi democratica» ovvero con l’attività politica dei cittadini comuni[8]. In sintonia con Arditi, interpreto il populismo come una possibilità permanente intrinseca alla democrazia rappresentativa giacché connota uno stilema ideologico-politico che viene rafforzato da un meccanismo elettorale incline alla lotta per la conquista di voti e di cariche[9].

Movimenti popolari e populismo

Non identifico il populismo con i ‘movimenti popolari’ o con ciò che è ‘popolare’: il populismo è tutt’altro e le caratteristiche che analizzerò lo dimostreranno. Per meglio capire la distinzione tra movimento popolare e populismo uso il caso americano dei due movimenti popolari e populisti più recenti: Occupy Wall Street e il Tea Party.

Possiamo dire che siamo di fronte a una retorica populista, ma non a un regime populista, quando l’istanza di polarizzazione nasce da un movimento sociale che vuole restare esterno al sistema elettorale e che si rifiuta di contestare i politici dal punto di vista delle promesse elettorali. Questo è il caso di un movimento popolare di contestazione e protesta radicale quale Occupy Wall Street. Al contrario, individuiamo una retorica populista e populismo quando un movimento non desidera essere indipendente dal sistema elettorale, ma ambisce piuttosto a occupare le istituzioni rappresentative e a ottenere la maggioranza di consensi al fine di plasmare l’intera società secondo la propria ideologia[10].

Questo è il caso del Tea Party, un movimento che si fonda su una concezione populista del potere.

Ma il populismo non è identificabile né con la retorica populista né con la protesta politica. L’analisi del fenomeno presuppone che si distingua innanzi tutto tra forma del movimento e forma di governo, tra opinione di protesta e opinione di protesta finalizzata alla conquista del potere.

In una società democratica, un movimento popolare di protesta o di contestazione non dovrebbe essere confuso o identificato con una visione populista del potere statale. Il primo riflette la natura diarchica della democrazia rappresentativa (che è sia il potere del voto o suffragio che il potere della voce o potere indiretto dell’opinione di influenzare le decisioni attraverso un’ampia rete di giudizi pubblici); il secondo considera la diarchia stessa un ostacolo perché mantiene l’opinione separata dall’autorità del potere istituzionale. Il populismo aspira a uniformare l’opinione della maggioranza a quella dell’autorità stessa dello stato sovrano; il suo scopo perciò è di indurre i leader e i rappresentanti eletti a ‘usare’ lo stato per favorire, consolidare ed estendere il loro elettorato[11].

Nell’articolo indagherò questo fenomeno specifico di potere populista, non il movimento popolare.

Un concetto ambiguo

Dopo avere chiarito i limiti entro i quali uso il termine vorrei delineare il contesto storico in cui il populismo nacque poiché questo milieu è stato ed è ancora una variabile imprescindibile per la sua valutazione. Lo storico americano Michel Kazin considera il populismo un’espressione democratica della vita politica che è necessaria di volta in volta per riequilibrare la distribuzione del potere a beneficio della maggioranza.

Attraverso la critica populista i cittadini americani «sono riusciti a contestare le disuguaglianze sociali ed economiche senza mettere in dubbio l’intero sistema»[12]. Ralph Waldo Emerson scrisse, con notevole perspicacia, a metà del diciannovesimo secolo: «Procedi senza il popolo e procederai nelle tenebre»[13]. Conformemente a questa massima, gli storici Gordon Wood, Harry S. Stout e Alain Heimert hanno interpretato il Grande Risveglio della metà del diciottesimo secolo come il primo esempio di populismo americano, una «nuova forma di comunicazione di massa» grazie alla quale «la gente fu incoraggiata, perfino sollecitata, a parlare liberamente»[14].

Il populismo nacque come critica della repubblica appena costituita, dei suoi intellettuali e del governo rappresentativo. In tale accusa venne realmente coniato il gergo fondamentale del populismo. Una rilevante conseguenza di quella prima forma di populismo fu che la democrazia (o meglio, ‘il governo popolare’ come chiarirò presto), mantiene un’istintiva vocazione anti-intellettualistica in quanto rigetta le espressioni linguistiche e le condotte estranee a quelle che il popolo condivide e usa nella vita quotidiana.

Il programma del People’s Party del 1892 venne formulato seguendo la logica binaria che oppone il linguaggio semplice dei produttori di grano all’idioma sofisticato dei finanzieri e dei politici[15]. La polarizzazione in quanto ‘semplificazione del pluralismo sociale’ in due larghe fazioni (il popolo e i grandi) fu, sin dall’inizio, il tratto essenziale del populismo, la sua caratteristica romana.

