Maria Antonietta Crippa  
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CULTO E CULTURA: UNA RELAZIONE COMPLESSA


Commento al libro di Tomaso Montanari



Maria Antonietta Crippa


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La lettura del testo di Tomaso Montanari Chiese chiuse (Einaudi, 2021) me ne ha ricordato subito un altro sul tema delle chiese cristiane, non come paragone di metodo di indagine o di linguaggio ma come registrazione del carattere del divenire storico, mai lineare ma per tappe che si sviluppano, vengono meno o si interrompono, trascinando oltre sé rivoli di fattori assodati ma ormai marginalizzati, soprattutto dando luogo a radicali sovvertimenti e non di rado a distruzioni. Si tratta di scarti temporali che, ogni volta, appaiono ineluttabili solo a posteriori. Altamente drammatici, persino tragici, essi risultano invece a chi li vive nel proprio presente. Il tema 'chiesa' è un marcatore eccellente di questa fenomenologia, che Montanari ripropone nelle sue considerazioni sulla situazione attuale. Sono così riandata con la memoria al libro di Jean Gimpel, I costruttori di cattedrali, uscito in Francia nel 1961 e nello stesso anno in Italia, che prende avvio dalla segnalazione di un arco di storia occidentale caratterizzato, lo conferma anche l’attuale storiografia artistica, come momento ‘mitico’ nell’edificazione di chiese in Europa. Scrive il suo autore: “Nel corso di tre secoli, dal 1050 al 1350, la Francia ha estratto dalle sue cave milioni di tonnellate di pietre per edificare ottanta cattedrali, cinquecento chiese grandi e qualche decina di migliaia di chiese parrocchiali […]. Nel Medioevo si aveva una chiesa ogni duecento abitanti; l’area coperta dagli edifici del culto era dunque considerevole rispetto alle dimensioni modeste delle città […]”. E conclude il testo affermando che, a metà del XIV secolo, si apre una crisi profonda - di religiosità, d’incremento demografico, di sviluppo tecnico, di espansione economica, di sclerosi della vita sociale per la prevalenza di interessi privati - che sarebbe durata un secolo circa. In questo frangente, al concilio di Vienna nel 1311, il vescovo di Angers presenta a tinte fosche l’emergere, con una irreligiosità sempre più diffusa, di un generale disinteresse per le chiese ‘che restano vuote’. Tuttavia, i cantieri di quelle più importanti in area francese e tedesca, commenta Gimpel, non chiudono; subito però si ridimensiona drasticamente il contributo alla loro continuità da parte della popolazione, comprese le donne – prima attive in gran numero come cavapietre, calcinaie, gessaiole, cementiere –, poiché: “Il popolo, senza il quale nulla di grande può essere compiuto, non risponde più agli appelli per le cattedrali […] le grandi imprese di un tempo non sono più possibili, essendosi spenta la carità” (corsivo di Gimpel). All’interruzione di una grande avventura costruttiva corrispondeva allora un travaglio sociale profondo che contrassegnava il radicale mutamento d’epoca oggi denominato prima modernità.

Tenendo in debito conto tutte le fondamentali differenze tra il frangente storico che ho richiamato e la situazione attuale, mi pare che qualcosa, di analoga portata e somiglianza con le crisi di quel passato, stia accadendo oggi. Il focus evidente, ora forse molto più che allora, è la crescente disaffezione religiosa e civile per le chiese, innumerevoli testimoni di storia bimillenaria e di un continuo dialogo fra talenti costruttivi e capacità artistiche di singoli e religiosità di intere comunità, gerarchicamente ordinate al proprio interno per ruoli e quindi per modi d’uso. Altrettanto costante, benché decisamente variabile nella sua strutturazione politica e culturale, è ovviamente, per le chiese, il legame tra identificazione confessionale e vita civile per le quali ha rilevanza fisica la loro collocazione urbana e territoriale, la loro connessione con momenti importanti della vita pubblica, la conservazione e tutela del vastissimo patrimonio d’arte che le qualifica. Dunque, nell’abbandono e nel degrado di molte chiese, nella loro chiusura così come nella loro frequentazione e cura, le istanze religiose e quelle civili si annodano in termini profondi e complessi. Lo rende oggi evidente con estrema drammaticità la situazione in cui versano le molte aree terremotate d’Italia, che solleva interrogativi meritevoli di specifica riflessione in rapporto alla rilevante stratificazione storica e all’estensione dei luoghi oltre che alla caratterizzazione sociale. In sintesi, osservati dal punto di vista della produzione di opere d’arte, soprattutto di quella di grandi imprese come sono state le cattedrali, i ‘mutamenti d’epoca’ assumono figura di sconvolgimento fisico degli habitat e di incertezza comportamentale che ne travalica le ragioni imponendosi come disordinato dinamismo che di recente la sociologia ha chiamato fluidità. La caratterizza il venir meno di uno stato di grazia, di una charis collettiva che, sembra inevitabilmente, si spegne. Anche il destino del patrimonio di vita culturale e di arte, accumulato per secoli, diventa incerto, poiché la sua irradiazione, benché ancora attiva, si appanna per il disinteresse generale.

