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CITTÀ: IL DISINTERESSE DELL'URBANISTICA


Commento al libro di Ilaria Agostini e Enzo Scandurra






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Riprendendo il pensiero di Simone Weil, Hannah Arendt e Françoise Choay, Ilaria Agostini, in Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018) di cui è autrice con Enzo Scandurra, afferma che "Le opere che compongono la scena cittadina sorreggono simbolicamente la vita che vi si svolge" (p. 144) e possono costituirsi "come luogo, simbolo e matrice dell'uguaglianza, della democrazia, della costruzione civile e antropologica" (p. 145). La storia della città è ricca di esempi che lo dimostrano. Lo spazio non è mai materia inerte. Noi siamo anche il paesaggio che abitiamo. Il rapporto tra spazio e società è dialettico. Gli assetti fisici con le loro funzioni e con le loro forme svolgono un ruolo non secondario nella definizione dei modi della convivenza civile. Le relazioni sociali sono condizionate dai modi con cui materialmente si relazionano le cose nello spazio. Per questo ha valenza politica ogni intervento sugli assetti insediativi. Le configurazioni dell'habitat, costituendo sempre un campo semantico, possono nutrire ed educare lo spirito "come il buon letame la terra" (Carlo Emilio Gadda) oppure possono diseducarlo se vengono corrotte da manomissioni incivili, per esempio quando "panche che inibiscono di sdraiarsi o prive di schienale […] illuminazioni violente, cancellate, barriere e […] dehors" (p. 145) riducono e mutano uso e senso dello spazio aperto pubblico minandone spesso irreparabilmente la bellezza. Fatto tanto più grave se si considera che la bruttezza o la bellezza di una città dipende in gran parte proprio dai caratteri dello spazio aperto pubblico.

Che cos'è la bellezza della città? A questa domanda Scandurra risponde, citando Carlo Cattaneo: è spazio civile, "spazio entro il quale lo scambio di esperienze, di culture e di emozioni avviene grazie al luogo e non grazie al prezzo" (p. 69). Sicuramente questa è la condizione necessaria, ma senza civiltà delle forme la bruttezza prende il sopravvento e lo spazio risulta inospitale, inadatto a favorire gli incontri. Per poter parlare di bellezza occorre che i valori dell'umano convivere, in una parola dell'urbanità, possano trovare espressione anche nella lingua materiale dei luoghi. Privi di urbanità, i luoghi non ci invitano a dimorare; non sentiamo di poter fare corpo con loro e non possiamo dire, come Canetti a Marrakech (p. 65), io sono quella piazza, io sono quella città.

La città storica, dove il suo corpo non è stato smembrato, consente ancora questa esperienza di identificazione. Potremmo reinventarla se facessimo tesoro, come Camillo Sitte suggeriva, degli insegnamenti che l'esperienza dei bei luoghi continua concretamente a trasmetterci. Per tutti coloro che si occupano di progettazione urbana, i bei luoghi ereditati dal passato, che tanto ancora affascinano residenti e turisti, solo per questo dovrebbero continuare a essere annoverati tra i principali maestri, come è stato per centinaia di anni. Le regole compositive, su cui lo spazio urbano è stato costruito e ricostruito, fino alle soglie del '900 hanno continuato infatti a fare riferimento alle esigenze dell'umano, del suo antichissimo corpo in primo luogo, con i suoi fisici limiti e il suo desiderio inestinguibile, oggi frustrato, di armonia in cui potersi rispecchiare e trovare consolazione. Nonostante i profondi rivolgimenti politici che in questi due ultimi secoli hanno portato, come direbbe Jacques Le Goff, "il tempo del mercante" a divenire principio costitutivo dominante dei rapporti sociali e della spazialità, gli edifici dei centri storici si presentano ancora oggi disposti secondo una misura umana e una relazione dialogica capace di farci sentire la città fisica come un vero corpo organico, unitario, equilibrato pur nella differenza delle sue parti, disposto ad ospitarci con i suoi vuoti configurati secondo "un istinto di interno domestico" (Federico García Lorca) come fossero le internità a cielo aperto di una grande casa. Quanto alle abitazioni, esse non confliggono tra loro né competono in dimensioni ed espressività con gli edifici pubblici. Al pari di un civile consesso, si dispongono le une accanto alle altre, ben educate, in molti aspetti simili, a comporre in armonia le singolari differenze. È come se, anziché esaltare le diseguaglianze sociali, volessero evocare il rispetto reciproco che deve governare una comunità civile e ricordare pubblicamente che "a ogni essere umano è dovuta - come dice Simone Weil citata da Agostini (p. 143) - la stessa quantità di rispetto e di riguardo".

