Paolo Pileri  
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RESISTENZA PEDAGOGICA DI MAESTRI ANTIFASCISTI


"Insegnare libertà". Una lezione anche per gli urbanisti



Paolo Pileri


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Da alcuni anni ho preso la sana abitudine a leggere qualcosa di 'resistente' nei giorni attorno al 25 aprile. Una sorta di rito intimo di celebrazione della liberazione dal nazifascismo di fatto e di pensiero, anche se con i tempi che corrono il pensiero vedo che torna terribilmente ad accarezzare quelle atroci ideologie. Quest'anno ho letto Insegnare libertà. Storie di maestri antifascisti di Massimo Castoldi (Donzelli, 2018), un libro stupendo che restituisce ricordo e piena dignità a dodici maestri antifascisti che misero la loro vita a scudo dei piccoli scolari minacciati brutalmente da quello che Carlo Cammeo chiamava 'delitto pedagogico' cioè "la coercizione, che si esercitava nel periodo formativo del raziocinio umano, da parte delle forze reazionarie che imponevano un contenuto programmatico, una forma di propaganda educativa (intesa a loro modo), un materiale librario e decorativo sapientemente voluti e predisposti a neutralizzare la naturale potenza emancipatrice dell'istruzione". Dodici maestri che si sono opposti di petto o attivando tattiche dissuasive o allusive o contenitive o furbissime per tenere lontano quanto più possibile dalla scuola italiana quel mostro che era, ed è, il fascismo che della scuola libera avrebbe voluto (e vorrebbe tutt'oggi) fare carta straccia. Dodici storie che erano dimenticate perché nessuno le aveva ricostruite e raccontate, soprattutto mai tutte assieme. Un piccolo esercito della salvezza culturale. Se oggi siamo qui, liberi, lo dobbiamo anche a loro. Non dimentichiamolo più.

Vi sono tante vicende che Massimo Castoldi ci fa scoprire in quelle vite per le quali vale la pena di leggere e rileggere il libro, ma non posso fare a meno di sottolineare alcuni elementi che, come un filo sottile e invisibile, trapassano tutti loro e ci restituiscono lezioni fortissime e assai utili all'Italia di oggi.

La prima, sorprendente, è relativa all'età di quei maestri. Oggi noi siamo alle prese con fatti che ci sembrano nuovi e sorprendenti: Greta che sciopera per i cambiamenti climatici; Simone che a Torre Maura affronta l'arroganza fascista di Casa Pound; Ramy e Samir che liberano i loro compagni sul bus sequestrato dall'autista pazzo e chissà quanti altri. Sono quindicenni e diciassettenni che ci sembrano meteore in questo palcoscenico dove siamo ancora a dar la caccia ad adulti corrotti e politici che pensano solo a quanto gli frutta il potere. Eppure, non è la prima volta che i giovani salvano la dignità di questo Paese. Mariangela Maccioni aveva diciassette anni quando è entrata in aula la prima volta e ha scritto nel suo diario in quali condizioni disperate versava l'aula dove fu chiamata a insegnare. Fabio Maffi ne aveva diciannove come Abigaille Zanetta il cui motto era "La vita vale per quello che la si spende!". Un'altra donna meravigliosa fu Alda Costa, anch'ella diciannovenne, il cui esempio di vita fu ripreso da Giorgio Bassani nelle Cinque storie ferraresi. Aveva ventiquattro anni Carlo Cammeo quando fu ammazzato davanti ai suoi scolari con due colpi di rivoltella, in cortile. Ragazzi che hanno reagito al fascismo da subito, a partire dal 1919, perché subito hanno capito il puzzo di marcio che veniva su da quell'ideologia. Tutti ragazzi, giovani donne o giovani uomini che a loro volta salvavano umani ancor più giovani che il fascismo voleva piegare come si forza una giovane pianta ad assumere una forma che non le sarebbe naturale. Giovani che oggi non riusciamo più a immaginare come impegnati a fronteggiare la sciatteria di alcuni atteggiamenti politici, di alcuni decadimenti della società o più comunemente dell'atteggiamento con cui ognuno di noi sta in questa società e assolve con senso civico il suo compito.