Le componenti che più mi hanno interessato nel testo di Montanari sono la sua esplicita non rassegnazione a sottomettersi alle contraddizioni oggi più dirompenti a riguardo del destino delle chiese italiane e l’impegno a misurarsi con esso; più difficili da condividere risultano le argomentazioni con le quali consolida la propria difesa, supportata dalla convergenza della personale interpretazione del dettato costituzionale e, con partecipe commozione, con il Vangelo così come egli ritiene sia proposto dall’attuale pontefice. Emerge dal libro una curiosa sineddoche secondo la quale, una volta che si è compresa la testimonianza di grandezza umana dell’arte di cui siamo eredi, conta sostanzialmente la messa in opera della imperdibile e totale permanenza dei suoi esiti, radicata in ragioni costituzionali e religiose. Il passaggio dal quadro della sintomatologia a quello propositivo è accennato in affrettati spunti su singoli problemi, in un’esplorazione a flash, pur appassionata, ma riduttiva dal punto di vista critico e ancora di più da quello propositivo. Montanari registra il dramma in corso, peraltro già segnalato da tempo da altri anche molto autorevoli studiosi prima di lui, piegando l’habitus di storico – che sappiamo interpreta con perizia – alla vis polemica caricata da una congerie di contraddizioni difficili da discernere e, dove necessario, da contrastare se non scendendo, punto per punto, ad un preciso confronto secondo approfondita disanima: della Costituzione italiana, del Codice dei beni culturali e del paesaggio, del Codice di diritto canonico, della storia dell’arte e dell’architettura e di altro ancora. Si tratta insomma di una provocazione accusatrice, non costruttiva di uno spazio di confronto tra i soggetti corresponsabili dell’attuale stato di fatto, oggi più che mai necessario. Può anche essere utile, qualora la si assuma come insieme di temi aperti da affrontare con criteri sinergici e con respiro storico e culturale più ampio e preciso.

Il suo piccolo e denso libro uscito nello scorso settembre 2021, incisivo nella scrittura e carico di alquanto ‘estremistiche’ opzioni politiche con le quali investe i propri interessi artistici, si presenta in copertina e sul retro con espressioni accattivanti, tocca il registro profondo del senso dei luoghi cultuali di matrice cristiana in quanto luoghi di una umanità che è riuscita, per secoli, a produrre grande arte originata dal messaggio evangelico, ma che oggi non fa più fronte al suo saccheggio, all’abbandono e al degrado. Scrive in copertina: “Migliaia di chiese sono oggi inaccessibili, saccheggiate, pericolanti. Altre sono trasformate in attrazioni turistiche a pagamento. Oggi non sappiamo cosa farcene, di tutto questo «ben di Dio», e bene pubblico: mancano visione, prospettiva, ispirazione. Ma è anche lì che si potrebbe costruire un futuro diverso. Umano”. Egli regista così icasticamente l’estensione e la drammaticità di un dato di fatto generale, e non solo italiano, ne esaspera anzi i tratti negativi; condanna in modo aprioristico il turismo; evoca l’urgenza di un nuovo seppur vago, nella sua diversità della condizione di vita attuale, futuro umanesimo.

Nella quarta di copertina, sul retro del volume, argomenta: Le antiche chiese italiane ci chiedono di cambiare i nostri pensieri. Con il loro silenzio secolare, offrono una pausa al nostro caos. Con la loro gratuità, contestano la nostra fede nel mercato. Con la loro apertura a tutti, contraddicono la nostra paura delle diversità. Con la loro dimensione collettiva, mettono in crisi il nostro egoismo. Con il loro essere luoghi essenzialmente pubblici sventano la privatizzazione di ogni momento della nostra vita individuale e sociale. Con la loro viva compresenza dei tempi, smascherano la dittatura del presente. Con la loro povertà, con il loro abbandono, testimoniano contro la religione del successo. Possiamo decidere che anche questi luoghi speciali che arrivano dal passato devono chinare il capo di fronte all’omologazione del pensiero unico del nostro tempo. O invece possiamo decidere di farli vivere: per aiutarci a vivere in un altro modo”. L’omaggio alle chiese come luoghi propositivi di ‘un altro modo di vita’ (per chi? Per tutti?) incuriosisce e si riverbera in una apertura alla condivisione del rammarico per un’impotenza oggi collettiva. Nelle ultime righe del libro, evocato il finale del racconto del Grande Inquisitore di Dostoevskij, Montanari esplode in una domanda struggente ma purtroppo mossa da flebile seppur poetica speranza: “Le nostre antiche chiese sono ancora con noi: avremo il coraggio di accettare il loro bacio silenzioso, la loro muta risposta d’amore?”. La pietas per il primo che opta tra chi nella storia è stato vinto, Gesù Cristo, e il Grande Inquisitore che ormai domina come padrone del mondo, è qui proposta come l’ultima parola sulle chiese e sul loro destino. É, evidentemente, parola di nobile sconfitta. Il richiamo è peraltro piuttosto rischioso. Forse il gioco retorico che struttura tutto il libro non riesce più alla fine a nascondere la propria intrinseca evanescenza, pertanto la sua sostanziale carenza di prospettive.

