Jacopo Gardella  
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IMMIGRAZIONE, INTEGRAZIONE, DIRITTO ALLA CASA


Commento al libro di Lodovico Meneghetti



Jacopo Gardella


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Il commento di un libro non deve essere il riassunto di quello che il libro racconta; per avere notizia degli argomenti trattati in un libro è sufficiente leggere il risvolto di copertina. Il commento di un libro, piuttosto, dovrebbe essere l'esposizione dei pensieri che il libro suscita durante la sua lettura, il complesso delle riflessioni nate da ciò che il libro presenta e descrive. In sostanza, il commento di un libro finisce con l'essere la base per un altro libro, un secondo libro nato dagli stimoli che il libro originale provoca e alimenta. Il denso e coraggioso libretto di Lodovico Meneghetti ('libretto' per la piccola entità delle sue dimensioni non certo per la alta qualità del suo contenuto) - "Siamo partiti col nostro onore…". Gli emigrati di ieri e di oggi (Ogni uomo è tutti gli uomini, 2018) ha proprio questo carattere: suscita pensiero critico, riflessione, passione civile. E forse sarà il seme di un altro libro.

Il testo di Meneghetti è articolato in due parti. Nella prima si considera e commenta il fenomeno dell'emigrazione interna avvenuta negli anni Cinquanta e Sessanta, proveniente quasi interamente dall'Italia del Sud e diretta prevalentemente verso Torino, dove la Fiat rappresentava il punto di attrazione e la meta di lavoro per una popolazione le cui terre di origine erano afflitte da una disoccupazione endemica. Nella seconda parte si parla dell'emigrazione italiana avvenuta negli stessi anni e diretta verso la Germania Occidentale, allora Repubblica Federale Tedesca, dove l'industria di automobili Volkswagen aveva ampliato i suoi impianti d'anteguerra e aveva fatto diventare la cittadina di Wolfsburg, situata nel cuore della Bassa Sassonia, un importante centro industriale che richiamava manodopera. Quelli trattati da Meneghetti sono entrambi due fenomeni storici di grande rilevanza sociale che, insieme all'aspetto positivo di un lavoro offerto e assicurato a molti operai altrimenti privi di possibilità di sussistenza, presentano aspetti critici di particolare serietà. La situazione tuttavia era molto diversa nell'uno e nell'altro caso: più problematica a Torino quando il fenomeno dell'arrivo in massa di manodopera meridionale avveniva in un periodo in cui lo Stato italiano appena uscito dalla guerra non aveva ancora saputo avviare serie politiche di welfare a favore dei lavoratori. Meno difficile a Wolfsburg, cittadina di una Germania che, pur essendo passata attraverso una guerra devastante, poteva contare su risorse pubbliche più efficaci nell'azione di sostegno alle classi meno abbienti ed era in grado di ricorrere a organizzazioni più pronte a instaurare un vero "Stato assistenziale" in modo esteso e capillare. Meneghetti, oltre a mettere in luce alcuni comportamenti censurabili tenuti in Italia dai nostri datori di lavoro consci dei loro vantaggi e sicuri di farla franca perché sostenuti da governi di centro-destra, evidenzia le notevoli differenze di trattamento lavorativo e assistenziale che si verificarono nei due contesti. E sono differenze sempre a favore della Germania sebbene anche in quel contesto non siano mancati, né manchino tuttora, manifestazioni di insofferenza e di incomprensione da parte della popolazione locale rivolte contro i nuovi arrivati dall'estero provenienti soprattutto dall'Italia e dalla Turchia.

