Renzo Riboldazzi  
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PATRIZIA GABELLINI A CITTÀ BENE COMUNE 2019


Le ragioni di un incontro



Renzo Riboldazzi


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Martedì 14 maggio, alle 18.00, Patrizia Gabellini (1) sarà alla Casa della Cultura di Milano per discutere del suo ultimo libro - Le mutazioni dell'urbanistica. Principi, tecniche, competenze (Carocci, 2018) - con Franco Farinelli - già professore ordinario di Geografia dell'Università di Bologna e presidente dell'Associazione dei Geografi Italiani -, Pier Carlo Palermo - già professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica del Politecnico di Milano, direttore del Dipartimento di Architettura e Pianificazione e preside della Facoltà di Architettura e Società dello stesso ateneo -, Silvia Viviani - architetto, urbanista e presidente dell'Istituto Nazionale di Urbanistica - e con quanti vorranno partecipare all'incontro. Si tratta del secondo appuntamento della settima edizione di Città Bene Comune, ciclo sulla città, il territorio, il paesaggio e le relative culture progettuali, curato da chi scrive e prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano (2).

 

Perché questo libro?

Se vi interessasse avere un quadro dei temi e delle questioni dell'urbanistica contemporanea - o, meglio: sapere di cosa si occupano, provano o dovrebbero occuparsi gli urbanisti; con quale approccio e sulla base di quali competenze o investitura politica o sociale operano; in che direzione sta andando, soprattutto in Italia, la ricerca scientifica sui temi del progetto e del governo della città e del territorio; quali tentativi sono stati fatti da alcune amministrazioni per rispondere a inedite situazioni a cui gli strumenti tradizionali della disciplina non potevano/sapevano fare fronte -, il libro di Patrizia Gabellini fa al caso vostro. Dietro una copertina senza pretese e con un titolo che, senza giri di parole, dichiara seccamente (e forse perfino con un filo di ostentato orgoglio) di occuparsi di urbanistica, si cela un lavoro ampio e articolato che parla proprio e soprattutto delle condizioni di questa poliedrica disciplina. Che volutamente non si concede troppe divagazioni in altri ambiti culturali di cui, certo, l'urbanistica - "costitutivamente 'olistica'" (p. 11) - si è nutrita e ancora si nutrirà ma, altrettanto certamente, rappresentano sempre più frequentemente una sorta di alibi per non andare al cuore dei problemi. Per sollevare questioni di per sé significative e intellettualmente stimolanti ma che, il più delle volte rimangono lì, prigioniere del proprio solipsismo senza incidere veramente la corteccia della città, del territorio, della vita che in essi scorre. Oppure passano velocemente come certe meteore che si infiammano al contatto con l'atmosfera ma subito spariscono nelle tenebre, senza dare quel contributo costruttivo al miglioramento delle pratiche urbanistiche - quelle che depositano i loro effetti concreti sulla fisicità del nostro ambiente - che l'urbanista come intellettuale, sia esso studioso o professionista, sarebbe - crediamo - deontologicamente tenuto a dare. Anzi, per l'autrice - ma anche per tutti noi -, di fronte alle immani sfide che l'urbanistica dovrebbe affrontare, a questo punto sembra perfino "ineludibile tentare di decifrare che cosa hanno comportato […] decenni di sconfinamenti e contaminazioni per riuscire a procedere consapevolmente nel lavoro" (p. 12) teorico di ridefinizione dell'identità disciplinare e del suo fare concreto, quello che investe la vita di tutti i cittadini. Dunque, scegliere di mantenere nel titolo del libro il termine 'urbanistica' e "riproporla oggi [alla riflessione pubblica], a fronte della straordinaria varietà ed estensione di significati che si sono aggiunti nelle pratiche inerenti il territorio - afferma l'autrice - è una scelta e non una stanca inerzia" (p. 9). Una scelta piuttosto coraggiosa se pensiamo allo scarso credito di cui gode la disciplina agli occhi della società civile che, tuttavia, pervade tutto il lavoro di Patrizia Gabellini senza ingabbiare oltre misura in una dimensione riduttivamente pragmatica la sua riflessione sul presente e il futuro della città, del territorio, del paesaggio e delle culture progettuali ad essi relative. Senza neppure inchiodare il corpo disciplinare sulla croce di una tecnica rigida e incapace di qualsiasi flessione per effetto delle temperie del momento. L'urbanistica, infatti, fin dalla nascita, "si muove tra contingenza e visione, tra passato presente e futuro, tra tecnica e politica, tra politica e amministrazione [e] proprio per questo - afferma l'autrice - non può che rimanere discutibile e richiede un incessante riposizionamento dei suoi cultori, pena un inconcludente e avvilente impoverimento delle pratiche a essa connesse" (p. 10). Non è un caso, dunque, che la seconda parola chiave del libro, contenuta anche nel titolo, sia 'mutazioni'. E non è un caso che l'autrice indaghi a fondo la direzione o le possibili direzioni verso cui queste avvengono o, presumibilmente, avverranno. Per queste ragioni, il libro - se ne condividano o meno gli assunti teorici formulati - può essere considerato un buon punto di partenza per la riflessione che, dal 2013, Città Bene Comune si propone di contribuire a suscitare.

