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MICROFISICA DELLA 'BÊTISE'. COME DISTRUGGERE L'UNIVERSITÀ E VIVERE FELICI




Federico Bertoni


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Non amo affatto Michel Houellebecq, mi irrita da morire. Segno forse che è un vero scrittore, perché lo scopo primario della sua scrittura sembra proprio quello di irritare il lettore (e ancor più la lettrice). Ma c’è un dettaglio che mi ha colpito molto in Sottomissione, a parte gli astuti e tendenziosi richiami alla situazione che sta sgretolando il nostro (?) mondo. Qualunque cosa accada, nota a più riprese Houellebecq, l’Amministrazione non ti lascia in pace: ti bracca, ti raggiunge ovunque. Può esserci il panico, la rivoluzione, la guerra civile o lo stato di emergenza, ma a un certo punto torni a casa e trovi una bolletta delle tasse o una multa non pagata. Mi viene anche in mente, su un registro molto diverso, un capitolo esilarante del Pensatore solitario di Ermanno Cavazzoni, in cui si descrivono le peripezie di un ipotetico eremita dei nostri giorni, che prima di potersi dare a una vita di sacrosanta solitudine e ascetiche meditazioni nel deserto dovrebbe fare i conti con Equitalia, il commercialista, la tassa dei rifiuti, l’avvocato dell’ex-moglie e via dicendo.

Figurarsi uno come me, che non pensa (più) a fare il rivoluzionario o l’eremita ma ha un posto ben integrato nel sistema universitario del nostro Paese, e che vorrebbe solo studiare e insegnare in santa pace, pretese ormai velleitarie e antisociali in un mondo che regolamenta anche il dissenso e che pretende di misurare tutto, dal numero di citazioni di un articolo scientifico al tempo quotidiano degli studenti (qualcuno ha mai seriamente riflettuto sul fatto che i Crediti Formativi Universitari, i Cfu, risultano dalla somma tra le ore di “lezione frontale” e le ore di “studio individuale”, come se fosse possibile conteggiarlo e uniformarlo? Perché nessuno ha chiamato la neuro quando una qualche commissione di “saggi” ha escogitato questa trovata?). Mai come in questi casi, del resto, si avverte uno scarto più grottesco tra le parole e le cose, tra procedimenti di definizione e controllo sempre più formalizzati (che poi finiscono nei grafici e nelle percentuali, e soprattutto negli articoli dei giornali) e un’esperienza concreta che svanisce come un rivolo d’acqua tra le crepe dei nostri corpi, le ore di fatica sui libri, i dialoghi con gli studenti, le lezioni preparate con cura, le tesi corrette virgola per virgola, tutta roba troppo umana e volatile per essere contabilizzata dagli indicatori, e che quindi non esiste.

Ecco: per l’Amministrazione noi giochiamo un po’ la parte del piccione nel tiro al piccione. Se avete un’idea generica dell’università, toglietevi dalla testa l’immagine dello scienziato pazzo chiuso in laboratorio o in biblioteca e perfino del barone che veleggia in corridoio con il codazzo di allievi, come il dottor Tersilli. Ecco quello che ti può capitare in una giornata-tipo.

Apri il computer la mattina e commetti l’errore fatale di controllare la posta: trovi l’ennesimo, sempre più minatorio messaggio dell’Area della Ricerca – corredato da un richiamo del direttore del Dipartimento – che ti ricapitola modalità e tempistica della prossima Vqr (Valutazione della Qualità della Ricerca), operazione che dovrai compiere dopo esserti registrato nell’apposita banca dati – che naturalmente sostituisce le precedenti – ed esserti dotato del codice Orcid (questo, giuro, non so cosa significa). La prima cosa che borbotti è: vi supplico, una moratoria sugli acronimi! Poi, con un mezzo sorriso, ricordi quella volta in cui si doveva ribattezzare il dipartimento nato dalla fusione dei due precedenti, in seguito all’applicazione della Legge Gelmini, e uno dei nomi ipotizzati produceva l’acronimo “Ficam” – nell’Italia berlusconiana sarebbe stato un trionfo. Quindi ti muore il sorriso sulle labbra perché sai che queste procedure di valutazione, mascherate dietro la retorica del “merito” e dell’”eccellenza”, servono solo a legittimare i tagli finanziari, condizionano pesantemente la libertà di ricerca, aumentano le sperequazioni tra le varie università (e poi tra le regioni del paese, e infine tra i singoli cittadini, in barba alla Costituzione) e soprattutto fanno tutte queste schifezze senza avere alcuna effettiva attendibilità.