Il punto di maggior attrito tra la Fiat e i suoi dipendenti non sempre si esaurisce in questioni sindacali ma si estende a rivendicazioni di altro tipo. Nel 1969, per esempio, fu indetto un grande sciopero generale non per ottenere aumenti salariali o migliori condizioni di lavoro ma - per la prima volta nella storia delle lotte operaie - per vedere riconosciuto il diritto alla casa (v. pag. 13 del testo di Meneghetti). La classe dirigente torinese, infatti, offriva, se così si può dire, agli immigrati provenienti dal Sud possibilità abitative a dir poco vergognose: stalle dismesse collocate quasi in campagna ai confini del territorio comunale e quindi lontanissime dai posti di lavoro; soffitte degradate situate nel centro città ma prive delle minime e indispensabili dotazioni igieniche; case-alloggio ossia dormitori collettivi all'interno dei quali il posto branda veniva affittato a rotazione e utilizzato alternativamente nelle ore diurne e notturne da diverse persone (pag. 11). In tale situazione, è chiaro che, immediatamente dopo la sicurezza di un salario, la casa sia diventata la rivendicazione sociale di maggiore urgenza, il punto di più intenso attrito nella lotta sindacale: l'alloggio è il primo indispensabile aiuto per favorire e facilitare l'integrazione degli immigrati e il loro ingresso in una nuova società. Vitto, sanità e istruzione, seppure non meno indispensabili, sono più facilmente accessibili a chi ritira un seppur misero salario alla fine del mese. Ma la casa sovrasta ogni altra esigenza, è la condizione primaria per una vita che sia appena decente. Senza una casa l'operaio di allora o l'immigrato di oggi è senza ancora; è un'anima randagia, un essere sballottato dal vento e dagli eventi. Dunque è chiara la ragione per cui Meneghetti insiste su questo problema, un tema che, tra l'altro, questo autore - architetto colto e impegnato - conosce bene e sente come se fosse suo.

Riflettere oggi sul tema della casa, fa emergere le gravi colpe della nostra società, le imperdonabili carenze del Governo italiano di questi ultimi decenni. Dopo l'encomiabile Piano per la Casa dei Lavoratori, voluto coraggiosamente dal senatore democristiano Amintore Fanfani nel secondo dopoguerra, nessun governo successivo ha mai preso in mano, in modo altrettanto capillare ed esteso, il problema degli alloggi popolari. Nessun governo ha dato una risposta altrettanto ampia e radicale alle esigenze abitative dei numerosi operai emigrati dal Sud Italia: non il governo del socialista Craxi né quello del comunista D'Alema. Nessun partito di indirizzo marxista ha saputo fare tanto quanto erano riusciti a realizzare gli uomini di una corrente politica, quella della sinistra democristiana, capace di dimostrarsi aperta, sensibile e per molti aspetti perfino illuminata. Bisogna riconoscere che la tanto vituperata Democrazia Cristiana, oggetto di aspre critiche - peraltro spesso decisamente giustificate - si è dimostrata capace di attuare una politica per la casa concreta ed efficace più di quanto non abbiano saputo fare i partiti tenuti a difendere i bisogni del popolo.

Leggendo le raccapriccianti descrizioni degli alloggi di fortuna destinati agli immigrati meridionali giunti a Torino in cerca di lavoro, vengono in mente alcune struggenti scene iniziali della pellicola Rocco e i suoi fratelli, capolavoro del regista Luchino Visconti. Mentre all'inizio e durante la prima metà del secolo scorso alcuni industriali illuminati avevano pensato al problema dell'alloggio per i loro operai e avevano fatto erigere residenze dignitose e confortevoli per i loro dipendenti, negli anni successivi i datori di lavoro non sono stati capaci di fare altrettanto e non hanno saputo dare ai loro operai e impiegati una sistemazione abitativa che fosse degna di persone civili. Ma dove i privati dimostravano di non sapere agire avrebbe dovuto intervenire lo Stato: così, però, non è avvenuto. L'esempio dato dagli industriali Crespi con le abitazioni per i loro dipendenti fatte costruire tra Otto e Novecento presso lo stabilimento tessile di Crespi d'Adda; quello dato dall'industriale Olivetti con le case operaie realizzate a Ivrea; o l'ulteriore esempio dato dall'Industria Metallurgica Ossolana con gli alloggi per le sue maestranze realizzate in Val d'Ossola, sostanzialmente non è stato seguito, tanto meno dallo Stato. Anche più di recente, si deve purtroppo constatare che nessuna iniziativa pubblica è stata presa al fine di supplire alla mancanza di sensibilità sociale propria dei nostri capitani di industria. In generale, la coscienza dell'imprenditoria italiana privata e pubblica nei riguardi del problema della casa popolare è rimasta debole, quasi inesistente; e ciò a danno di tutti coloro che avevano e hanno bisogno di una casa tanto che provengano dal Sud Italia quanto dal Nord Africa.