La bellezza civile degli spazi urbani è relazionale, non dipende mai esclusivamente dalla presenza di poche, solitarie, mirabili architetture, ma dalla tensione corale degli edifici privati a costruire un tessuto comune, dignitoso, in grado di fare da sfondo all'emergere, in tutta la loro magnificenza, dei luoghi e dei palazzi pubblici più rappresentativi per la collettività. Lo stesso significato dei monumenti dipende dalla relazione che essi instaurano con il contesto più anonimo dell'edificato. Per celebrare la convivenza civile ciò che conta non è mai l'estetica dell'oggetto, con cui invece solitamente viene identificata la bellezza della città, come rileva criticamente anche Scandurra (p. 68), bensì l'estetica d'assieme. Se però si chiede all'urbanistica che cosa è la bellezza di una città, "il linguaggio dell'urbanistica è muto" sostiene Scandurra (p. 64). Non si può che concordare. La gran parte dell'urbanistica sembra essere divenuta sorda all'esperienza di felicità che si può ancora provare in tanti spazi della tradizione, ne rifiuta la lezione vivente, non ne coglie le potenzialità di senso per l'abitare civile. In fatto di disegno urbano, continuano a prevalere le semplificazioni e le astrazioni funzionaliste dei Ciam che, in nome del moderno "spirito del tempo", hanno decretato la condanna dello spazio compatto, organico della città storica e l'abbandono della sua mirabile complessità morfologica. In alternativa hanno preso il sopravvento impianti antiurbani, disorganici, fatti alternativamente di superblocchi d'abitazione isolati, quando va bene nel verde, e di quartieri a lottizzazione aperta, gli uni e gli altri fonti, in molti casi, di contraddizioni sociali. Per non dire dei cantori della "città diffusa", convinti che essa rappresenti, per la società cosiddetta urbana, l'ambito ideale di vita. Non solo, molti tra gli urbanisti ritengono che il tema della bellezza e nello specifico la questione della forma della scena urbana non riguardi la loro disciplina.

Eppure per fare città o conservarla, sapere come si devono ordinare e cosa devono esprimere gli edifici e gli spazi aperti è necessario quanto sapere come distribuire le attività e le quantità. Solo il pensiero astratto di un io diviso, insensibile, senza corpo, può considerarlo inutile. L'abitare umano richiede sempre luoghi anche nell'aspetto accoglienti, invitanti. Ma l'urbanistica, che pure per suo statuto si occupa dell'abitare condiviso, pare indifferente di fronte al fatto che architetture deliranti e arroganti, come quelle di tante archistar al soldo della grande speculazione immobiliare, possano trovare spazio nelle strade e nelle piazze cittadine e rendere in questo modo disumana la scena del vivere collettivo quotidiano. Ludovico Quaroni, preoccupato delle derive incivili dell'architettura, sosteneva: "Si rende necessaria, per tutti i pianificatori, una larga dose di senso critico a vasto respiro e direi quasi una sensibilità estetica superiore a quella degli stessi architetti". E Luigi Piccinato ammoniva: "ben raramente e ben difficilmente può essere vero urbanista chi non è anche architetto" e non è in grado di fondere le varie conoscenze urbanistiche "nella realtà squisitamente architettonica che è il piano regolatore". Ma la parte preponderante della cultura urbanistica ha scelto di abbandonare il campo dell'architettura, ha rifiutato lo statuto epistemologico che per secoli l'ha distinta, il suo essere cioè "arte di costruire le città". Affascinata dai contributi presunti oggettivi provenienti dal campo variegato delle scienze, ha espulso dal suo corpo disciplinare la conoscenza che deriva dall'esperienza sensibile dei luoghi, lasciando così il terreno del senso delle forme alla libera sensibilità di un architetto che oggi è "quasi sempre […] preso dal desiderio narcisistico di esprimere sé stesso" (Scandurra, p. 35) e raramente si mostra consapevole di cosa comporti un disegno urbano. Risultato: senza una regia urbanistica capace di indicare all'architetto cosa richiede nei vari contesti la scena cittadina; in mancanza di una coscienza diffusa tra gli abitanti in fatto di bellezza urbana a fare argine alle concezioni architettoniche incivili; in presenza di amministrazioni pubbliche asservite il più delle volte agli interessi privati, il volto della città - della proprietà indivisa su cui si fonda tanta parte del senso di appartenenza di una comunità - viene consegnato nelle mani delle immobiliari, con gli esiti disastrosi che sono sotto gli occhi di tutti.