Massimo Castoldi, ripercorrendo quelle vite, ci sta dicendo che questo Paese ha avuto già le sue Greta negli anni '20 e '30 e forse anche prima con i patrioti del Risorgimento. Erano giovani che hanno assolto con coraggio al loro compito di maestri e hanno scelto di seguire l'etica imperturbata dettata dalla dignità umana e non la morale corrotta del tempo. Giovani che non hanno permesso alla storia di andare nella direzione in cui volevano farla andare i fascisti, ma l'hanno deviata con i loro corpi giovani. Questo mi pare una nota molto forte che è anche nota di grande speranza per il Paese di oggi. Non abbiamo bisogno di urlanti rottamatori per scacciare via chi il Paese vuole distruggerlo, ma di persone colte, risolute, capaci di argomenti e non di slogan, persone normali che si impegnano con senso civico là dove fanno le cose giornaliere che il loro mestiere li chiama a fare. Se sono maestri devono fare bene i maestri. Se sono commercianti, bene i commercianti. Se sono urbanisti, bene gli urbanisti. Dove bene non significa seguire il vincitore per saltare sul suo carro e averne qualche vantaggio, ma significa capire per tempo quale è il bene per tutti, quali i valori di libertà (e non di protezione degli egoismi), quali le priorità a cui mettere mano anche se non sono convenienti per il mercato. Bene vuol dire oggi ragionare con la testa di chi vuole resistere e fare di questa nuova resistenza il principio di una nuova ideologia valoriale, come hanno fatto loro, quei dodici maestri che non hanno cercato la fama tant'è che molti di loro ce li siamo dimenticati quasi subito. Ricordiamoli qui: Carlo Cammeo, Franz Innerhofer, Anselmo Cessi, Alda Costa, Mariangela Maccioni, Abigaille Zanetta, Fabio Maffi, Carlo Fontana, Aurelio Castoldi, Giuseppe Latronico, Anna Botto e Salvatore Principato. Alcuni ammazzati, altri deportati, altri sopravvissuti ma messi al margine. Meno male che ci sono gli storici a ricordarci tutti loro, storici che secondo alcuni sono inutili come le loro disciplina perché pare che tutto quel che è passato non serve a nulla. Falso! Massimo Castoldi con questo libro non solo ci fa un regalo enorme, ma ci restituisce dignità e vigore. Ci ridà il fiato per rimetterci a correre.

La seconda cosa che mi ha sorpreso e che sta tra le righe di quei racconti è il dove accadeva tutto questo. Specialmente oggi siamo abituati a pensare che tutte le innovazioni, tutte le migliori energie, tutte le rivoluzioni muovono i loro primi passi solo nelle grandi città. Pare che senza l'humus culturale di Milano, di Torino, di Roma o di Napoli o di Palermo questo Paese non avrebbe spinta. E invece la nostra storia di resistenza a leggerla per luoghi ci rivela tutta un'altra chiave di lettura. A salvarci qui sono state storie nate all'ombra di piccoli comuni, di frazioni, di case sparse, di periferie, di borghi montani. Di luoghi già difficili allora, luoghi poveri ma luoghi dignitosi e non privi di valori civili, luoghi che erano stati salvati da una riforma scolastica (quella di Giolitti), che volle aprire scuole pubbliche nelle più lontane campagne e su su per i monti, anche per un pugno di bambini (oggi chiudiamo invece le scuole e i piccoli presidi ospedalieri di periferia, perché - si dice - 'non conviene economicamente tenerli aperti'). Quei giovani maestri hanno iniziato in quelle che noi oggi chiameremmo 'aree interne' o 'aree fragili'. Loro ci hanno vissuto, noi le studiamo da lontano, senza spesso neppur metterci piede ma con la pretesa di dare loro ricette per riprendersi. Invece quei maestri l'hanno vissuta in prima persona la fragilità. Si sono fatti disegnare addosso il carattere. Ne hanno assunto le parole. Hanno guardato negli occhi dei loro scolari la povertà, hanno toccato con mano quanto fossero - così li descrive Carlo Fontana - "malvestiti e malnutriti, mezzo selvatici, non curati dai genitori i quali dovevano lasciare di buon'ora la casa per i campi e gli stabilimenti". Giovani maestri che insegnavano a giovanissimi poveri figli di giovani poveri.