 

Un'introduzione alle tesi di Patrizia Gabellini (e qualche elemento di discussione)

1. Qualcosa è cambiato

Perché l'urbanistica è mutata, sta tuttora mutando ed eventualmente dovrà ancora mutare, rispetto a quella praticata e codificata dal punto di vista teorico e normativo nel Novecento? Sembra essere questa una delle domande di fondo che l'autrice si pone e a cui prova a rispondere nel libro.

Per prima cosa - osserva Gabellini - è cambiato quello che sostanzialmente per quasi tutto il secolo scorso è stato l'oggetto principale del piano: la città. Quella cosiddetta 'compatta', per esempio, - ovvero quella di cui erano chiari i confini con la campagna, dove le case, i palazzi, le chiese si innervavano, uno accanto all'altro, su una trama di spazi pubblici estesa a tutto il territorio urbano che aveva un limite chiaro - non esiste più. "Nonostante venga continuamente evocata e indicata come la prospettiva cui tendere, [questa forma di città] - afferma l'autrice - appare decisamente consunta […] a fronte di delimitazioni dell'urbano assolutamente incerte, interconnessioni tra piccole città, centri e nuclei, insiemi di spazi" (p. 25). Una situazione che, piaccia o no, appare talmente diffusa in numerose aree del paese e del resto d'Europa da rendere anche "le partizioni politico-amministrative [inconsistenti nella loro possibilità] di indicare insiemi urbani e territoriali omogenei" e con essi inefficaci gli strumenti di pianificazione (p. 24). Questo al punto da richiedere un modo differente di leggere e interpretare la condizione dei contesti. Quella che Gabellini propone - e che per distinguerla dalla precedente chiama 'città arcipelago' - è, al contrario, "una rappresentazione discriminante rispetto a quella della città compatta, in primo luogo perché distrugge il presupposto che l'urbano si identifichi con l'ordine morfologico, poi - spiega - perché apre con sufficiente chiarezza una prospettiva entro la quale progetti, politiche, azioni devono essere capaci di apprendere dalle condizioni esistenti, accettando la mutazione insita nella disgregazione della città moderna" (p. 27).

In secondo luogo - osserva l'autrice - è cambiato il modo in cui la città - forse, date le condizioni attuali, sarebbe più corretto dire il 'territorio urbanizzato' - muta e, nel suo mutare, chiede governo e progetto. La straordinaria spinta alla crescita del corpo urbano, data dall'aumento della popolazione e dalle esigenze della produzione industriale, a cui dovevano fare fronte amministratori e urbanisti che hanno operato nel secolo scorso in tutta Europa si è esaurita. Oggi ci troviamo più frequentemente di fronte a "fenomeni di restringimento, ritrazione, contrazione [che] da incipienti sono diventati conclamati e interessano città grandi e piccole, aree centrali e periferiche" (p. 19). In altri termini - osserva Gabellini -, siamo, almeno in Italia e in molti paesi occidentali, a "un tornante della storia urbana e urbanistica del secondo dopoguerra: la fine dei (lunghi) cicli urbani espansivi e con essa una complessiva ridefinizione dei modi di intervento" (p. 65). "I limiti dello sviluppo - sostiene l'autrice - non sono più sintomi, segnali colti e indagati da studiosi e centri di ricerca, ma sono diventati evidenze, percezioni comuni" (p. 20) di cui non possiamo fare a meno di tenere conto nel nostro immaginare forme di progetto e governo della città e del territorio.