Certo: perché si possa parlare di bellezza della città non basta che sia civile il suo corpo fisico. Occorre, come rimarca giustamente Scandurra, che il corpo sia vivo, abitato da una società civile solidale, in una parola giusta, capace di assicurare il diritto alla città non solo ai ricchi e ai potenti. Consapevole delle ingiustizie sociali provocate dalla politica urbanistica fascista, che attraverso il grimaldello degli sventramenti era riuscita ad espellere la presenza popolare dal cuore della città e a riconfigurarlo a misura delle esigenze speculative della grande proprietà immobiliare e del capitalismo finanziario ad essa collegato, Luigi Cosenza così scriveva nel 1944: "I piani regolatori […] devono rappresentare la condanna delle ambizioni egoistiche, il ritorno […] alla solidarietà". All'appello di Cosenza, per molti versi simile a quello lanciato da Adriano Olivetti, perché si riaffermasse il principio della città "come luogo di convivenza tra diversi" (Scandurra, p. 28), ha risposto per tutti gli anni settanta la nobile stagione dell'urbanistica riformista di cui dà conto puntualmente il libro di Agostini e Scandurra. Poi, come denunciano gli autori, in questi ultimi trent'anni di assolutismo del mercato, di liberismo sfrenato, di deregulation urbanistica, di vera e propria miseria della politica, che ha trasformato "l'ente locale in liquidatore dei beni patrimoniali" (Agostini, p. 158), unico principio ordinatore degli assetti fisici e funzionali è tornato ad essere, aggressivo come non mai e fonte di profonde disuguaglianze, quello della massima remuneratività privata degli investimenti. In questo contesto, quell'incredibile invenzione che gli uomini si sono dati per vivere insieme felicemente, e che per secoli più di ogni altra forma insediativa ha assicurato sicurezza, libertà, cultura, inclusione sociale, è sempre meno un luogo dell'abitare e sempre più terra di conquista e sfruttamento per la grande speculazione finanziaria internazionale.

Venezia e la dispersione insediativa del territorio metropolitano padano rappresentano due esempi emblematici del medesimo processo: la dissoluzione degli storici legami di reciproca appartenenza tra urbs e civitas, senza i quali l'urbs si trasforma in un vuoto scenario di pietra e la civitas in un informe aggregato di solitudini. A Venezia ogni pietra, ogni spazio, per dimensione e disposizione parla un linguaggio d'amore. Lì ogni senso umano può espandersi e l'anima ritrovare nutrimento al suo desiderio inesauribile di bellezza. Eppure la città è moribonda: esangue la sua civitas, dissanguata dal continuo salasso di abitanti, costretti a risiedere altrove dai prezzi impossibili degli immobili e dalla scarsità dei posti di lavoro, se si esclude la devastante e snaturante proliferazione di "bar, gelaterie, pizzerie, ristoranti a uso turistico" favorita dalla "liberalizzazione del commercio avviata col decreto Bersani" (Agostini, p. 150). Uno degli ambienti urbani più ospitali è in gran parte ridotto a oggetto da museo. La trama delicata dei campi, dei campielli, delle calli, nata per fare da scena e palcoscenico alla vita multiforme dei suoi abitanti, è per lo più svilita a mero spazio di transito per le orde spesso incivili dei turisti. Nella Padania investita dallo sprawl di funzioni e residenti un tempo accentrati nelle città, ciò che manca è il corpo armonico dell'urbs e la sua civile bellezza. Al suo posto, dove prima si estendeva un organico territorio rurale è cresciuto un paesaggio disastrato, regno dell'automobile e delle villette mono e bifamiliari dalle forme più bislacche, dove la regola fondativa della spazialità è la lontananza tra le cose e le funzioni necessarie alla vita, dove il consumo di suolo e il dissesto idrogeologico ha toccato punte insostenibili, e dove è quasi impossibile potersi identificare tanto profondo è lo iato percepibile tra il corpo umano e il corpo del mondo.