In tutto questo però scoprivano che quella povertà non si separava dalla dignità e che quella combinazione era la chiave del riscatto. In nessuna di quelle storie ho letto di maestri che si lamentavano di quelle loro prime destinazioni. Si lamentavano delle condizioni della scuola, ma mai ho letto che si perdessero d'animo. Vincevano la cattedra a Castel Goffredo, Fondoreno, Marrara, Boara, Quacchio, Spinazzino, Mamioada in Barbagia, Massa, Boffalora sopra Ticino, Chignolo Po, Villata Novarese, Masio, Anzano del Parco, Cucciago, Langosco, Robbio, Palestro, Vigevano, Vimercate, quartiere Turro e Comasina di Milano. Spesso abbandonavano ancora adolescenti la famiglia di origine per iniziare il loro lavoro di maestri a centinaia di chilometri di distanza. E anche quando il destino le portava a Milano, Pisa, Bolzano, Nuoro, Pavia spesso partendo da scuole di estrema periferia, la loro sensibilità rimaneva popolare e mai elitaria. Il maestro Carlo Fontana camminava tre ore nella neve alta per arrivare nell'unica aula gremita di fanciulli i quali accanto ai libri, tenevano un ceppo di legno per alimentare l'unica stufa della stanza.

Da queste periferie, da queste povertà, da questo disagio è nata questa resistenza pedagogica così splendida che ha illuminato la nostra storia moderna. Non era la borghesia a resistere in quelle aule. La "borghesia [...] sotto il terrore di rivolgimenti sociali, abiurò nel modo più generale ad ogni fede democratica", come scrisse il maestro Salvatore Principato, assassinato in piazzale Loreto. Il lavoro di resistenza di questi maestri è stato triplice: contro il fascismo e le sue pretese, contro il silenzio criminoso delle classi dirigenti che sapevano ma preferivano il silenzio, contro l'ignoranza e l'incapacità endemica delle classi più povere a trovare chi potesse rappresentarle e parlare per loro. Capite che donne e che uomini sono stati? Oggi abbiamo questo libro tra le mani che ce ne ricorda il valore e le imprese silenziose. Che ce ne facciamo? Lo mettiamo in un cassetto mentre là fuori tutto rigurgita di egoismo e pre-fascismo? Continuiamo il nostro tran-tran cercando di salvare ognuno se stesso? Cerchiamo a tutti i costi di trovare un posto al sole dal quale trarre qualche beneficio? Oppure inneggiamo alla grande città dalla quale poi inviamo le nostre ricette alla periferia, senza però viverci?

Mentre leggevo quel libro e mentre scrivo queste parole, mi chiedo se ci sono ancora quelle aule, quegli edifici dove quelle maestre così giovani si impegnavano a insegnare libertà. Forse saranno degli edifici dismessi. Cadenti. Forse trasformati in magazzini comunali. Forse chiusi dalla logica moderna della convenienza. O forse recuperati per farci altro, senza neppur pensare cosa è accaduto tra quei muri ottanta o novanta anni prima. Quando sento il ministro dell'economista di turno che dice di voler vendere il patrimonio dello Stato inutilizzato, penso a quelle aule e al fatto che senza renderci conto siamo tutti pronti a svendere la nostra storia per farci quattro appartamenti in classe A+ o per farci un cinema o un B&B, senza neppure pensare a mettere una targa a ricordo di chi non solo ci ha insegnato la libertà, ma ce l'ha preservata: consegnandocela perché la custodissimo, non per demolirla facendoci un quartierino radical chic. Non per piazzare davanti a quegli ingressi dei parcheggi o delle funzioni urbane misere. Quelle scuole sono dei tempi laici e gli spazi dei loro ingressi dei sagrati che vanno ridisegnati al punto da far capire a chiunque davanti a cosa stanno passando, lasciando agli scolari la felicità di avere uno spazio che onora loro e la loro scuola.

Da urbanisti la lettura di libri come questo è quindi ancor più impegnativa e ci mette in gioco come progettisti, come analisti e come intellettuali della città e del territorio. Che vogliamo fare del patrimonio pubblico come le vecchie scuole o le piccole casermette di periferia (dove centinaia di partigiani furono torturati) o i collegi? Se ne cancelliamo la memoria che è incisa nei loro muri, nelle loro facciate, nei loro cortili e negli spazi urbani che vi sono davanti finiremo per spezzare quel filo sottile ma necessario che consente ai giovani di oggi di capire di chi sono figli e di chi devono essere padri. Anche l'urbanistica di oggi deve mettersi di impegno a insegnare libertà, non la libertà del 'liberi tutti', ma quella stessa e grande libertà per la quale sono morti quei dodici maestri. Decisamente un altro sapore.

 


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02 LUGLIO 2019