Riflettendo sulle condizioni deplorevoli a cui allora gli emigrati meridionali erano condannati e vedendo oggi la situazione disumana riservata agli emigrati extracomunitari rinchiusi in campi di raccolta e di smistamento se non in baraccopoli improvvisate, viene spontaneo porsi qualche domanda: c'è forse differenza tra le condizioni di allora e quelle di adesso? Si è forse evoluta e ha preso maggiore coscienza del problema assistenziale la società di oggi rispetto a quella di ieri? Vi è un migliore comportamento, un progresso civile, una coscienza più matura e sensibile di fronte al dramma degli immigrati provenienti allora dalle regioni del Sud Italia e oggi dal Nord Africa? La risposta è probabilmente negativa. Piuttosto, sorgono molte perplessità, parecchi dubbi. L'intervento pubblico, che in una società democratica dovrebbe in parte sostituirsi all'iniziativa privata, è del tutto assente. Fatta eccezione per la situazione di emergenza affrontata con spirito di abnegazione dalla nostra Marina Militare; esclusi l'aiuto e i salvataggi portati a termine sia dai nostri bravi marinai sia dalle Organizzazioni Non Governative (ONG), per il resto non si è vista da parte della classe politica nessuna iniziativa organica e razionale volta all'accoglienza degli immigrati; nessuna azione pubblica volta all'assistenza, all'avviamento, alla preparazione in vista di un lavoro che sia alla portata di donne e uomini raccolti in mare e sbarcati sulle nostre coste. Nessuna attenzione a creare condizioni abitative minimamente dignitose.

Torniamo a Meneghetti. Meno drammatica di quanto non fosse quella di Torino era la situazione dei migranti arrivati in Germania dall'Italia ma soprattutto dalla Turchia, in buona parte, abbiamo detto, accolti nella cittadina di Wolfsburg e assunti dalla Volkswagen. Lì esisteva, ed esiste ancora, un'adeguata organizzazione sia privata che pubblica volta a fornire non solo le basi elementari di sussistenza ma una risposta allargata anche a bisogni meno primari di quanto non siano quelli dell'alloggio, del vitto, dell'assistenza sanitaria. A Wolfsburg sono stati aperti circoli di ritrovo, biblioteche, musei, luoghi di ricreazione e di gioco, asili nido, ospedali; ma soprattutto si è diffusa un'abitudine ad accogliere senza eccessiva diffidenza, o meglio senza ostentata diffidenza, persone straniere provenienti anche da nazioni extraeuropee. E le abitazioni assegnate ai forestieri-lavoratori sono decenti, civili, decorose. A suo tempo, ci ricorda per esempio Meneghetti, "non furono usate le vecchie baracche ma fu costruito un vero e proprio Villaggio degli Italiani formato da case a due piani prefabbricate in legno e contenenti ciascuna sevizi comuni (cucina, lavanderia, docce)" (pag. 28).

Non si creda tuttavia che nella Germania di allora tutto fosse roseo, facile, gradevole. Così come oggi, per gli stranieri esistono anche in quel Paese zone d'ombra, motivi di amarezza, discriminazioni. La differenza di provenienza etnica o geografica esiste, si sente, pesa anche in quel contesto. I tedeschi, è vero, accettano gli stranieri senza difficoltà e li accolgono volentieri perché utili alla loro economia ma li tollerano con fatica e stentano a integrarli veramente e considerarli loro pari. In un'intensa pellicola diretta dal regista tedesco Rainer Werner Fassbinder intitolata La paura mangia l'anima questa diffidenza degli autoctoni per i forestieri emerge chiaramente: diffidenza a volte tacita, non sempre nascosta, spesso palesemente esibita soprattutto se i forestieri sono di provenienza africana. La pellicola mette in luce le brucianti umiliazioni, le costanti sofferenze, le offese morali più che materiali che i nuovi arrivati devono subire; e mostra come le persone nate in quel luogo, anche se generose e altruiste, stentino a superare i loro pesanti pregiudizi. Tutto ciò avviene oggi come avveniva in passato; è il risultato di contrasti e di incomprensioni difficili da superare; è l'effetto di disuguaglianze profonde e radicate che è faticoso cancellare. Tuttavia a Wolfsburg il conforto materiale e le facilitazioni offerte nelle pratiche della vita di tutti i giorni sono diffusi e generalizzati: e garantiscono lì come nel resto della Germania un livello di vita più che decente anche a chi non è nativo di quel Paese favorendo così l'integrazione.