Che fare? Contro le aggressioni degli interessi speculativi, "contro le espulsioni di residenti e l'impoverimento del tessuto sociale nelle città, contro la concatenazione consumo-spreco-distruzione delle risorse" (Agostini, p. 166) gli autori ritengono fondamentale la diffusione di un "sapere critico su temi urbani e urbanistici" (p. 167) capace di contrastare "l'involuzione neocapitalistica della città e [lo] smantellamento in atto delle basi stesse della civiltà urbana" (p. 169). In questa prospettiva, tra i molti insegnamenti che il passato ancora ci può offrire, dato che la storia "non procede linearmente, ma per 'salti', attraverso ritorni, frenate" (Agostini, p. 179), andrebbe riconosciuta e valorizzata anche la lezione della città storica. Rispetto agli squilibri, sociali e ambientali, che contraddistinguono la spazialità contemporanea, a cui si aggiunge una bruttezza dilagante come non mai prima d'ora, la quantità di bellezza creata e ricreata nei secoli dal sistema antico, policentrico delle città a dimensione umana, e la funzione civilizzatrice che hanno saputo svolgere - sia all'interno con il loro insieme di regole e limiti imposti all'iniziativa privata, sia nei rapporti coi territori agricoli circostanti di cui hanno saputo a lungo conservare e riprodurre la funzione nutritiva - mostra che quello urbano della tradizione, archiviato frettolosamente, è forse anche per il futuro il modo di abitare socialmente ed ecologicamente più sostenibile.

Graziella Tonon

 

 

 

N.d.C. - Graziella Tonon, già professore ordinario di Urbanistica al Politecnico di Milano, è membro della direzione scientifica dell'Archivio Piero Bottoni che ha contribuito a fondare.

Tra le sue pubblicazioni: con G. Consonni: Milano: classe e metropoli tra due economie di guerra, nell'Annale su La classe operaia durante il Fascismo della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli (1981); Alle origini della metropoli contemporanea, in: Aa. Vv., Lombardia. Il territorio, l'ambiente, il paesaggio (Electa, 1984); Trasporti e strategie di sviluppo nel secolo XIX, in: Aa. Vv., Venezia Milano (Electa, 1984); La terra degli ossimori. Caratteri del territorio e del paesaggio della Lombardia contemporanea, in: Duccio Bigazzi e Marco Meriggi (a cura di), Lombardia (Einaudi, 2001); con G. Consonni e L. Meneghetti (a cura di), Piero Bottoni. Opera completa (Fabbri, 1990); La donna e l'organizzazione materiale dello spazio, in: Aa. Vv., Donna lombarda 1860-1945 (FrancoAngeli, 1992); (a cura di), Piero Bottoni, Una nuova antichissima bellezza. Scritti editi e inediti 1927-1973 (Laterza, 1995); con G. L. Ciagà (a cura di), Le case nella Triennale: dal Parco al QT8 (Electa-Triennale, 2005); con G. Consonni, Terragni inedito (Ronca, 2006); Il paesaggio umiliato. Insostenibile bruttezza della metropoli (Ogni uomo è tutti gli uomini, 2007); Piero Bottoni: il valore costruttivo del colore, in: Giacinta Jean (a cura di), La conservazione delle policromie nell'architettura del XX secolo (Nardini, 2013); con G. Consonni, Piero Bottoni (Electa, 2010); La città necessaria (Mimesis, 2013); Architetture per la città. Il Moderno a Milano nell'Antologia di Piero Bottoni (La Vita Felice, 2014).

Ha pubblicato, inoltre, quattro raccolte di poesia: Irma (All'insegna del pesce d'oro, 1996); Diva (Manni, 2000); Traslochi (Manni, 2008); Nino e gli altri (la Vita Felice, 2016)

Per Città Bene Comune ha scritto: Città e urbanistica: un grande fallimento (24 marzo 2016).

Sul libro oggetto di questo commento, v. anche: Giancarlo Consonni, In Italia c'è una questione urbanistica (15 giugno 2018); Francesco Indovina, Non tutte le colpe sono dell'urbanistica (14 settembre 2018); Domenico Patassini, Urbanistica: una pratica più che una disciplina (14 dicembre 2018).

Del libro di Ilaria Agostini e Enzo Scandurra si è discusso alla Casa della Cultura il 7 maggio 2019 nell'ambito della VII edizione di Città Bene Comune (v. l'introduzione all'incontro di Renzo Riboldazzi).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

11 OTTOBRE 2019

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

powered by:
DASTU (Facebook) - Dipart. di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019:

F. Indovina, Un giardino delle muse per capire la città, commento a: G. Amendola - Sguardi sulla città moderna (Dedalo, 2019)

D. Demetrio, Per un camminar lento, curioso e pensoso, commento a: G. Nuvolati, Interstizi della città (Moretti&Vitali, 2018)

G. Nuvolati, Scoprire l'inatteso negli interstizi della città, commento a: C. Olmo, Città e democrazia (Donzelli, 2018)

P. C. Palermo, Oltre la soglia dell'urbanistica italiana, commento a: P. Gabellini, Le mutazioni dell'urbanistica (Carocci, 2018)

S. Vicari Haddock, Le periferie non sono più quelle di una volta, commento a: A. Petrillo, La periferia nuova (FrancoAngeli, 2018)