Vale la pena di segnalare che questo libro si inscrive nello stesso orizzonte di polemiche condotte in molte precedenti pubblicazioni dell’autore, in particolare ricordo: per Minimum fax: Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l'arte e la storia delle città italiane (2013), Istruzioni per l'uso del futuro, Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà (2013); per Einaudi: Costituzione incompiuta. Arte, Paesaggio, Ambiente (2013); con Leone, Maddalena e Settis Privati del patrimonio (2015); Contro le mostre (2017) con Vincenzo Trione. Senza entrare nel merito di un inquadramento complessivo di questo impegno, ne richiamo in estrema sintesi qualche aspetto che ritengo utile aver presente leggendo Chiese chiuse. Nei primi due pamphlet l’attacco è contro l’attuale retorica del Bello che regge l’uso turistico e il relativo sfruttamento economico dei monumenti, delle città d’arte e dei centri storici ridotti a luna park. Nel volume La costituzione incompiuta – a più mani con la filologa e storica dell’antichità Alice Leone, con Paolo Maddalena giurista e magistrato, e con il noto Salvatore Settis – Montanari individua l’effettiva attuazione del dettato della Costituzione italiana nella consegna del patrimonio, appartenente per ora solo ai detentori del potere, al nuovo sovrano, il popolo, ritenendo tale consegna primaria leva di eguaglianza e inclusione. In Privati del patrimonio (2015), attacca la politica italiana invischiata in una commistione di impegni pubblici e privati che inficia il principio di ‘valorizzazione’ identificandolo con quello di privatizzazione, e indebolisce il ruolo delle Soprintendenze. Infine, nel 2017 scrivendo con Trione Contro le mostre, denuncia il proliferare di mostre di scarso valore, ideate come vistosi specchi di uno spettacolo vagamente estetico, disorientante ma redditizio. Non si può dire che Montanari non proponga con costanza e con solida compattezza di sviluppo i propri assunti. Essi compongono, mi pare, un bagaglio previo di convinzioni con le quali affronta il tema delle chiese chiuse mettendovi a fuoco, per l’occasione, la novità di un unico orizzonte di promozione umana, basato sul dettato della Costituzione nazionale e del Vangelo. Pertanto, se condivisibili in linea generale risultano le sue preoccupazioni da parte di chi le viva e avverta l’urgenza di un rapido e radicale cambio di rotta sociale e culturale, meno affascinanti, talvolta irritanti per la loro genericità sono molti giudizi su situazioni e questioni connesse sia alle davvero sconvolgenti trasformazioni alle quali il nostro territorio è ormai da due secoli sottoposto, nel contesto di analoghe e anche più drammatiche trasformazioni mondiali, sia agli interrogativi della galoppante secolarizzazione e della sua complessità e velocità di mutazione, cui consegue un insieme non solo di responsabilità ma anche di compiti delle istituzioni e dei singoli cittadini che la denuncia lascia troppo indeterminati. Ciò che accade alle moltissime chiese italiane dipende da ambedue i fenomeni.

Restano significativi: la rilevazione della dimensione pubblica del patrimonio artistico delle circa 85/95.000 chiese nazionali; il rammarico per una democrazia che non riesce ad affermarsi nella sua primaria ragion d’essere, la sua natura partecipativa; il disagio nei confronti di un Ministero che dovrebbe custodire i beni culturali con prospettive organiche e di lunga durata. Aggiungo però anche, perché purtroppo dimenticato in questo elenco: l’urgenza del riordino, in chiave democratica, della gestione del territorio nazionale, con il coinvolgimento dei diversi ambiti sociali, disciplinari, formativi, vale a dire la traduzione in pratiche a partire dalle migliori già in atto, dell’istanza partecipativa.