Che dire invece di quel che è successo e succede in Italia? Qui mancano contemporaneamente sia il rispetto e la buona educazione, sia le facilitazioni pratiche e il sussidio materiale. Non vi sono gesti di cortesia e non vi sono offerte di alloggio. Da noi bruttissimi episodi di razzismo sono sempre più frequenti (tutti abbiamo visto, recentemente, la giovane atleta africana ferita all'occhio da un oggetto contundente lanciatole addosso da un teppista italiano). Un fenomeno che, purtroppo, è diffuso in tutta Europa dove a volte, fin dal dopoguerra, la mancanza di misure di sicurezza adeguate ha trasformato l'ostilità in vera e propria tragedia. A Marcinelle, località mineraria presso la città di Charles-Roi in Belgio, nel 1956 una spaventosa esplosione sotterranea ha ucciso 262 minatori di cui 136 italiani di provenienza abruzzese. Non si è mai saputo se il disastro fosse stato causato da inadempienze, da errori dei lavoratori, dalle carenze della direzione della miniera oppure da una inevitabile e imprevedibile disgrazia. È certo, tuttavia, che le vittime appartenevano tutte a ceti sociali poveri e molte erano immigrate. Nel 1954 a Ribolla, nella provincia di Grosseto in Toscana, le vittime furono 43, quasi sicuramente decedute per carenza di sistemi di sicurezza che avrebbero dovuto essere forniti dalla Montecatini giunta in fase di chiusura delle sue attività. E come spesso succede nelle imprese private in procinto di smobilitare le loro attrezzature le spese destinate alla sicurezza dei lavoratori vengono diminuite drasticamente e senza scrupoli giacché rientrano nei costi non più ammortizzabili.

Il problema dell'immigrazione non riguarda solo l'Italia e la Germania ma è oggi di scala europea, ampio e drammatico. Si deve purtroppo riconoscere che l'Europa non ha saputo - né voluto - affrontare adeguatamente la questione la cui soluzione appare lontana. Di fronte al dramma degli immigrati, l'Europa aveva davanti a sé una sola scelta onorevole: quella di cogliere l'opportunità unica e irripetibile di manifestare la sua capacità organizzativa, la sua volontà di accoglienza, la sua comprensione per le popolazioni meno fortunate. Cinquecento milioni di europei avrebbero ben dovuto saper accogliere senza sforzo né fatica dieci milioni di stranieri. Un intero continente avrebbe dovuto saper ricevere il due per cento di stranieri rispetto al totale dei suoi abitanti. Non vi sono scuse che possano giustificare il vergognoso fallimento delle fragili politiche messe in campo che testimoniano dell'incapacità dell'Europa di essere generosa e altruista. Non vi sono attenuanti per perdonare l'inerzia, la mancanza di iniziativa, l'indifferenza e l'apatia di fronte alla continua tragedia dei morti nelle acque del Mediterraneo. Alla vista di quello spaventoso spettacolo le reazioni degli stati europei e dei loro cittadini sono state troppo deboli. Tutti hanno manifestato una totale incapacità di progettare soccorsi, un vergognoso rifiuto di mettere in pratica un'efficace azione di salvataggio, inettitudine nell'attuare convincenti politiche di accoglienza e integrazione.

La stessa cattiva coscienza, o totale mancanza di coscienza, la stessa dose di indifferenza e di cinismo già constata in passato per molti versi a Torino o per altri a Wolfsburg, oggi si sta palesando in tutto il Vecchio continente, tanto che sempre più di frequente siamo di fronte non tanto a una cattiva accoglienza degli immigrati extraeuropei, quanto a un vero e proprio rifiuto. Il triste e vergognoso episodio della nave Acquarius carica di disperati - respinta dai porti italiani, non accolta dai porti francesi, costretta alla fine di un lungo calvario per mare ad attraccare in un porto spagnolo - è un esempio che indigna e lascia attoniti. Torna a proposito un recente testo del filosofo francese Stephan Hesse intitolato Indignatevi!: sembra pubblicato apposta per scuotere i giovani, i loro padri e le loro madri, dalla coltre di inerzia, di indifferenza, di crudeltà che sta dilagando. Di fronte alla tragica presenza di persone in estrema difficoltà e per giunta vittime di spietati individui che lucrano sulle loro condizioni, l'Europa tace, si disinteressa, resta immobile.

Per concludere, il testo di Lodovico Meneghetti non è soltanto una cronaca dell'emigrazione operaia in Italia e in Germania avvenuta a metà del XX secolo. È piuttosto un invito a prendere finalmente coscienza delle condizioni in cui è avvenuta, e avviene tuttora, l'immigrazione extraeuropea. Il suo sottotitolo, Gli emigrati di ieri e di oggi, pare richiamarci alle nostre responsabilità di fronte alla situazione amara e desolata a cui stiamo assistendo e alla nostra incapacità a fare tesoro dell'insegnamento della storia. Cambiano i tempi ma, ahimè, non cambiano le situazioni e non migliorano le persone.