G. Consonni, La rivincita del luogo, commento a: F. Erbani, L'Italia che non ci sta (Einaudi, 2019)

D. Patassini, Urbanistica per la città plurale, commento a: G. Pasqui, La città, i saperi, le pratiche (Donzelli, 2018)

C. Cellamare, Roma tra finzione e realtà, commento a: E. Scandurra, Exit Roma (Castelvecchi, 2019)

P. Briata, Con gli immigrati per capire città e società, commento a: B. Proto, Al mercato con Aida (Carocci, 2018)

S. Viviani, Urbanistica: e ora che fare?, Commento a: P. Gabellini, Le mutazioni dell'urbanistica (Carocci, 2018)

C. Tosco, Il giardino tra cultura, etica ed estetica, commento a: M. Venturi Ferriolo, Oltre il giardino (Einaudi, 2019)

L. Padovani, La questione della casa: quali politiche?, commento a: G. Storto, La casa abbandonata (Officina, 2018)

P. Burlando, Strategie per il (premio del) paesaggio, commento a: Paesaggio e trasformazione (FrancoAngeli 2017)

P. Pileri, Suolo: scegliamo di cambiare rotta, Commento a: R. Pavia, Tra suolo e clima (Donzelli 2019)

A. Petrillo, Oltre il confine, commento a: L. Gaeta, La civiltà dei confini (Carocci, 2018)

L. P. Marescotti, Urbanistica e paesaggio: una visione comune, commento a: J. Nogué, Paesaggio, territorio, società civile (Libria, 2017)

F. Bottini, Idee di città sostenibile, Prefazione a: A. Galanti, Città sostenibili (Aracne, 2018)

M. Baioni, Urbanistica per la nuova condizione urbana, commento a: A. Galanti, Città sostenibili (Aracne, 2018)

R. Tadei, Si può comprendere la complessità urbana?, commento a: C. S. Bertuglia, F. Vaio, Il fenomeno urbano e la complessità (Bollati Boringhieri, 2019)

C. Saragosa, Aree interne: da problema a risorsa, commento a. E. Borghi, Piccole Italie (Donzelli, 2017)

R. Pavia, Questo parco s'ha da fare, oggi più che mai, commento a: A. Capuano, F. Toppetti, Roma e l'Appia (Quodlibet, 2017)

M. Talia, Salute e equità sono questioni urbanistiche, commento a: R. D'Onofrio, E. Trusiani (a cura di), Urban Planning for Healthy European Cities (Springer, 2018)

M. d'Alfonso, La fotografia come critica e progetto, commento a: M. A. Crippa e F. Zanzottera, Fotografia per l'architettura del XX secolo in Italia (Silvana Ed., 2017)

A. Villani, È etico solo ciò che viene dal basso?, commento a: R. Sennett, Costruire e abitare. Etica per la città (Feltrinelli, 2018)

P. Pileri, Contrastare il fascismo con l'urbanistica, commento a: M. Murgia, Istruzioni per diventare fascisti (Einaudi, 2018)

M. R. Vittadini, Grandi opere: democrazia alle corde, commento a: (a cura di) R. Cuda, Grandi opere contro democrazia (Edizioni Ambiente, 2017)

M. Balbo, "Politiche" o "pratiche" del quotidiano?, commento a E. Manzini, Politiche del quotidiano (Edizioni di Comunità, 2018)

P. Colarossi, Progettiamo e costruiamo il nostro paesaggio, commento a: V. Cappiello, Attraversare il paesaggio (LIST Lab, 2017)

C. Olmo, Spazio e utopia nel progetto di architettura, commento a: A. De Magistris e A. Scotti (a cura di), Utopiae finis? (Accademia University Press, 2018)

F. Indovina, Che si torni a riflettere sulla rendita, commento a: I. Blečić (a cura di), Lo scandalo urbanistico 50 anni dopo (FrancoAngeli, 2017)

I. Agostini, Spiragli di utopia. Lefebvre e lo spazio rurale, commento a: H. Lefebvre, Spazio e politica (Ombre corte, 2018)

G. Borrelli, Lefebvre e l'equivoco della partecipazione, commento a: H. Lefebvre, Spazio e politica (Ombre corte, 2018); La produzione dello spazio (PGreco, 2018)

M. Carta, Nuovi paradigmi per una diversa urbanistica, commento a: G. Pasqui, Urbanistica oggi (Donzelli, 2017)

G. Pasqui, I confini: pratiche quotidiane e cittadinanza, commento a: L. Gaeta, La civiltà dei confini (Carocci, 2018)

 

 

 

 

 

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