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RELIGIONI FORTI E FONDAMENTALISMI


Intervista postuma a Gabriel A. Almond






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Professor Almond, l'ultimo suo libro, Religioni forti. L'avanzata dei fondamentalismi sulla scena mondiale (Bologna, Il Mulino, 2006), sintesi di una ampia ricerca in sette volumi con R. Scott Appleby e Emmanuel Sivan, pure rimasto poco noto in Italia, mantiene una straordinaria attualità. La domanda, però, è: perché lei si è accorto così tardi della rilevanza politica della religione?  

 R. Ha ragione, prof. Pasquino, siamo stati davvero poco attenti ai fenomeni religiosi. Non posso neppure cavarmela dicendo che da questa parte dell'Atlantico siamo talmente laici da neppure prendere in considerazione la religione. Il paradosso, invece, è che proprio noi americani, bis o tris nipoti dei dissidenti religiosi, continuiamo ad essere un paese nel quale la religione è sempre stata visibile e importante. Anch'io sono un ebreo credente. Forse il nostro silenzio sulla religione è stato un modo per esorcizzarla. Poi, purtroppo, hanno fatto irruzione sulla scena politica USA gli evangelici. Allora, abbiamo capito, tardivamente, che non soltanto non avevamo esorcizzato un bel niente, ma che dovevamo preoccuparci. Dovevamo cercare di capire, senza nessun cedimento paternalistico, che i movimenti antimoderni di ispirazione religiosa sono un tentativo, pericoloso e disperato, ma non per questo da non criticare, di reazione alla secolarizzazione e alla globalizzazione. 

D. Immagino che lei abbia letto il famoso libro di Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo (Milano, Rizzoli, 1992). Persino Fukuyama elude del tutto il ruolo politico della religione. Le liberal-democrazie hanno debellato i comunismi reali, soprattutto la loro ideologia, una vera e propria ideologia totalitaria. Non resterebbe loro che realizzarsi. Nel 1991 Fukuyama, studioso colto e originale, non intravede affatto la durissima sfida del fondamentalismo, o dovrei dire dei 'fondamentalismi', alle liberal-democrazie.

R. Certamente, lei deve usare il plurale. Con Appleby e Sivan non abbiamo dubbi. Tutte le grandi religioni, monoteistiche (il cristianesimo, nelle sue varianti cattolica e protestanti, l'ebraismo e l'islam)  e non (l'induismo), manifestano propensioni più o meno forti verso il fondamentalismo, vale a dire che mirano a plasmare la vita delle comunità secondo i precetti religiosi derivanti dall'interpretazione dei loro sacri testi e a imporli anche con la forza a chiunque si trovi in quelle comunità. Dentro ciascuna e tutte le confessioni monoteistiche si annidano grandi, qualche volta irresistibili, spinte al fondamentalismo. 

D. Ho un'altra considerazione problematica relativa alle vostre generalizzazioni. Riguarda la carica di violenza che esprime il fondamentalismo islamico e che lo differenzia enormemente dagli altri fondamentalismi. Come mai?

R. Abbiamo scritto che la carica di violenza sprigionata dal fondamentalismo islamico dipende dalla volontà di un ceto religioso ampio e diffuso di mantenere il controllo sui fedeli proprio quando i processi di secolarizzazione e di globalizzazione investono i paesi dove l'Islam è l'unica religione che è possibile professare apertamente. Dipende anche dall'uso della religione come instrumentum regni che ne fanno alcune monarchie, come quella, in particolare, dell'Arabia Saudita. Infine, dipende dal fatto che Machiavelli non è ancora arrivato nel Medio-Oriente.

D. Questa è un'osservazione che lei, prof. Almond, deve motivare per noi che siamo indegni successori del fiorentino il quale, è opportuno ricordarlo, apre la strada alla autonomia della politica e del suo studio in maniera scientifica. Fra gli italiani e non solo circolano a piede libero e disinvolto commentatori e intellettuali che, invece di leggere e studiare Machiavelli, preferiscono esercitarsi in una distinzione che non pare possibile provare: quella fra l'Islam buono e l'Islam cattivo (meglio, forse, fra due letture, davvero egualmente plausibili?, del Corano).

R. Intendo dire che, pur essendo vero che tutte le religioni monoteistiche vogliono imporsi al potere politico e che, ad esempio, anche i cattolici fanno qualche volta davvero fatica (mi hanno parlato di un certo Card. Ruini) a ricordarsi di 'dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare', nell'Islam questa distinzione e il relativo precetto proprio non esistono. Dio, ovvero le Supreme Guide Spirituali, come in Iran, controllano Cesare e gli dettano che cosa deve fare. Non esiste nessuna separazione fra la religione e la politica. In questo senso, la cultura politica, espressione davvero impegnativa, dell'Islam si è fermata a prima di Machiavelli. Solo dove, seppure fra tensioni e conflitti, gli islamici accettano la separazione e l'autonomia della politica, come, ad esempio, in Indonesia e in Turchia (ma qui vedo problemi emergenti più precisamente sotto forma di uso politico della religione), è possibile costruire una democrazia. Non sono un sostenitore di società multiculturali nelle quali molti pensano di acconsentire all'esistenza di regole religiose, giuridiche (la sharia, magari casereccia), culturali, sociali che contraddicono i diritti universali delle donne e degli uomini. Sono, però, molto favorevole (e Tocqueville mi darebbe ragione) a società multi religiose. Una volta che le molte credenze religiose capiscono che non possono vicendevolmente distruggersi si metteranno d'accordo sui limiti della loro azione sulla sfera pubblica. Temo che sarà un processo lungo e tormentato, ma, se posso dire così, ho 'fede' nella sua realizzazione. 

 


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12 DICEMBRE 2015

 

 

Gabriel A. Almond (1911-2002) è stato uno dei più importanti scienziati politici americani del XX secolo. Addottoratosi a Chicago, ha insegnato a Yale e Princeton e concluso la sua carriera alla Stanford University. Si è occupato con studi fondamentali dello sviluppo politico e della cultura politica. I suoi contributi più significativi sono raccolti nel volume Cultura civica e sviluppo politico (Bologna, Il Mulino, 2005) a cura di Gianfranco Pasquino che lo ha 'intervistato' appositamente per la Casa della Cultura.