Ondivago è l’atteggiamento di Montanari nei confronti dell’istituzione ecclesiastica, ora elogiata ora contrastata, restando però sempre sulla superficie dei problemi evidenziati. I tempi chiedono oggi di più, esigono un nuovo risveglio di solidarietà, anzi di fraternità che stimoli all’azione i principi di libertà e uguaglianza, che si dispieghi nell’esercizio democratico di cui sopra si è detto declinato nell’universo del patrimonio di cultura che accomuna la nazione. Ma: come un’autentica fraternità cui tendere presuppone l’esistenza di un padre, quindi di un autorevole fattore originante, così un monumento è realmente tale per tutti se veicola le memorie di qualcuno, restando rispettato e insieme fruibile da tutti. Il confronto fra dimensione sociale e coscienza storica – qui da me concentrata nella consistenza del ‘monumento’ come realtà non solo del passato ma anche attuale, tra memoria dunque e creatività – è essenziale alla societas già oggi plurale per sviluppare regole che contribuiscano a modalità inedite di equa partecipazione alla comune cittadinanza. È innegabile che le chiese cattoliche italiane, aperte ad ogni tipo di pubblico e insieme luoghi di raccolta per culto e devozioni di una sua grande parte, possiedano tuttora questa autorevolezza civile e religiosa al contempo. Altrettanto innegabile è che non possono restare le uniche, in un processo costruttivo rispondente al doppio registro di una fraternità, ideale o utopica che sia ma comunque auspicabile, e di una memoria di diversi soggetti sociali cui si riconosca cittadinanza. Restringere il tema chiese chiuse entro un orizzonte di vita solo cattolico è una limitazione inaccettabile, aprirlo comporta percorsi di avvicinamento tuttora difficili e tuttavia necessari, come l’attuale situazione italiana ed europea, sul fronte in particolare dell’immigrazione e dei suoi addentellati, dimostra.

Tornando al testo di Montanari, l’esercizio di persuasione con cui egli investe la propria scrittura sfrutta termini quali sacro, simonia, bestemmia, mercanti del tempio, diavolo, per denunciare il tragico corso dell’abbandono e del degrado del patrimonio italiano delle chiese. I capitoli risultano infatti così intitolati: L’Italia sacra crolla, L’industria del sacrilegio, Mercanti del tempio, Simonia, Il diavolo sul pennacchio del Tempio, Culto contro storia, di chi sono le chiese?, Le Chiese e la Costituzione, Le chiese e il Vangelo. L’effetto è quanto mai straniante, tanto più perché egli afferma che la sua denuncia “non vuole essere un atto d’accusa verso i custodi – quelli religiosi e quelli civili – delle chiese italiane”, essendo il libro risposta a un ‘fatto personale’, non di carattere scientifico. Dichiarazione quest’ultima che dovrebbe però far emergere, meglio di quanto il testo faccia, il positivo contributo offerto da tali ‘custodi’. Sussiste infatti un problema di custodia e di gestione la cui rilevanza politica, di vita della polis, è già fin d’ora in movimento e non in termini monodirezionali. Se si intende la democrazia come forma del vivere civile che mira a coniugare libertà individuale con condivisione e rispetto del bene comune in senso ampio, non si può fare a meno di acconsentire alla piena apertura, ai livelli di attività istituzionali e di coscienza personale, del ‘contrasto’ tra due diverse nozioni di governo del territorio e dei suoi beni materiali e immateriali, pubblici e privati. In estrema polarizzazione tale contrasto insorge tra un orientamento fortemente dirigistico dal punto di vista statale e quello più ampliamente implicante una partecipazione sociale o governance. L’apertura è essenziale anche per le modalità di intervento che fanno capo alla salvaguardia e continuità intergenerazionale della storia, materiale e immateriale, del territorio coincidente con tutela, conservazione e restauro. I due orientamenti devono dunque poter interagire in modo da dar forma democratica alle attività statali e alla vita sociale e, contemporaneamente, far maturare una mentalità di larga condivisione delle opzioni più decisamente costruttive di socialità nel rispetto dei diversi orientamenti di fondo.

Non rintraccio purtroppo nelle riflessioni di Montanari un legame tra civitas e urbs, o tra cittadinanza e fisico ordine territoriale e/o urbano; risulta invece essenziale che l’assetto territoriale venga osservato contemporaneamente come bene comune e “come un campo spazialmente addensato di pratiche sociali ed economiche, un ecosistema capace di ospitare e generare attività plurali e interdipendenti”, poiché solo nel “rapporto simbiotico di government e governance – le due principali forme di esercizio dell’autorità – è possibile esaltare la coscienza dei luoghi […] cioè il genius loci. L’idea di una amministrazione condivisa richiede che si stringano ‘patti’, o meglio ‘alleanze’ tra l’ente locale e le tante espressioni della società civile, non solo per gestire, quanto piuttosto per disegnare il sentiero di sviluppo” (S. Zamagni, La città luogo di amicizia civile, 2018). Le proporzioni delle due componenti in gioco sono variabili non definibili a priori; è però sempre indispensabile registrarne la vitalità nel confronto con luoghi, tradizioni, storia, cultura, che emergono dalla loro storica interazione.