Terzo, è cambiata la società - "non più classi [a cui tradizionalmente hanno fatto riferimento la politica e l'urbanistica nel Novecento] ma porzioni trasversali di ceti, gruppi, etnie, razze, generi (agglutinate in miscele sempre diverse)" (p. 53) - mentre non è venuta meno la necessità, per l'urbanistica e più in generale per la società civile, di operare in primo luogo a favore dei più deboli e, perciò - afferma Gabellini - "le componenti maggiormente penalizzate della popolazione urbana vanno riconosciute e [ancora, come tradizionalmente l'urbanistica moderna ha provato a fare, adeguatamente] rappresentate" (p. 53).

Quarto, sono cambiati i fenomeni a cui l'urbanistica dovrebbe dare una risposta. Tra i più eclatanti, la questione ambientale. Irrisolti e acuiti - tanto nelle loro condizioni quanto nella percezione della loro gravità - i classici problemi dell'inquinamento ambientale con cui l'urbanistica moderna si era già misurata - per esempio, osserva Gabellini, "il disinquinamento di aria, suolo e sottosuolo è ormai riconosciuto come condizione di sopravvivenza (della specie umana tra le altre specie viventi) e in tal senso è obiettivo di valenza universale" (p. 48) che l'urbanistica non può esimersi dal perseguire -, appare sempre più inderogabile una risposta anche su altri fronti assai più complessi e non risolvibili con la tecnologia. È ormai evidente a tutti, o quasi, la "necessità di risparmiare risorse e crearne di nuove" (p. 21), anche spostando "il fuoco [dell'azione amministrativa e progettuale] dal consumo di suolo ([il fenomeno] più eclatante della diffusione insediativa) al consumo di ambiente" (p. 21). Così come è evidente il tema dei cambiamenti climatici la cui soluzione - è convinzione diffusa - "invoca una adeguata traduzione nelle tante aree del sapere applicato" (p. 11) compreso quello della pianificazione. Ora, non che l'urbanistica sia del tutto sorda al richiamo di queste questioni fondamentali per tutti noi ma - osserva Gabellini - "benché la letteratura specialistica tratti da tempo questi temi, essi faticano […] a connotare politica e politiche urbane" (p. 21) e dunque - anche per gli impatti economici che comportano se non adeguatamente supportati da finanziamenti pubblici - restano di fatto assenti, o almeno non adeguatamente presenti, nel discorso sul futuro della città e del territorio.

Quinto: è cambiato il modo di vivere la città - in qualunque forma la si consideri - e il territorio. È cambiato - e, prevedibilmente, grazie alle nuove tecnologie cambierà ancor più drasticamente - il modo di lavorare e con questo i luoghi del lavoro così come "il tempo obbligato [del lavoro o dell'accesso ai servizi che] lascia il posto a un tempo scelto e comunque non predefinito, non normato" (p. 41). Telelavoro, smart working, orari flessibili o nuove forme di sfruttamento del precariato, così come le aperture indiscriminate delle attività commerciali, impattano e impatteranno sempre più significativamente sulla vita delle città, sul modo di vivere e abitare. Un abitare che per fasce sociali sempre più ampie e differenziate dal punto di vista del livello di istruzione e dei redditi si connota anche per una condizione di instabilità residenziale prossima, per molti versi, al nomadismo. Questa "modifica la relazione con i luoghi e la loro memoria" (p. 30) e, insieme alla questione dell'immigrazione/integrazione, sospinge il tema dell'identità in ambiti sconosciuti e difficili da delineare.