Mezz’ora dopo arriva un messaggio dalla redazione di una rivista, ovviamente di “classe A”, che in quanto tale pratica con zelo fanatico la peer-review: ogni articolo da pubblicare deve passare al vaglio di due esperti che lo giudicano in forma anonima, riportando la valutazione in macchinose schede con criteri tipo “originalità” o “completezza bibliografica” (ma che significa? Che se scrivi – o valuti – un articolo su Proust devi conoscere la bibliografia completa su Proust, per cui non basterebbero due vite?). Qui poi il caso è delicato: devi fare da arbitro tra due giudizi opposti: uno dei revisori pensa che l’articolo sia buono, pubblicabile con pochi emendamenti, mentre l’altro pensa che l’autore sia una capra, lo strapazza con sadica ferocia (ma che t’ha fatto la vita!?) e gli consiglia sprezzantemente di leggersi quattro lustri di riviste specializzate e almeno una trentina di contributi imprescindibili. Fai un gran sospiro, pensi che questi sono pazzi e che anche il ragionevole esercizio della peer-review, ormai sport nazionale degli accademici, ci sta sfuggendo di mano. Ma cosa non si farebbe pur di giocare in serie A?

Un’altra mezz’ora e un altro messaggio dalla redazione di una rivista online, anche questa di classe A: ricordi quel saggio che hai pubblicato due anni fa? Bene, ci serve l’abstract. Ci serve in italiano e in inglese, perché dobbiamo accreditarci presso varie banche dati internazionali. E non dimenticarti le keywords. E poi, scusaci, potresti piantarla di scrivere in italiano? (Questo non lo dicono, ma un po’ me lo immagino). Potresti piantarla di scrivere questi saggi scimmiottando ancora Barthes o Debenedetti? Sei veramente antico. Ormai si scrivono solo papers, con un bell’abstract all’inizio, esposizione chiara della tesi, illustrazione, conclusioni, quod erat demonstrandum. Ti metti al lavoro e intanto pensi a quanto detesti gli abstract, il gergo pseudo-scientifico, i papers di critica letteraria costruiti come pseudo-dimostrazioni di teoremi matematici: “In this paper I will point out…”. E ti dici che in questo mondo uno come Lukács è ormai un marziano, quando descriveva la forma del saggio come un percorso di esplorazione e scoperta, una tensione verso una meta non ricercata, “come Saul, il quale era partito per cercare le asine di suo padre e trovò un regno”.

Il tempo che butti a scrivere l’abstract è fatale. Quando hai finito trovi una colonna di cinque messaggi no-reply di altrettante università in cui lo studente Pinco Pallino ha fatto l’application, segnalandoti come referee per inviare una lettera di presentazione, ovviamente in inglese. Di nuovo chini il capo paziente, vai a spulciare nella cartella del computer in cui hai salvato qualche centinaio di lettere simili, fai un po’ di pastiches e collages e alla fine spedisci, o meglio fai l’upload, dopo avere risposto a varie domande sulla maturità emozionale o sulle capacità di leadership dello studente. Più che altro ti rammarichi di non essere un bravo informatico, perché in tal caso metteresti a punto un software per generare automaticamente lettere di presentazione, ormai lavoro da catena di montaggio, prodotto da industria pesante, immettendo solo nome e cognome dello studente, date, titolo della tesi ecc.

Quando arriva la bozza di un progetto di ricerca del network internazionale in cui non ricordavi di essere stato incluso, 78 pagine fitte fitte (in inglese) con tabelle e citazioni di ranking internazionali per chiedere il finanziamento di un libro e di un paio di convegni, beh, a quel punto scendi al bar sotto casa e ti ubriachi…

Ora, che cos’hanno in comune queste cose, a parte la patetica irrilevanza per il resto del genere umano? Intanto una falsa pretesa di scientificità, come se la crisi dei paradigmi epistemologici in tutti i campi del sapere fosse compensata da un’istanza neopositivista che, in mancanza d’altro, colonizza le pratiche gestionali e organizzative della ricerca. Tutti gli episodi che ho descritto, rigorosamente veri, coniugano un massimo di giudizio soggettivo e inverificabile con un massimo di (finta) oggettività, come se la tragica imperfezione della conoscenza umana potesse essere riscattata dai numeri, dalle percentuali, dai criteri formalizzati o dal gergo anglicizzante (ho appena saputo che d’ora in poi il coordinatore dei progetti di ricerca si chiamerà principal investigator, che è obiettivamente tutta un’altra cosa). Effetto tanto più grottesco, e imbroglio tanto più grande, nell’area dei saperi umanistici, dove la finzione di oggettività è moltiplicata dallo statuto ancora più aleatorio degli strumenti, dei paradigmi e degli stessi oggetti di indagine. Ma possibile che dopo almeno un secolo di slittamenti epistemologici, dubbi sistematici e principi di indeterminazione siamo ancora qui a misurare il sapere con squadra e compasso? E tutto per dimostrare all’Anvur e al ministro di turno che siamo efficienti, produttivi, meritevoli della sacrosanta “quota premiale”?