Nell’impossibilità a esaminare punto per punto il testo sulle Chiese chiuse, accenno a qualche rilevo critico al taglio di lettura di volta in volta proposto. Ad esempio, nel secondo capitolo dedicato alla dispersione e al commercio di suppellettili liturgiche e di reliquie, l’autore trova un profluvio di segnalazioni in internet che evidenziano la diffusione di un mercanteggio profano esito di barbara ignoranza del loro valore testimoniale e artistico. Ritengo però che, per dare un ragionevole e esauriente quadro della situazione, anziché gettarsi a capofitto solo nell’universo informatico egli avrebbe dovuto verificare quanto si afferma nel Codice di diritto canonico oggi vigente al riguardo – in una definizione molto stringata e operativamente circoscritta, senza cenni a protezione di qualsivoglia devozione – oltre che citare qualche caso, e sono molti, di accurata custodia delle reliquie di santi riconosciuti tali. Mi limito, a titolo d’esempio, a segnalare due processi di indagine e cura dei quali ho potuto avere di recente dettagliata conoscenza: quello della custodia delle reliquie, di Sant’Ambrogio e dei martiri Gervaso e Protaso, nella omonima basilica a Milano, e quello delle sepolture dei re longobardi, a Pavia. Sarebbe allora emersa l’accurata capacità tuttora viva di modulare sintesi di fede, arte e scienza nell’esame e nella cura di reliquie e di devozioni di valore storico accertato e connesso a importanti tradizioni. Nel confronto tra ‘trasgressione’ e tributo di sacralità a reliquie e arredi si sarebbero potute formulare più adeguate valutazioni sullo stato di fatto.

Altrettanto non facilmente liquidabile è quanto attiene alla ‘riduzione a stato profano’ delle chiese, quindi alla loro perdita di sacralità e al loro riconoscimento di edifici cultuali. Il rapporto tra culto e storia, ma è più preciso affermare tra culto e cultura (nei suoi caratteri di storicità), non è mai, per ragioni intrinseche, schematicamente riducibile né a opposizione né a rigida coincidenza dei due termini, con evidenza nel caso nelle chiese. Sussiste infatti una gradualità di passaggi e di variazioni di senso – tra dismissione, chiusura, riduzione – che non può essere fatta coincidere con l’immediata cancellazione di uno dei due termini a favore dell’altro. Più precisamente recita il Codice di diritto canonico, can. 1212: “I luoghi sacri [vale a dire, per il can.1205, quelli ‘destinati al culto divino e alla sepoltura dei fedeli’] perdono la dedicazione o la benedizione se sono stati distrutti in gran parte oppure destinati permanentemente a usi profani con decreti del competente Ordinario o di fatto”. La sola chiusura non è dunque sufficiente alla ‘riduzione’, mentre neppure l’eventuale patrimonio artistico ivi custodito può essere ritenuto tout court bene pubblico. Ciò accade perché il nesso tra culto e cultura costituisce uno dei nodi antropologici fondamentali per identificare una civiltà e le sue interne evoluzioni; non può pertanto sottostare all’estrema semplificazione individuata dalle etichette di statale o non statale, chiuso o aperto, pubblico o privato.

Inoltre, nel novero tracciato da Montanari delle chiese italiane con valore patrimoniale non mi pare rientrino le moltissime costruite tra XIX e XX secolo. Non emergono quindi le conseguenze delle mutazioni dei caratteri insediativi che hanno portato, con la costituzione dei centri storici terziarizzati e sempre più scarsamente abitati, a enormi difficoltà d’utilizzo e di cura di chiese importanti in varie parti d’Italia. Anche a questo riguardo non viene evidenziata la qualità antropologica, oltre che di cultura, urbana e urbanistica, del tema. Si pensi al caso emblematico di Venezia: la formazione del polo industriale di Marghera ha generato un rapido spopolamento del centro storico da parte degli abitanti più attivi. Oppure si pensi all’abbandono dei borghi di piccole dimensioni nel sud del paese o a quello degli insediamenti a metà costa nelle montagne – di modeste dimensioni ma per lo più dotati di grandi chiese che spesso custodiscono ancora opere d’arte preziose – a favore dell’occupazione massiccia, anche industriale, del fondo valle.