In altri termini, oggi ai problemi classici dell'urbanistica - come, per esempio, "una proprietà immobiliare molto frammentata e difficile da organizzare" e pianificare (p. 51); un quadro normativo complesso e, spesso, contraddittorio e inefficace; una cultura disciplinare disorientata e disorientante - si aggiunge, sostiene Gabellini, "una condizione urbana e territoriale dove guasti ambientali e disagi sociali si sommano, [dove si] formano specifiche geografie della disuguaglianza che il succedersi ravvicinato delle crisi finanziarie, in relazione con i cicli edilizi, rende mutevoli" (p. 19). Prendere atto di "condizioni profondamente mutate e una generale insoddisfazione/insofferenza nei confronti dell'urbanistica" (p. 42) è per l'autrice l'unico modo per poter immaginare un nuovo ruolo per la disciplina, è la precondizione necessaria per mettere a punto gli strumenti adatti alla nuova situazione, necessari "per configurare la città contemporanea senza nostalgie per quella moderna e premoderna" (p. 29). Piuttosto che praticare la strada dell'utopia che spesso nella storia dell'urbanistica ha visto tentativi di piegare una realtà poco o per nulla accettata a un'altra ideale rimasta però il più delle volte sulla carta, Gabellini - anche correndo il rischio di soffocare gli slanci emotivi che frequentemente sospingono le proposte utopiche - insiste nel richiedere "consapevolezza di quel che c'è e di quel che si può fare, un progetto per la città contemporanea che, considerando l'insieme assai diversificato degli spazi da riusare, eliminare, aggiungere, trasformare in superficie e in profondità, diventa ricostruzione del paesaggio urbano" (p. 72) contemporaneo, non tentativo di ricostituzione di un paesaggio perduto o, peggio, di un paesaggio altro e distante da una sensibilità diffusa.

 

2. Può non piacere, ma è la realtà

Prima di ogni altra cosa - secondo Patrizia Gabellini - sarebbe necessario accettare il fatto che "la città contemporanea abbia una natura diversa rispetto alla città moderna e non ne sia una degenerazione" (p. 18), perché il vero problema - sostiene - non è quello di immaginare un romantico ritorno a una qualsivoglia condizione originaria, quanto quello di mettere in campo strumenti di interpretazione della realtà che ne consentano, oggi e a partire dalle attuali condizioni, il governo e progetto. "Lo stato del territorio contemporaneo e le trasformazioni in atto - osserva - possono essere letti come insieme di macerie, periferia anonima, annullamento di città e campagna, distruzione dell'ecosistema, quindi in maniera catastrofica con la sostanziale negazione di un futuro possibile. Oppure - scrive - possono intendersi come esito di processi disetanei o di natura talvolta incomparabile, accostamento di molte parti diverse ciascuna delle quali con propri problemi e potenzialità, parti che, legate assieme, possono generare nuove città con caratteri differenti di abitabilità. Questo secondo modo di considerare le formazioni urbane - afferma - prende le distanze sia dal pensiero nostalgico sia da quello apocalittico e si pone con una buona dose di pragmatismo di fronte alla straordinario cambiamento in atto" (pp. 75-76). L'autrice considera infatti pericolosa ogni forma di riduzionismo interpretativo, ogni lettura della realtà filtrata da una visione preconcetta e invita a mettere in campo "cultura [e] competenza per trattare contesti e circostanze estremamente diversificati" (p. 10). La dispersione dell'edificato sul territorio e il tipo di aggregati urbani che caratterizza il territorio italiano ed europeo soprattutto dagli anni Ottanta del Novecento, a suo dire, non è omogeneamente leggibile e trattabile e non necessariamente coincide con una distruzione dei paesaggi urbani e rurali e con essi della vita che in essi si svolgeva prima di questo tipo di trasformazione insediativa. Piuttosto - scrive - "si tratta di assumere con convinzione la prospettiva di una nuova forma urbana costituita da tanti patterns, accostati o distanti, dove popolazioni, pratiche d'uso, economie assumano proprie fisionomie" (p. 67). Questi, più che da paragonare al modello insediativo della 'città compatta' premoderna o a quello del borgo rurale immerso nella campagna agricola, sono - per l'autrice - "da concepire, tutti, come spazi abitabili in un territorio urbano che intercala parti variamente dense con le tante forme del green" (p. 67) in una sorta di continuo spaziale ibrido, di indifferenza localizzativa territoriale che le reti infrastrutturali, anche quelle a supporto delle nuove tecnologie, renderebbero evidente.

