Aldo Agosti  
  casa-della-cultura-milano      
   
 

IL SECOLO LUNGO


Le conseguenze della rivoluzione russa



Aldo Agosti


altri contributi:



  aldo-agosti-rivoluzioni.jpg




 

Il nostro tempo non ha simpatia per le rivoluzioni. L'idea che la violenza possa fare da levatrice della storia desta oggi quasi scandalo, e le rivoluzioni che godono di credito sono soprattutto quelle soft, che si compiono - o si immagina si possano compiere - senza gravi scosse, senza spargimenti di sangue. E si pensa soprattutto alle rivoluzioni politiche, quelle da cui scaturisce un cambio di regime, non alle rivoluzioni sociali, quelle che promuovono una radicale ristrutturazione della società e tentano di rompere con l'eredità del passato, riplasmando la cultura della società, il suo modo di vita, le sue istituzioni, i suoi sistemi di simboli, i suoi modelli di comportamento, i suoi rituali, le sue forme espressive artistiche, i suoi valori. Poco importa che queste rivoluzioni politiche, come hanno tragicamente dimostrato le cosiddette primavere arabe, si rivelino effimere e si trasformino spesso nel loro contrario.

Parallelamente lo stesso discorso dei diritti umani - pur tanto importante - ha avuto un peso nel ridimensionare non solo l'idea della rivoluzione come atto di rottura traumatico, ma anche l'importanza di valori come quello della giustizia distributiva, dell'eguaglianza economico-sociale o del bene comune, valori che un tempo e fino alla fine della guerra fredda facevano parte del senso comune della sinistra almeno in Europa. Sembra quasi confermata l'affermazione di François Furet che, con la sua tipica perentorietà, sentenziò nel 1995: 'L' idea di un'altra società è divenuta quasi impossibile a concepirsi, e d'altronde nessuno nel mondo di oggi propone anche soltanto l'abbozzo di un concetto nuovo. Eccoci condannati a vivere nel mondo in cui viviamo".

È in questo clima che oggi cade il centenario della rivoluzione russa, e da questo clima tende ad essere condizionato il bilancio che se ne fa. Si racconta che quando fu chiesto nel 1972 a Chou Enlai quale fosse il bilancio della rivoluzione francese egli abbia risposto che era ancora troppo presto per dirlo. In un certo senso, questo è vero sempre per i grandi eventi storici, perché la nostra comprensione di essi continua a modificarsi nel tempo, influenzata dalle circostanze e dal clima culturale in cui viviamo. Nel bicentenario della Rivoluzione francese, sempre François Furet sentenziò che la "la rivoluzione era finita", eppure proprio intorno a quell'affermazione si sviluppò un acceso dibattito che non era solo storiografico ma politico.

La Rivoluzione d'ottobre è apparsa una delle date periodizzanti del Novecento, quello che Eric Hobsbawm, nel suo notissimo libro uscito nel 1994, ha chiamato "il secolo breve". Le sue ripercussioni, egli giudicava allora, erano state "assai più profonde e universali" di quelle della sua antenata, la Rivoluzione francese: "Appena trenta o quarant'anni dopo l'arrivo di Lenin alla stazione Finlandia di Pietrogrado, un terzo del genere umano si trovò a vivere direttamente sotto regimi direttamente derivati dai "dieci giorni che sconvolsero il mondo" e costruiti secondo il modello organizzativo del partito comunista che Lenin aveva creato", affermava il grande storico inglese. "Pochi negherebbero", continuava, "che un'epoca della storia del mondo è finita con il crollo del blocco sovietico e dell'Unione Sovietica". A più di vent'anni da allora, l'impatto geopolitico di quell'evento ci può apparire forse meno impressionante: il numero degli Stati dichiaratamente comunisti si è ridotto a cinque nel mondo (Cina, Corea del Nord, Vietnam, Laos e Cuba) e di questi solo la Corea del Nord appare rigidamente fossilizzata nei dogmi dell'ortodossia "marxista-leninista", in realtà essi stessi piegati agli interessi di una dittatura personale. Più ci allontaniamo dal 1991, ha suggerito Steve Smith nel sua libro appena uscito Russia in Revolution, più è perfino meno sicuro che gli storici continueranno a vedere nella Rivoluzione russa l'evento centrale dello stesso "secolo breve". Forse, egli si spinge a dire, essa finirà per acquisire un significato più simile a quello del fascismo - un fenomeno il cui impatto fu devastante ma relativamente di breve durata se paragonato, diciamo, alle due guerre mondiali, alla decolonizzazione, alla nascita di una società dei consumi o all'espansione del capitalismo globale. Lo portata del successo del Partito comunista cinese che ha innalzato la Cina allo status di seconda potenza economica del mondo e attore politico principale dell'Asia orientale, per esempio, potrebbe, in una prospettiva più lunga, indurre a ridimensionare l'ascesa dell'Unione sovietica a superpotenza dopo il 1945. Con l'avanzare del XXI secolo potrebbe persino diventare chiaro che è stata la rivoluzione cinese, non quella russa, la grande rivoluzione del XX secolo, capace di incidere più in profondità nella mobilitazione della società, più ambiziosa nei suoi progetti, più efficace nelle sue conquiste e forse più duratura della sua omologa sovietica.