La dimenticanza delle moderne logiche territoriali porta a ignorare, nella valutazione del fenomeno delle chiese chiuse, la complessità di connessione tra crescita fuori controllo del territorio abitato e formazione di nuovi insediamenti, con costruzione di altrettante chiese dotate di centri parrocchiali – eccezionalmente alta dall’unità nazionale in poi, ma ad incremento esponenziale fino a pochi anni fa a partire dagli anni cinquanta del Novecento, periodo nel quale: “Si stima che le chiese costruite in Italia a partire dall’ultimo dopoguerra siano state in media cento ogni anno” (Cfr. G. Santi, Nuove chiese italiane 1861-2010, Milano 2011). Notevole è stata dunque la costituzione di un patrimonio moderno di edifici per il culto a molti dei quali, come è noto, non mancano valori d’arte nell’architettura e negli arredi. Non evocandone la presenza non si dà percezione delle trasformazioni dalla tarda industrializzazione italiana dalla seconda metà del Novecento ad oggi sotto i due profili religioso e civile e si riduce la portata anche concettuale delle nozioni di monumento e patrimonio, contemplata da Montanari all’interno del contesto rinascimentale e barocco, oggetto prevalente dei suoi studi. Infine, in questo stesso ambito tematico, anche il problema del turismo di massa e i suoi esiti non possono essere liquidati come tout court perversi, essendo anche il turismo “un portato diretto della democrazia”, che esige una messa in gioco dei ceti più colti a favore di tutti (D. Manacorda, L’Italia agli italiani. Istruzioni e ostruzioni per il patrimonio culturale, p. 139). Nell’universo del Culturale Heritage occorre infatti che le responsabilità risultino ampiamente partecipate secondo distinti contributi concorrenti a scopi il più possibile condivisi e qualificanti processi di rigenerazione urbana altrimenti destinati ad essere veicolo di possibili ulteriori sconvolgimenti di stratificazioni storiche e di memorie ad esse connesse. Democraticamente dibattute dovrebbero essere le vie da intraprendere per rendere ‘umana’, coralmente più umana e meno elitaria, la vita attuale anche dal punto di vista del godimento delle opere d’arte. Se è vero, infatti, che risulta bene culturale comune, nella nostra cultura, tutto ciò che ai nostri occhi merita di continuare a vivere nella maggior integrità possibile per i vantaggi che esso offre, occorre però che “questi vantaggi siano avvertiti da un numero così ampio di cittadini da riuscire ad orientare in tal senso il governo della cosa pubblica” (Ivi, pp. 97-98). In questi vantaggi, per i semplici cittadini e per gli uomini di governo, si ha ancora la consapevolezza che l’identità di popoli e di luoghi esiste sempre e solo come stratificazione dinamica, in un movimento fondato su tutela anche materiale di quanto ne evidenzi l’autenticità, la storicità e, pertanto, le tradizioni. Tali vantaggi, inoltre, nel caso delle chiese e degli organismi annessi che ne ampliano la dimensione sociale, implicano un loro godimento sia in quanto colte costruzioni in sé, custodi di opere uniche, sia e non meno in quanto luoghi espressivi del senso del vivere che li ha prodotti e conservati fino ad oggi, nel travaglio delle molte modifiche che li hanno interessati. Implicano dunque un senso del sacro innestato al proprium di una confessione religiosa, non ridotto a sola sacralità di un’arte per l’arte.

Se è vero che una galoppante secolarizzazione mette a dura prova il mondo delle confessioni religiose, e con esse anche l’uso rispettoso del patrimonio culturale italiano, è altrettanto vero che una patrimonializzazione eccessivamente irrigidita non alimenta i valori dai quali l’arte e la cultura vengono generati e nel cui orizzonte sono conservati. D’altro canto, l’attuale ampia fenomenologia di chiusure e di abbandoni di chiese, di loro ‘riduzione allo stato profano’, deve essere fatta rientrare nella lunga durata di un orientamento storico secondo tappe e fenomenologie di dismissione che, per l’Italia, risalgono al Settecento e riemergono nei primi decenni dell’unità nazionale. Si aggiunga che i casi di abbandoni investono consistenti complessi ed edifici nazionali – come gli ex ospedali psichiatrici, le caserme, le aree di industrializzazione pesante – dando luogo a un patrimonio edificato e non utilizzato nel concreto non gestibile.

Sui nessi tra abbandono delle chiese e secolarizzazione la letteratura e le riflessioni saggistiche e giornalistiche sono innumerevoli; segnalo perché interessante e facilmente reperibile la sequenza di articoli apparsi su “L’Osservatore romano”, a partire da quello di P. G. Gawronski, Le chiese vuote e l’umanesimo integrale, seguito a ruota da molti altri, tra i quali: L. Brunelli, Le chiese vuote e la fantasia di Dio; M. Borghesi, Le chiese vuote e l’alibi della secolarizzazione; M. Matteo, Le chiese vuote, l’umanesimo integrale e l’ “opzione Francesco”.