Questo, probabilmente, non solo è uno dei passaggi nodali della riflessione di Gabellini ma, mi pare, una delle questioni irrisolte della cultura urbanistica italiana contemporanea che da tempo appare schierata su fronti opposti. Nello specifico, però, - e forse se ne potrà discutere più ampiamente alla Casa della Cultura - non è chiaro se l'esortazione sia semplicemente, e ragionevolmente, quella di partire, in una qualsiasi forma di progetto urbano e territoriale, dalle condizioni esistenti di una realtà, giudicando caso per caso, senza generalizzare, senza spiccare voli pindarici tesi a piegare con il progetto i contesti fisici e sociali esistenti a una situazione altra (per esempio quella della città premoderna) che molto probabilmente non assumeranno mai o potranno assumere solo a seguito di processi di lunga durata. O, al contrario, se si tratti di un invito ad accettare tout court una specifica realtà - quella dei territori dello sprawl edilizio - così com'è rinunciando a ogni giudizio critico e, al contempo, a ogni tentativo di immaginarne un diverso futuro. Non si tratta di una questione di lana caprina. Sul piatto della bilancia da un lato c'è una condizione consolidata ed estremamente diffusa nel paese che riguarda la vita di milioni di persone, il loro modo di abitare, lavorare, divertirsi (per usare una classificazione prossima a quella della Carta d'Atene). Dall'altro ci sono condizioni ambientali, economiche e sociali di cui un'ampia letteratura scientifica ha dimostrato i molti limiti.

 

3. Il contributo del libro

L'obiettivo di Patrizia Gabellini con questo libro è ambizioso: "delineare necessità e possibilità di un'urbanistica che riesca a ricostruire un quadro di principi a partire dalla riflessione sulle pratiche che si sono progressivamente diffuse, che riesca a saldare le tecniche con le procedure dando loro una prospettiva comune" (p. 13). In altri termini, il tentativo pare essere quello di immaginare un'urbanistica possibile non tanto a partire da teorie precostituite, da una propria idea culturale o politica di spazio e società, da una riflessione critica sulle condizioni attuali della città e del territorio e delle ragioni storiche, politiche o culturali che le hanno determinate, ma ascoltando attentamente e laicamente il brusio dei molti rivoli entro cui stanno scorrendo la ricerca sul campo e le pratiche urbanistiche correnti di carattere amministrativo o progettuale, cercando di renderne chiaro il suono, di comprenderne il portato, di ricomporle se non armoniosamente almeno in quadro di ragionevolezza. Un'operazione non scontata perché avviene in un ambito disciplinare in cui, al contrario, più volte abbiamo assistito a ricominciamenti e reinvenzioni incapaci di fare tesoro dell'esperienza, dei suoi esiti. "La cumulatività - osserva l'autrice - è un problema dell'urbanistica, propensa piuttosto alla dissipazione quando le difficoltà in cui si imbatte mettono in crisi precedenti capisaldi" (p. 12). E ancor più complessa se si tiene conto che, anche per effetto dei meccanismi di valutazione e finanziamento della ricerca e del loro impatto sulla carriera accademica, negli ultimi anni abbiamo assistito a una "straordinaria crescita della letteratura pertinente che vede incessanti approfondimenti, diramazioni e incursioni multiple" (p. 12), non sempre - aggiungiamo noi - davvero utili per una progressione delle conoscenze e, più in generale, per la società. Dunque, una riflessione che avviene nel quadro di un dibattito urbanistico articolato e complesso che, tra l'altro, frequentemente "accosta e investe simultaneamente il modo di trattare le questioni storiche (usi del suolo, servizi sociali, trasporti) e quelle che si sono imposte di recente (cambiamenti climatici, resilienza)" (p. 46). Il tutto nella consapevolezza di "un relativo deficit di convergenze disciplinari sulle questioni di fondo, assieme alla difficoltà culturale di rielaborare i principi", approcci, pratiche, progetti, norme, temi e questioni (p. 22).