La storia americana sembra dimostrare che il populismo, sia come retorica che come movimento politico, è stato assimilato a un’espressione vi-tale e collettiva del risentimento popolare verso i nemici interni del ‘popolo’.

Margaret Canovan ci invita a leggere il populismo come ‘politica di fede’ che aspira a emendare la politica ordinaria dal suo fatale relativismo e pragmatismo. La stessa concezione viene ribadita da Ernesto Laclau nella sua indagine sui movimenti populisti in America latina: li considera appunto dei processi di ribilanciamento egemonico, interni al potere costituito, a cui si perviene tramite l’incorporazione dell’ideologia popolardemocratica delle masse. Laclau, lo studioso che ha elaborato la teoria del populismo più comprensiva, lo identifica non semplicemente con ‘un’azione politica’ o con espressioni retoriche (cioè, con una forma ideologica del discorso politico), bensì con la democrazia stessa perché si tratterebbe di un agire politico che assegna un ruolo centrale alla classe lavoratrice o alla gente comune. Ciò ha indotto Laclau a definire il populismo una vigorosa espressione dell’immaginario democratico, anzi, una strategia per unire le varie richieste, malumori ed esigenze che i partiti politici invece frammentano e indeboliscono nel momento in cui si preoccupano di concorrere alle cariche istituzionali o di governare[16].

Questa lettura non è a mio parere convincente dal momento che la polarizzazione rende l’ideologia del popolo meno inclusiva di quella garantita dai diritti di cittadinanza democratica e dal diritto di voto. Nell’ideologia populista il concetto di popolo è sociologico, non politico, e viene identificato con una parte del popolo, secondo il modello repubblicano romano classico: i molti o i meno ricchi o il basso ceto. Il populismo quindi rappresenta una politica di esclusione non di inclusione: questo è l’obiettivo della polarizzazione. Non è casuale che il lavoro, egemonia di unione, incoroni il ‘popolo’ invece che il cittadino, che è il referente primo della sovranità democratica. Infatti se ciò che caratterizza la democrazia è l’eguale libertà per tutti, allora il populismo è una restrizione della democrazia (ai molti, alla maggioranza) e non una sua esaltazione. Questa diagnosi severa è confermata dalla storia politica europea dopo il diciottesimo secolo.

L’esperienza politica dell’Europa continentale ci suggerisce due osservazioni: che il populismo nacque una volta riconosciuti il diritto di rappresentanza e i principi costituzionali, e che fu deleterio per la democrazia costituzionale. Analizziamo il caso italiano (non isolato): si vede come dopo la Prima Guerra Mondiale, Benito Mussolini sfruttò il disagio economico della borghesia e la crescente indigenza di chi già era povero, al fine di polarizzare la vita politica in senso non classista ma populista (i molti e i pochi) fino a trasformare il governo liberale in un regime di massa antagonista delle minoranze politiche.

Mussolini non sospese lo Statuto Albertino, tuttavia creò un regime populista basato su iterati appelli al popolo e sull’uso della propaganda finalizzata a unificare le masse col regime e a isolare le opposizioni. Il confronto tra esperienze populiste americane ed europee fa comprendere come il populismo europeo, nelle sue continue resurrezioni, abbia favorito una politica di destra, intollerante e di esclusione, o comunque non interessata a realizzare le promesse della democrazia costituzionale quanto piuttosto a frantumarle.

Una critica radicale della democrazia rappresentativa

Il rapporto tra populismo e democrazia rappresentativa è assimilabile a quello che esisteva tra demagogia e democrazia nella polis antica: interno ad essa e in funzione parassitaria ma proteso verso i confini estremi dell’ordine democratico. L’analogia tra antiche e moderne forme di democrazia è importante per chiarire ulteriormente il fenomeno del populismo. Non si può prescindere dalla concezione aristotelica secondo cui la demagogia interna alla democrazia è: a) una possibilità permanente in quanto si basa, come la democrazia, sulla libertà di parola e di opinione; b) un uso più accentuato e intenso del principio della maggioranza tanto da rendere la maggioranza quasi assoluta o una forma di potere su tutti invece che un mezzo per prendere decisioni (il populismo è l’egemonia della maggioranza e l’adesione alla regola di maggioranza nella conta dei voti); c) un’anticipazione di un potenziale regime tirannico...

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18 OTTOBRE 2015

 

 

 

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