Montanari dimostra un durissimo accanimento nei confronti degli attuali adeguamenti liturgici nelle chiese. La sua posizione non mi lascia indifferente, pur tentata di condivisione sono, anche in questo caso, irritata per la genericità con cui sono bollati i sei casi, vale a dire tutti quelli attuati in Italia, di “adeguamenti nefasti”. Ho vissuto in più occasioni e per diretto coinvolgimento in dibattiti, le difficoltà dell’ambito ecclesiastico italiano, anche a livelli alti, a mettere in moto una approfondita esplorazione della circolarità di culto e cultura per impedirne lo squilibrio e la perdita nell’affermazione di uno solo dei due poli. Molto opportunamente, per evidenziare il carattere del decadimento di questa tensione, conseguente alla diffusa scomparsa di trame quotidiane di vita ecclesiale delle quali la liturgia, ha affermato l’ultimo Concilio, è fonte e culmine - la sociologa francese Danièle Hervieu-Léger ha coniato il neologismo ‘esculturazione’.

Conosco bene le impennate dei liturgisti, spesso poco concordi tra loro oltre che mossi da una applicazione astratta dei loro principi di cui, tranne rare eccezioni, non percepiscono la necessaria aderenza alle conformazioni spaziali degli edifici ai quali vengono applicati e ai loro valori d’arte. Anche quest’argomento non può essere trattato semplicisticamente. Gli adeguamenti liturgici in molti casi devono essere giustamente affrontati, per migliorare lo stato in cui versano molti interni di chiese ma nel rispetto di principi conservativi doverosi nel caso di chiese e opere monumentali. Il tema ha oggi grande attualità, per i molti concorsi di adeguamento nelle cattedrali già aperti o, come è annunciato, che si apriranno a breve.

Ho tentato di recente, in altra sede, di delineare pochi principi guida, o regole d'oro per l'adeguamento liturgico nelle cattedrali nell’arco definito da due situazioni estreme: l’una caratterizzata da totale o prevalente scomparsa dell’assetto liturgico preconciliare, nel caso di distruzione come per i terremoti o di totali smontaggi di assetti preesistenti per radicali interventi statici, come nel caso del Duomo di Milano; l’altra da situazioni in essere che necessitano adeguamenti dal punto di vista liturgico e, non meno, tutela dell’esistente. Le ripropongo qui per aprire ulteriori riflessioni, non per chiuderle. Le ho così formulate: aggiungere, non togliere e non modificare l'esistente; conservare piena visibilità e distinzione tra antico e nuovo: non dar luogo a dissonanze, ma promuovere un dialogo tra momenti diversi di storia; non sovrastare l'antico linguaggio con il nuovo. A interventi di questo tipo andrebbe sempre collegata una rivisitazione degli spazi esterni alla cattedrale, il cui affaccio con la città è per tradizione connesso con l’articolazione dei suoi spazi interni, cui l’adeguamento si rivolge nella riscoperta di una connessione e distinzione tra aula e area presbiteriale. In sintesi, il caso per caso non l’omologazione, l’articolazione per aree spaziali distinte non l’uniformità volumetrica, l’attenzione per il patrimonio artistico che contemperi devozione e conoscenze culturali, che non veda dunque la musealizzazione come il grande nemico da combattere, devono caratterizzare questi interventi, pur contrassegnati da orientamenti di fondo innovativi rispetto al passato controriformistico.

Molti altri fronti di riflessione aperti da Montanari meriterebbero di essere discussi; in particolare lo esigerebbe il richiamo ai casi di storia eclatante da lui evocati. Non è però questa la sede per trattarne con adeguata esplorazione. Concludo con un’osservazione a margine, a proposito dell’insegnamento universitario e delle diverse forme di comunicazione che i temi offerti da Montanari richiedono. Mi pare centratissimo il giudizio sull’attuale situazione formulato dall’amica architetto, studiosa di grande levatura, Antonietta Iolanda Lima: “Si è generata una gravissima perdita di cultura, perché si rinuncia alla fertilizzazione feconda che nasce dal guardare oltre la propria disciplina, lasciandosi e lasciandola contaminare, laddove se ne riscontri la positività, da altre espressioni della creatività umana. Né è conseguito un tale depauperamento culturale da incidere negativamente sulla capacità di visione e conseguentemente di azioni adeguate e benefiche per il paesaggio tutto, dal piccolo borgo alle città metropolitane, alle immense megalopoli e al pianeta intero già da decenni in stato di collasso, sempre più prossimo come si evince dallo scenario internazionale” ( da: … ma quale visione senza una cultura diffusa?, in risposta alla domanda posta dall’In/arch “Quale visione d’architettura per città e territori?”, 16 marzo 2018).

Proprio per queste ragioni, le denunce eccessivamente semplificate, il rimbalzo retorico di affermazioni consolatorie in un quadro di graffianti attacchi sempre pronti a individuare colpevoli, dei quali per di più spesso non si conoscono i contributi, presentano il rischio di non aiutare. Forse però stimolano ad un serio dibattito che risvegli la coscienza storica e critica nazionale, caduta in un preoccupante letargo.