Con questo tipo di approccio l'autrice si avventura così nella riflessione su alcune pratiche, parole chiave, posizioni teoriche o progettuali che caratterizzano il nostro modo di governare e/o pianificare le trasformazioni urbanistiche correnti. Per esempio, quelle che cercano di portare nell'urbanistica l'operatività concreta della quotidianità e le sue potenzialità nel cogliere reattivamente ciò che di fatto avviene nello spazio pubblico - e dunque fanno riferimento al tempo breve - e quelle che, al contrario, assumono l'incertezza e l'indeterminatezza progettuale del tempo lungo. Ovvero: da un lato il tactical urbanism - che "investe le aree deboli, i relitti del restringimento urbano: propone il riuso nella forma dell'immediatezza e della temporaneità, la diffusione/distribuzione non preordinata degli interventi" (p. 33) - e, dall'altro, la strategia - che "punta sulle aree metropolitane e le città più grandi, là dove si concentrano le risorse e si possono realizzare economie di scala, dove attirare talenti e investimenti dall'esterno" (p. 33) -. Oppure quelle che all'urbanistica mainstream appaiono di volta in volta obsolete (come lo zoning) o à la page (come la mixité). Andando controcorrente l'autrice ritiene "sia incontrovertibile la necessità di ricorrere allo zoning, in maniera generalizzata o parziale, a grana fine o grossa, quando si debbano 'mappare' norme inerenti parti distinte del territorio" (p. 38). Allo stesso tempo, però, riconosce che "la mixité funzionale e sociale oggi non si discute più: è nei fatti ed è consigliabile" (p. 40). Oppure - facciamo un ultimo esempio - le relazioni e gli scarti semantici e operativi che esistono tra riqualificazione e rigenerazione e dunque tutto ciò che riguarda la necessità di dare una direzione a una serie di interventi minuti nel tessuto urbano che, nel loro insieme, possono "promuovere una trasformazione complessiva della città, insieme strutturale (riferita alla dimensione fisica) e strategica (riferita alle politiche sociali ed economiche)" (p. 64). Interventi che, a pensarci bene, cambiano la natura stessa della piano inteso come forma di prefigurazione generalizzata di qualcosa che si concretizzerà nel futuro perché avvengono in "un complicato divenire a macchia di leopardo che - osserva l'autrice - richiede una regia adattiva e una conseguente e paziente ridefinizione delle forme di governo del territorio" (p. 68). Un tipo di trasformazione che, tuttavia, - considerati i processi di obsolescenza degli immobili residenziali o produttivi o quelli di riallocazione delle attività commerciali, industriali o artigianali se non di dismissione su larga scala - assume un carattere "pervasivo di ciò che riguarderà città e territori per un lungo tratto di tempo, diventando [- quello della rigenerazione -] concetto che riassume la mutazione dell'urbanistica" (p. 65).

 

Conclusioni

Il libro di Patrizia Gabellini non muove da una pur sempre necessaria critica degli esiti della pianificazione italiana del Novecento - quella che sostanzialmente ha dato corpo (realizzandoli ex-novo o trasformandoli) alle città e al territorio nei quali viviamo -, delle sue matrici teoriche e culturali o delle ragioni storiche, politiche, economiche o normative che nel tempo hanno determinato morfologie urbane e territoriali o le condizioni ambientali attuali. Tuttavia, pur lasciando trasparire solo in filigrana questi aspetti cruciali in un qualsiasi ragionamento sul futuro della disciplina, per il suo sforzo di indagare e fotografare lo stato e i modi in cui si esplica l'urbanistica oggi limitando al minimo gli strabismi in altri campi del sapere, si configura come un utile lavoro di ricerca e riflessione teorica per provare a definire o ridefinire il ruolo e il senso della disciplina nella società contemporanea. Una disciplina dalla "identità irrisolta [che, anche per questo motivo, suscita] tanta insoddisfazione" (p. 15) e che la tendenza a un "minimalismo normativo e [a un] adattamento operativo, traduzioni tecniche della flessibilità, mettono alla prova […] per quanto riguarda sia la regolazione degli usi sia la composizione dello spazio" (p. 44). Partire dai modi con cui questa si sta studiando/praticando e potrebbe essere studiata/praticata si è rivelato anche un utile stratagemma per ritornare a riflettere sul ruolo un po' demodé della figura dell'urbanista, a cui - secondo l'autrice - compete comunque e "sempre un lavoro critico e tecnicamente pertinente" (p. 56) ma, com'è nel carattere fondativo dell'urbanistica, svolto nell'interesse della collettività e nella consapevolezza "che il cittadino deve contare di più del proprietario (p. 77). Dunque, un ruolo che si esplica in quell'area grigia - anzi, per la verità assai rosea - dove si sovrappongono la politica, la tecnica e la cultura e dove deflagra la personale visione della società, ma "né eroico né marginale […] e, soprattutto, mai scritto una volta per tutte" (p. 16).