Queste considerazioni volutamente un po' provocatorie sono molto stimolanti, ma non possono portare a ridimensionare troppo l'importanza epocale della rivoluzione russa. Tanto per cominciare, perché se la rivoluzione russa non ci fosse stata, quella cinese ci sarebbe forse stata lo stesso ma non nelle forme che ha assunto e che l'hanno portata alla vittoria; o perché il processo di decolonizzazione sarebbe stato diverso nei suoi sviluppi, nei ruoli giocati dai suoi attori, e probabilmente molto più lento.

Si deve infatti tenere presente un carattere che fu assolutamente fondamentale nella rivoluzione russa dell'ottobre del 1917, cioè il suo intreccio indissolubile con la prospettiva di una rivoluzione internazionale. Questo intreccio era percepito con eguale intensità sia dai bolscevichi vittoriosi, sia dal mondo che li circondava.

All'origine di questa visione c'erano due radici, all'inizio di eguale peso. Da un lato c'era un'analisi dell'imperialismo comune, nonostante importanti differenze, all'intera sinistra della II Internazionale socialista: il capitalismo, giunto allo stadio monopolistico del suo sviluppo, non poteva non espandersi sempre di più in una dimensione mondiale e liberava così enormi forze produttive che cozzavano contro il loro involucro imperialistico. Questo distruggeva la possibilità di un mercato internazionale e generava conflitti e distruzioni a catena: a sua volta tale stato di cose acutizzava i rapporti tra le classi, creando le premesse per la guerra civile in Europa e negli Stati Uniti e per la rivolta dei popoli oppressi delle colonie.

La crisi rivoluzionaria innescata dalla guerra aveva dunque un carattere planetario e dava una dimensione nuova e nuovi compiti all'internazionalismo proletario. Era necessario saldare insieme la rivoluzione socialista nei paesi capitalistici avanzati, le lotte dei popoli oppressi dalla dominazione coloniale e la difesa del regime sovietico in Russia come altrettanti momenti differenziati ma indivisibili di un processo unitario, tendente al fine ultimo dell'instaurazione della Repubblica sovietica internazionale.