Maria Antonietta Crippa

 

 

 

N.d.C. - Maria Antonietta Crippa, architetto, già professore ordinario di Storia dell'architettura al Politecnico di Milano, è stata attiva anche nel campo della conservazione e del restauro di edifici antichi e moderni, dirige la collana Fonti e saggi edita da Jaca Book, l'Istituto per la Storia dell'Arte Lombarda e la "Rivista dell'Istituto per la storia dell'Arte lombarda".

Tra i suoi libri: Carlo Scarpa. Il pensiero, il disegno, i progetti (Jaca Book, 1984); Storia dell'architettura. Il mondo delle costruzioni e le sue immagini (Jaca Book, 1992); Storie e storiografia dell'architettura dell'Ottocento (Jaca Book, 1994); Luigi Caccia Dominioni. Flussi, spazi e architettura (Testo & immagine, 1996); Cremona. il Museo civico Ala Ponzone in Palazzo Affaitati. Il contributo museografico di Antonio Piva (Electa, 2001); Antoni Gaudí, 1852-1926. De la nature à l'architecture (Taschen, 2003; ed. it. 2004, 2007, 2015); con C. Capponi, (a cura di), Gio Ponti e l'architettura sacra. Finestre aperte sulla natura, sul mistero, su Dio (Pizzi, 2005); con D. Cattaneo (a cura di), È Dio il vero tema. Cesare Cattaneo e il sacro (Archivio Cattaneo, 2011); con C. Ajroldi, G. Doti, L. Guardamagna, C. Lenza, M. L. Neri (a cura di), I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento (Mondadori Electa, 2013); con Françoise Caussé, Le Corbusier, Ronchamp. La Cappella di Notre-Dame du Haut (Jaca Book, 2014); Avvicinamento alla storia dell'architettura. Racconto, costruzioni, immagini (Jaca Book, 2016); con F. Zanzottera (a cura di), Fotografia per l'architettura del XX secolo in Italia (Silvana Ed., 2018); a cura di, Antoni Gaudì. Paesaggio come dimora. Progetti di un dialogo tra natura e architettura; fotografie di Marc Llimargas (Jaca Book, 2018); a cura di, Padre Costantino Ruggeri. Artista francescano (Silvana Ed., 2019); a cura di, Italia dall'alto. Storia dell'arte e del paesaggio, fotografie di BAMSphoto Rodella (Jaca Book, 2020); con Piero Cimbolli Spagnesi, Ferdinando Zanzottera, a cura di, Arturo Danusso e il suo tempo. Intuito e scienza nell'arte del costruire (Quasar, 2020); a cura di, Eugène Viollet-le-Duc, Conversazioni sull'architettura. Selezione e presentazione di alcuni Entretiens (Jaca Book, 2021).

Per Città Bene Comune ha scritto: Uno scatto di 'coscienza storica' per le città (20 ottobre 2017); Chiese e città: un tema non solo storiografico (16 novembre 2018).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri

R.R.


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11 MARZO 2022

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Luca Bottini
Oriana Codispoti
Filippo Maria Giordano
Federica Pieri

cittabenecomune@casadellacultura.it

iniziativa sostenuta da:
DASTU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Conferenze & dialoghi

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2021: V. Magnago Lampugnani | G. Nuvolati
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

 

 

Gli incontri

2021: programma/1,2,3,4
 
 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori
2019: Alberto Magnaghi

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021: online/pubblicazione
2022:

V. De Lucia, La lezione del passato per il futuro di Roma, commento a: P. O. Rossi, La città racconta le sue storie (Quodlibet 2021)

M. Colleoni, Mobilità: non solo infrastrutture, commento a: P. Pucci, G. Vecchio, Enabling mobilities (Springer, 2019)

G. Nuvolati, Una riflessione olistica sul vivere urbano, commento a: A. Mazzette, D. Pulino, S. Spanu, Città e territori in tempo di pandemia (FrancoAngeli, 2021)

E. Manzini, Immaginazione civica, partecipazione, potere, commento a: M. d'Alena, Immaginazione civica (Luca Sossella, 2021)

C. Olmo, Gli intellettuali e la Storia, oggi, commento a: S. Cassese, Intellettuali (il Mulino, 2021); A. Prosperi, Un tempo senza storia (Einaudi, 2021)

A. Bagnasco, Quale sociologia e per quale società?, commento a: A. Bonomi (a cura di), Oltre le mura dell’impresa (DeriveApprodi 2021)

R. Pavia, Le parole dell'urbanistica, commento a A. A. Clemente, Letteratura esecutiva (LetteraVentidue, 2020)

G. Laino, L'Italia ricomincia dalle periferie, commento a: F. Erbani, Dove ricomincia la città (Manni, 2021)

G. Consonni, La bellezza come modo di intendersi, commento a: M. A. Cabiddu, Bellezza. Per un sistema nazionale (Doppiavoce, 2021)