Renzo Riboldazzi

 

 

 

Note
1) Professore ordinario di Urbanistica al Politecnico di Milano, Patrizia Gabellini ha diretto il Dipartimento di Architettura e Pianificazione e "Urbanistica", rivista dell'Istituto Nazionale di Urbanistica. È stata assessore all'Urbanistica di Bologna e ha fondato l'e-magazine "Planum. The Journal of Urbanism" che attualmente dirige. Tra i suoi libri: Bologna e Milano. Temi e attori dell'urbanistica (Franco Angeli, 1988); con P. Di Biagi (a cura di), Urbanisti italiani. Piccinato Marconi Samonà Quaroni De Carlo Astengo Campos Venuti (Laterza, 1992); Il disegno urbanistico (Nuova Italia Scientifica, 1996); Tecniche urbanistiche (Carocci, 2001); Fare urbanistica. Esperienze, comunicazione, memoria (Carocci, 2010); con A. Di Giovanni, C. Gfeller, M. Mareggi, Immagini del cambiamento in Emilia-Romagna (Compositori, 2012); Le mutazioni dell'urbanistica. Principi, tecniche, competenze (Carocci, 2018). Per Città Bene Comune ha scritto: Un razionalismo intriso di umanesimo (22 settembre 2016) e Un nuovo lessico per un nuovo ordine urbano (26 ottobre 2018).

2) L'iniziativa è patrocinata dall'Istituto Nazionale di Urbanistica e dalla Società Italiana degli Urbanisti e si svolge con la collaborazione dell'Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Milano e dell'Ordine degli Ingegneri della Provincia di Milano.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

10 MAGGIO 2019

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

powered by:
DASTU (Facebook) - Dipart. di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019:

C. Saragosa, Aree interne: da problema a risorsa, commento a. E. Borghi, Piccole Italie (Donzelli, 2017)

R. Pavia, Questo parco s'ha da fare, oggi più che mai, commento a: A. Capuano, F. Toppetti, Roma e l'Appia (Quodlibet, 2017)

M. Talia, Salute e equità sono questioni urbanistiche, commento a: R. D'Onofrio, E. Trusiani (a cura di), Urban Planning for Healthy European Cities (Springer, 2018)

M. d'Alfonso, La fotografia come critica e progetto, commento a: M. A. Crippa e F. Zanzottera, Fotografia per l'architettura del XX secolo in Italia (Silvana Ed., 2017)

A. Villani, È etico solo ciò che viene dal basso?, commento a: R. Sennett, Costruire e abitare. Etica per la città (Feltrinelli, 2018)

P. Pileri, Contrastare il fascismo con l'urbanistica, commento a: M. Murgia, Istruzioni per diventare fascisti (Einaudi, 2018)

M. R. Vittadini, Grandi opere: democrazia alle corde, commento a: (a cura di) R. Cuda, Grandi opere contro democrazia (Edizioni Ambiente, 2017)

M. Balbo, "Politiche" o "pratiche" del quotidiano?, commento a E. Manzini, Politiche del quotidiano (Edizioni di Comunità, 2018)

P. Colarossi, Progettiamo e costruiamo il nostro paesaggio, commento a: V. Cappiello, Attraversare il paesaggio (LIST Lab, 2017)

C. Olmo, Spazio e utopia nel progetto di architettura, commento a: A. De Magistris e A. Scotti (a cura di), Utopiae finis? (Accademia University Press, 2018)

F. Indovina, Che si torni a riflettere sulla rendita, commento a: I. Blečić (a cura di), Lo scandalo urbanistico 50 anni dopo (FrancoAngeli, 2017)

I. Agostini, Spiragli di utopia. Lefebvre e lo spazio rurale, commento a: H. Lefebvre, Spazio e politica (Ombre corte, 2018)

G. Borrelli, Lefebvre e l'equivoco della partecipazione, commento a: H. Lefebvre, Spazio e politica (Ombre corte, 2018); La produzione dello spazio (PGreco, 2018)

M. Carta, Nuovi paradigmi per una diversa urbanistica, commento a: G. Pasqui, Urbanistica oggi (Donzelli, 2017)

G. Pasqui, I confini: pratiche quotidiane e cittadinanza, commento a: L. Gaeta, La civiltà dei confini (Carocci, 2018)

 

 

 

 

 

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