Jacopo Gardella

 

 

 

N.d.C. - Jacopo Gardella, architetto, ha iniziato la sua carriera professionale con il padre Ignazio. Assistente universitario di Pier Giacomo Castiglioni e Aldo Rossi, ha insegnato come docente a contratto nelle Facoltà di Architettura di Pescara-Chieti, Torino, Venezia, Ascoli Piceno e Milano-Bovisa. Ha collaborato con "L'Europeo", la Radio Svizzera Italiana e "La Repubblica". Tra le sue opere: sezione italiana della XIV Triennale di Milano, con M. Platania, 1° premio (1968); sala di lettura del Politecnico di Milano (1994-2000); adeguamento del Teatro G. Rossini a Pesaro, con A. Ciccarini, 1° premio (1997- 2003); arredo della "Sala Lalla Romano" all'interno della Pinacoteca di Brera a Milano (2013).

Per Città Bene Comune ha scritto: Mezzo secolo di architettura e urbanistica, dialogo immaginario sulla mostra 'Comunità Italia' (5 marzo 2016); Disegno urbano. La lezione di Agostino Renna (13 aprile 2017); Architettura e Urbanistica per fare comunità (13 aprile 2017); Attenzione al clima e alla qualità dei paesaggi (23 marzo 2018).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

16 NOVEMBRE 2018

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

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Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018:

M. A. Crippa, Chiese e città: un tema non solo storiografico, commento a G. Meduri, Quarant'anni di architettura sacra in Italia 1900-1940 (Gangemi, 2016)

G. Di Benedetto, L'architettura e la sostanza delle cose, commento a: C. Baglione ( a cura di) Angelo Torricelli. Architettura in Capitanata (Il Poligrafo, 2014)

P. Pileri, Udite, udite: gli alberi salvano le città!, commento a: F. Hallé, Ci vuole un albero per salvare la città (Ponte alle Grazie, 2018)

A. Cagnato, Il paesaggio e la convenzione disattesa, seconda parte del commento a: A. Calcagno Maniglio (a cura di), Per un Paesaggio di qualità (FrancoAngeli 2015)

P. Ceccarelli, De Carlo a Catania: una lezione per i giovani, commento a: A. Leonardi, C. Cantale (a cura di), La gentilezza e la rabbia (Editoriale Agorà, 2017)

A. Cagnato, Il paesaggio e la convenzione disattesa, prima parte del commento a: A. Calcagno Maniglio (a cura di), Per un Paesaggio di qualità (FrancoAngeli 2015)

P. Gabellini, Un nuovo lessico per un nuovo ordine urbano, commento a: F. Indovina, Ordine e disordine nella città contemporanea (FrancoAngeli, 2017)

E. M. Tacchi, Anche quelli interni sono migranti, commento a: M. Colucci, S. Gallo (a cura di), Fare Spazio (Donzelli, 2016)

A. Calcagno Maniglio, Esistono gli specialisti del paesaggio?, commento a: S. Settis, Architettura e democrazia (Einaudi, 2017)

R. Balzani, Suolo bene comune? Lo sia anche il linguaggio, commento a: M. Casa, P. Pileri, Il suolo sopra tutto (Altreconomia, 2017)

A. Clementi, Un nuovo paesaggio urbano open scale, commento a: C. Ratti, La città di domani (con M. Claudel, Einaudi, 2017)

L. Meneghetti, Stare con Settis ricordando Cederna, replica alla posizione di Marco Romano e Francesco Ventura

C. Bianchetti, Lo spazio in cui ci si rende visibili e la cerbiatta di Cuarón, commento a: C. Olmo, Città e democrazia (Donzelli, 2018)

F. Ventura, Sapere tecnico e etica della polis, commento a: S. Settis, Architettura e democrazia (Einaudi, 2017)

P. Pileri, L'urbanistica deve parlare a tutti, commento a: Anna Marson (a cura di), La struttura del paesaggio (Laterza, 2016)

F. Indovina, Non tutte le colpe sono dell'urbanistica, commento a: I. Agostini, E. Scandurra, Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018)

M. Balbo, Disordine? Il problema è la disuguaglianza, commento a: F. Indovina, Ordine e disordine nella città contemporanea (FrancoAngeli, 2017)

R. Milani, Viaggiare, guardare, capire città e paesaggi, commento a: C. de Seta, L'arte del viaggio (Rizzoli, 2016)

F. Gastaldi, Un governo del territorio per il Veneto?, commento a: M. Savino, Governare il territorio in Veneto (Cleup, 2017)