Il vero problema, infatti, non è tanto epistemologico quanto politico e ideologico. Gli accidenti (in tutti i sensi) della mia vita quotidiana sono minuscoli epifenomeni di un’università che ha seppellito il vecchio modello humboldtiano fondato sul binomio didattica-ricerca e che si è trasformata in una consumer oriented corporation, con un sistema di governo oligarchico e una tecnocrazia capillare che ha avocato a sé i mezzi e i fini, fondata su criteri e parametri come l’immagine, la qualità (nel senso di quality assurance), la competizione, l’attrattività, la soddisfazione del cliente, gli indici di produttività, i premi di produzione e via dicendo. È un sistema di potere miniaturizzato e diffuso, tanto stupido quanto efficace, non riconducibile a singole teste pensanti (?) ma disseminato in una microfisica di pratiche quotidiane di cui siamo al tempo stesso attori, vittime e complici. E come sempre, quanto più piccole e insignificanti sono le pratiche (in fondo che ci vuole a scrivere un abstract o una lettera di raccomandazione?) tanto più lo slittamento è fluido, l’assuefazione inavvertita, l’ottusità interiorizzata come una seconda natura. E intanto la bêtise diventa la forma stessa del nostro pensiero.

Flaubert ce l’ha insegnato – ed è la più grande scoperta del XIX secolo, secondo Milan Kundera. La bêtise non ha dentro né fuori: è mimetica e astuta: si traveste e si contamina con l’intelligenza (la stupidità intelligente descritta da Robert Musil), e dopo un po’ non la riconosciamo più. Sta nel gergo, nella parola d’ordine, nella citazione di seconda mano, nel sapere meccanico e riproducibile, nella regola applicata a testa bassa, nel luogo comune da cui siamo parlati. La bêtise è la parodia del sapere, il suo involucro, la sua scorza esteriore. È la grancassa di chi ostenta la verità e ne fa un’arma di consenso politico e sociale. La sua tattica di base è pervertire le parole, mutarne il senso, farne segni vuoti senza referente (eccellenza, merito, valutazione…), ricodificare un dizionario di luoghi comuni con cui astrarre e semplificare l’infinita complessità del reale, rendendolo duttile, operabile, infinitamente convertibile, manipolabile a volontà secondo gli interessi del momento. Per questo il vero eroe di Madame Bovary è Monsieur Homais, il farmacista, l’unico che alla fine trionfa in questo romanzo feroce che non descrive tanto le disavventure di una romantica delusa (mai luogo comune fu tanto astuto e beffardo, povero Flaubert!), quanto le avventure e il successo travolgente della bêtise borghese, di cui Emma è al tempo stesso vittima e incarnazione. Non a caso, l’ultima parola del libro è per Homais: “Depuis la mort de Bovary, trois médecins se sont succédé à Yonville sans pouvoir y réussir, tant M. Homais les a tout de suite battus en brèche. Il fait une clientèle d’enfer; l’autorité le ménage et l’opinion publique le protège. Il vient de recevoir la croix d’honneur”.

Lo dico con la morte nel cuore, ma se guardo l’università che mi sta intorno la constatazione è inevitabile: il Professor Homais ha vinto. Ha stravinto. Scommetto che il ministero gli conferirà la prossima “quota premiale”.

Federico Bertoni  

 

Articolo pubblicato il 9 dicembre 2015 su LE PAROLE E LE COSE Si ringrazia l'Autore per averne autorizzato la pubblicazione.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

16 DICEMBRE 2015

 

 

 

 

 

 

...una falsa pretesa di scientificità, come se la crisi dei paradigmi epistemologici in tutti i campi del sapere fosse compensata da un’istanza neopositivista che, in mancanza d’altro, colonizza le pratiche gestionali e organizzative della ricerca...

 

 

 

 

 

...Effetto tanto più grottesco, e imbroglio tanto più grande, nell’area dei saperi umanistici, dove la finzione di oggettività è moltiplicata dallo statuto ancora più aleatorio degli strumenti, dei paradigmi e degli stessi oggetti di indagine...

 

 

 

 

 

 

...Ma possibile che dopo almeno un secolo di slittamenti epistemologici, dubbi sistematici e principi di indeterminazione siamo ancora qui a misurare il sapere con squadra e compasso?

 

 

 

 

 

...La sua tattica di base è pervertire le parole, mutarne il senso, farne segni vuoti senza referente (eccellenza, merito, valutazione…), ricodificare un dizionario di luoghi comuni con cui astrarre e semplificare l’infinita complessità del reale, rendendolo duttile, operabile, infinitamente convertibile, manipolabile a volontà secondo gli interessi del momento...