La convinzione dei bolscevichi - condivisa da tutte le correnti costitutive dell'Internazionale comunista - era che la rivoluzione russa fosse il prologo della rivoluzione sociale europea (secondo la previsione che aveva trovato concordi dopo il 1905 uomini dalle posizioni assai distanti come Lenin, Trockij e Kautsky) e che, data l'arretratezza economica e strutturale del paese, la sua sola garanzia di salvezza stesse nell'aiuto che le avrebbe portato la vittoria del proletariato in alcuni almeno dei maggiori paesi capitalistici dell'Occidente. Questa convinzione indusse spesso il movimento comunista a scambiare i propri desideri per la realtà, cioè a sopravvalutare da una parte la maturità del potenziale rivoluzionario in Occidente (e anche, sia pure in altro modo, nelle colonie) e a sottovalutare dall'altra sia la solidità dei regimi borghesi sia la specificità delle tradizioni operaie in Europa e in America. Si aggiunga che, tranne (in parte) Trockij, il quale negli Stati Uniti era vissuto esule per qualche tempo, gli uomini che guidavano la Rivoluzione russa, e quindi il movimento comunista mondiale, non capirono una cosa che a noi oggi è ben chiara: che cioè la grande potenza nordamericana, tenutasi fuori del conflitto mondiale fino all' autunno del '17, non era solo indenne dalle distruzioni materiali devastanti del conflitto, ma era anche sostanzialmente estranea alla crisi morale e sociale che nell'Europa continentale aveva determinato la rapida marcia della rivoluzione o almeno la sua aspettativa. Il più potente e ricco paese capitalistico del mondo era fuori della crisi: come avrebbe potuto la rivoluzione prodottasi in Russia, e sentita dai suoi artefici come primo passo di un sommovimento generale, fungere da detonatore della crisi finale del capitalismo se questo prosperava nella sua cittadella più solida, che era l'epicentro di un impero coincidente di fatto con un intero emisfero del globo e sempre più interessato al destino della stessa Europa? Questo aspetto della questione fu a lungo ignorato dall'analisi dei bolscevichi.

Comunque, con tutto ciò che di illusorio conteneva, la diagnosi ottimistica dei rapporti di forza che ispira il pensiero dei bolscevichi al potere almeno fino al 1923 è alla base di una strategia in cui l'espansione del processo rivoluzionario e la difesa del suo primo avamposto - l'URSS - sono inscindibilmente legati. La situazione cambia rapidamente mano a mano che il potere sovietico si consolida e la rivoluzione in Occidente si allontana, mentre nelle stesse colonie rimane un processo troppo disperso e incontrollabile. L'URSS diventa a quel punto il centro e il motore primario del processo rivoluzionario, la sua difesa e il suo consolidamento i compiti prioritari del movimento comunista mondiale. Ma quella prospettiva globale del processo rivoluzionario non scomparirà mai completamente dalla retorica sovietica, anche se finirà per trasformarsi in un elemento funzionale unicamente alle sue ambizioni di grande potenza.

Se questa dimensione internazionale resta un'eredità in qualche modo incancellabile della rivoluzione russa del 1917, bisogna però ricordare che essa, oltre che di elementi che aveva in comune con il patrimonio storico ideale dei movimenti socialisti e rivoluzionari di prima del 1914, si era nutrita di elementi specificamente russi. Quali erano questi elementi? Uno era certamente la relativa arretratezza economica dell'Impero zarista e il suo contrasto con le ambizioni di grande potenza. Ma più ancora contava il ruolo centrale dello Stato nella vita sociale e la forza del suo retaggio autocratico-dispotico: con la conseguente minore autonomia, rispetto al modello occidentale, della società civile dallo Stato medesimo. Con l'allontanarsi e poi con lo svanire della prospettiva della rivoluzione europea questi elementi prendono il sopravvento, e non solo nella costruzione dello Stato sovietico, come è ampiamente dimostrato ormai da una serie di studi, ma anche nelle sue proiezioni esterne: in primo luogo nella politica estera dell'URSS, che sempre più ragiona in termini di in termini di interessi strettamente nazionali, dove nazionali sta essenzialmente per grandi-russi. Se ne era già avuta la prova nel 1921, quando il Partito comunista turco era stato senza rimpianti sacrificato alla scelta di privilegiare un rapporto forte con il nascente regime di Kemal Ataturk. Ma si vedrà poi che anche la bandiera dell'antifascismo, innalzata a partire dal 1933-34 in funzione di difesa dalle mie aggressive della Germania hitleriana, non è mai sentita dall'Unione Sovietica come autenticamente propria, e in ogni caso potrà essere lasciata cadere se non sarà più funzionale alla politica estera sovietica. L'esempio del patto Ribbentrop-Molotov è solo quello più eclatante da questo punto di vista, ma anche l'impegno "variabile" dell'URSS a sostegno della Repubblica nella guerra civile di Spagna o il condizionamento esercitato sul Partito comunista francese negli anni del Fronte popolare in Francia vanno nella stessa direzione. Anche quando l'Internazionale comunista, poco prima del suo scioglimento, si riapproprierà nel 1941 di quella bandiera, l'uso che ne farà sarà comunque condizionato dalla considerazione prioritaria degli interessi sovietici. Mosca accetterà così solo con riluttanza lo sviluppo imprevisto della Resistenza in Jugoslavia, che vedrà i comunisti rompere senza tanti complimenti con il fronte monarchico-nazionalista; così pure guarderà con preoccupazione all'eccesso di iniziativa dei comunisti cinesi.