G. Nuvolati, Tecnologia (e politica) per migliorare il mondo, commento a: C. Ratti, La città di domani (con M. Claudel, Einaudi, 2017)

F. Mancuso, Città come memoria contro la barbarie, commento a: A. Zevi, Monumenti per difetto (Donzelli, 2014)

M. Morandi, Per una Venezia di nuovo vissuta, commento a: F. Mancuso, Venezia è una città (Corte del Fontego, 2016)

R. Pavia, Leggere le connessioni per capire il pianeta, commento a: P. Khanna, Connectography (Fazi, 2016)

G. Consonni, In Italia c'è una questione urbanistica?, commento a: I. Agostini, E. Scandurra, Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018)

M. Romano, Memoria e bellezza sotto i cieli d'Europa, commento a: S. Settis, Cieli d'Europa (Utet, 2017)

V. Biondi, La nuova crisi urbana negli USA, commento a: R. Florida, The New Urban Crisis (Basic Books, 2017)

P. Colarossi, Per un ritorno al disegno della città, commento a: R. Cassetti, La città compatta (Gangemi, 2012, rist. 2015)

A. Clementi, In cerca di innovazione smart, commento a: C. Morandi, A. Rolando, S. Di Vita, From Smart Cities to Smart Region (Springer, 2016)

P. Pucci, La giustizia si fa (anche) con i trasporti, commento a: K. Martens, Transport Justice. Designing fair transportation systems, (Routledge, 2017)

E. Trusiani, Ritrovare Mogadiscio, commento a: N. Hagi Scikei, Exploring the old stone town of Mogadishu (Cambridge Scholars Publishing, 2017)

A. Villani, Post-metropoli: quale governo?, commento a: A. Balducci, V. Fedeli, F. Curci, Oltre la metropoli (Guerini, 2017)

R. Cuda, Le magnifiche sorti del trasporto su gomma, commento a: M. Ponti, Sola andata (Egea 2017)

F. Oliva, Città e urbanistica tra storia e futuro, commento a: C. de Seta, La civiltà architettonica in Italia dal 1945 a oggi (Longanesi, 2017) e La città, da Babilonia alla smart city (Rizzoli, 2017)

J. Gardella, Attenzione al clima e alla qualità dei paesaggi, commento a: M. Bovati, Il clima come fondamento del progetto (Marinotti, 2017)

R. Bedosti, A cosa serve oggi pianificare, commento a: I. Agostini, Consumo di luogo (Pendragon, 2017)

M. Aprile, Disegno, progetto e anima dei luoghi, commento a: A. Torricelli, Quadri per Milano (LetteraVentidue, 2017)

A. Balducci, Studio, esperienza e costruzione del futuro, commento a: G. Martinotti, Sei lezioni sulla città (Feltrinelli, 2017)

P. C. Palermo, Il futuro di un Paese alla deriva, riflessione sul pensiero di Carlo Donolo

G. Consonni, Coscienza dei contesti come prospettiva civile, commento a: A. Carandini, La forza del contesto (Laterza, 2017)

P. Ceccarelli, Rappresentare per conoscere e governare, commento a: P. M. Guerrieri, Maps of Delhi (Niyogi Books, 2017)

R. Capurro, La cultura per la vitalità dei luoghi urbani, riflessione a partire da: G. Consonni, Urbanità e bellezza (Solfanelli, 2017)

L. Ciacci, Il cinema per raccontare luoghi e città, commento a: O. Iarussi, Andare per i luoghi del cinema (il Mulino, 2017)

M. Ruzzenenti, I numeri della criminalità ambientale, commento a: Ecomafie 2017 (Ed. Ambiente, 2017)

W. Tocci, I sentieri interrotti di Roma Capitale, postfazione di G. Caudo (a cura di), Roma Altrimenti (2017)

A. Barbanente, Paesaggio: la ricerca di un terreno comune, commento a: A. Marson (a cura di), La struttura del paesaggio (Laterza, 2016)

F. Ventura, Su "La struttura del Paesaggio", commento a: A. Marson (a cura di), La struttura del paesaggio (Laterza, 2016)

V. Pujia, Casa di proprietà: sogno, chimera o incubo?, commento a: Le famiglie e la casa (Nomisma, 2016)

R. Riboldazzi, Che cos'è Città Bene Comune. Ambiti, potenzialità e limiti di un'attività culturale

 

 

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