Lo scioglimento dell'Internazionale comunista nella primavera del 1943 sancisce in modo formale la rinuncia dell'Unione Sovietica ad esportare la rivoluzione: e questo allo scopo non solo di migliorare i rapporti con gli Alleati nella guerra in corso, ma anche di facilitare la continuazione della collaborazione con loro in seguito, soprattutto nella prospettiva - che fino all'estate del 1945 poteva sembrare non infondata - di una partecipazione americana alla ricostruzione dell'economia sovietica duramente provata. Certo, è probabile che Stalin e i leader sovietici fossero convinti di poter contare su un legame con i partiti comunisti che non aveva bisogno di esprimersi in forme istituzionalizzate: in effetti, lo scioglimento del Comintern, come è stato chiaramente messo in evidenza dagli archivi ex-sovietici, non significa che i partiti comunisti recidano il loro legame con Mosca, che per certi aspetti diventa anche più stretto e diretto che in passato. Tuttavia il loro rapporto con "la casa" si fa più complesso, diversificandosi sensibilmente in ragione della divisone del mondo in due aree d'influenza che già l'andamento delle operazioni militari prefigura. Maggiore spazio acquistano così obiettivamente le varianti nazionali della strategia comunista, che inizialmente l'URSS non scoraggia, anche se cerca di armonizzarle in un disegno corrispondente ai suoi interessi di potenza.

Il modello di rivoluzione che viene esportato nei paesi liberati dall'Armata rossa non ha più molto in comune con quello originario del potere sovietico. Naturalmente, l'Ottobre del 1917 viene sempre additato come un punto di riferimento fondamentale, ma la retorica che sorregge questo modello è piuttosto quella sottesa all'esperienza del fronte popolare francese o spagnolo della seconda metà degli anni '30, ed inizialmente esso esercita un certo fascino in società come quelle dell'Europa centro-orientale, che salvo poche eccezioni avevano conosciuto forme asfittiche e stentate di democrazia. Presto però si rivela la copertura di un disegno che affida al partito comunista il monopolio del potere, e la sua forza di mobilitazione sociale e ideale si consuma nel giro di pochi anni. Sopravvenuto con la guerra fredda l'arroccamento dell'Unione sovietica nel proprio "campo", che includeva prima di tutto le cosiddette "democrazia popolari" - definite invece dal campo avverso "paesi satelliti - il modello che si afferma è sostanzialmente quello sovietico dello "stalinismo maturo", con una pesante compressione dei diritti civili e del pluralismo politico, ridotti a poco più che una facciata.

Questo non impedisce - per molto tempo - che nell'immaginario del movimento comunista dei paesi capitalistici occidentali l'Ottobre resti un mito carico di forza e di fascino. Certo, l'affermazione che la conquista del potere in Europa percorrerà vie diverse dall'assalto al Palazzo d'inverno, e potrà anzi avvenire forse perfino rispettando i metodi della democrazia parlamentare, diventerà moneta corrente per i partiti comunisti dell'Occidente, e per il PCI prima che per gli altri. Ma l'idea che la rivoluzione d'ottobre sia stata l'alba di un grande processo rivoluzionario mondiale che ha conosciuto arresti e contraddizioni ma che non ha cessato di svilupparsi resterà radicata in modo profondo. Bisognerà attendere il 1981 perché Enrico Berlinguer abbia il coraggio di dichiarare che la "spinta propulsiva" di quell'avvenimento si è esaurita. Quell'affermazione che oggi può apparire ovvia - e che anzi può stupire sia stata fatta solo otto anni prima del crollo del muro di Berlino e dieci anni prima della fine dell'Unione Sovietica - viene in realtà percepita come un atto di rottura di grande audacia: tanto che vi è, nello partito di Berlinguer, chi non l'accetta e la critica duramente. Restava in fondo ancora ferma, anche nei comunisti che si erano spinti più avanti nel criticare la sclerosi del sistema comunista sovietico e che si erano persuasi o si stavano persuadendo che molto difficilmente il "socialismo reale" poteva essere riformato, la convinzione che l'Unione sovietica svolgesse un ruolo progressivo sullo scenario mondiale, favorendo il movimento di emancipazione dei popoli ex-coloniali e l'affermazione di regimi progressisti. In realtà almeno dalla fine degli anni '70 è dubbio che questo fosse ancora vero, e anzi la spregiudicata politica di potenza sovietica in Asia centrale e anche in Africa, se permise la vittoria di alcuni movimenti rivoluzionari o almeno vi contribuì, pose anche le premesse di situazioni intricatissime le cui conseguenze sono ancora oggi sotto i nostri occhi.

Resta indubbio però che il crollo dell'Unione sovietica portò con sé, insieme al tramonto dell'utopia di una società di liberi ed eguali, anche lo sgretolamento rovinoso dell'idea di un processo rivoluzionario globale, o almeno di un riassetto del mondo articolato in spinte diverse ma unitario nel suo scopo di superamento del sistema capitalistico. Certo, quell'idea era diventata da decenni soprattutto un involucro retorico vuoto o riempito di contenuti ben diversi da quelli originariamente concepiti. All'inizio del XXI secolo una di quelle spinte, quella dell'Unione Sovietica e dei paesi europei socialisti non solo aveva esaurito la sua forza propulsiva, ma semplicemente aveva cessato di esistere; la seconda, quella della liberazione e dell'emancipazione dei popoli ex-coloniali, si era frantumata e avvitata su sé stessa fino a diventare irriconoscibile, generando in Cina un sistema comunista che promuoveva sotto il controllo dello Stato uno sfrenato sviluppo capitalistico; e la terza, quella della marcia in avanti del mondo del lavoro nei paesi capitalistici, si era interrotta, sostituita da un ripiegamento sempre più difensivo e privo di prospettive di fronte all'offensiva del neoliberismo cominciata già negli anni '80 del Novecento.

In definitiva, non si può negare che siano venuti definitivamente meno il grande progetto unitario e il sistema di vincoli ideologici e organizzativi che - col passar del tempo in modo sempre più artificioso e forzato - conferivano almeno una patina di unità a fenomeni politici e sociali per molti versi diversissimi. Le sopravvivenze o eredità pur non irrilevanti del comunismo sembrano aver perso la capacità di rappresentare una sfida e un'alternativa storica al sistema economico capitalistico, anche se quest'ultimo non pare affatto essere in grado di risolvere, e forse nemmeno di controllare, i drammatici squilibri che ha generato il suo sviluppo meglio di quanto lo sembrasse cent'anni fa.


© RIPRODUZIONE RISERVATA

24 NOVEMBRE 2017

 

 

 

 

Ciclo di incontri
A UN SECOLO DALLA RIVOLUZIONE RUSSA
a cura di Mario Vegetti, Valeria Sgambati e Ferruccio Capelli
PROGRAMMA

 

 

 

VIDEO 3° INCONTRO
Lunedì 20 novembre 2017
Il secolo lungo. Le conseguenze della rivoluzione russa
Relatori:
Aldo Tortorella, direttore di Critica marxista
Aldo Agosti, Università degli Studi di Torino