Lidia Decandia  
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SAPER GUARDARE IL BUIO


Commento al libro curato da Antonio De Rossi



Lidia Decandia


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"Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio […] è colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente[...]".

Agamben (2008)

In un interessantissimo volumetto Giorgio Agamben (2008) ci invita, per comprendere l'attualità del nostro tempo, a sostare di fronte al buio per imparare a percepirlo. Come ci insegnano gli studi di neurofisiologia il buio non è, infatti, la semplice assenza di luce, ma piuttosto un prodotto della nostra retina determinato da una disinibizione di una serie di cellule periferiche: le off cell. Quando queste cellule entrano in attività si produce quello che noi chiamiamo il buio. Una particolare visione che ci impedisce di farci raggiungere da qualcosa che è troppo lontano o semplicemente non riusciamo a vedere. Come avviene per esempio quando guardiamo di notte un cielo stellato e riconosciamo solo alcune stelle circondate da una fitta tenebra, mentre non riusciamo a percepire le galassie più remote. Esse, infatti, "si allontanano da noi a una velocità così forte, che la loro luce non riesce a raggiungerci […]. Quel che percepiamo come il buio del cielo, in questo caso, è dunque proprio questa luce che viaggia velocissima nella nostra direzione e tuttavia non può raggiungerci, perché le galassie da cui proviene si allontanano a una velocità superiore a quella della luce" (Agamben, 2008, p. 15). Attraverso questa metafora Agamben vuole invitarci a guardare al nostro tempo per comprenderlo, senza soffermarci solo su ciò che appare più evidente. Egli ci chiama a sviluppare un'attività e un'abilità particolare: quella di non farsi abbagliare dalle luci che provengono dall'epoca; ci spinge a oltrepassare il buio apparente per provare a riconoscere proprio nelle tenebre del nostro tempo quei baluginii, che il buio talvolta nasconde o ci impedisce di vedere. Baluginii che ci riguardano e ci interpellano e che, se saputi riconoscere, possono aiutarci ad andare oltre il già visto e il già conosciuto, aprendoci nuove piste di futuri possibili.

Questa immagine del buio, che sulla scorta di Agamben ho provato a delineare, mi è utile per introdurre un prezioso volume Riabitare l'Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste. Un corposo progetto editoriale della Donzelli, curato da Antonio De Rossi, dedicato, non a caso, a quell'Italia che vista di notte dal satellite appare come la parte più buia del territorio nazionale. Si tratta di quelle aree "rimaste celate e ai margini dello sviluppo", lontane dai centri di servizio, caratterizzate da fenomeni di invecchiamento, spopolamento e declino economico. Si tratta di quei territori "dell'osso", come li aveva definiti, in maniera felice, Manlio Rossi Doria (1982), contrapposti ai territori della "polpa" identificati dalle aree più dinamiche del contesto nazionale. Il testo, alla cui stesura hanno contribuito diversi eminenti studiosi, provenienti da ambiti territoriali fra loro molto diversi, propone un'inversione dello sguardo e anziché farsi attrarre dalle luci dello spettacolo metropolitano, viste in questi ultimi decenni come "le uniche entità capaci di giocare un ruolo nei processi di competizione internazionale" (De Rossi), prova a costruire nuove lenti per reimparare a soffermarsi su quelle aree offuscate dai processi di modernizzazione. Con la consapevolezza che da quel buio possano sorgere bagliori lampeggianti, stelle che arrivano da lontano, capaci di indicare delle risorse e delle opportunità decisivi per vincere le sfide dei prossimi decenni. Sarà forse proprio da queste aree che quasi certamente occorrerà ripartire per immaginare un progetto di futuro per l'intero contesto nazionale. L'ottica che il testo propone non è, infatti, volta a guardare questi territori come a delle riserve distaccate in cui lavorare in un'ottica di patrimonializzazione per conservare le membra di un corpo morto che non è più, ma semmai quella di farne un nuovo cuore pulsante, attraverso cui riattivare, rigenerare, in una logica multiscalare e progettuale, il complesso sistema territoriale italiano che attraversa oggi uno stato di profonda crisi.

Il testo proprio in questa chiave ci costringe nella prima sezione Verso nuovi atlanti a sostare presso questi territori bui e ad attraversarli incrociando sguardi dall'alto e dal basso, metodologie quantitative e qualitative. In questo modo ci offre degli strumenti importanti per decodificarne l'apparente omogeneità e fornirne una mappatura fine che ne ricostruisce una rappresentazione articolata, incrociando "dati fisici, economici e sociali" (De Rossi). Lo fa per destituire le rappresentazioni omologanti e per insegnarci a guardare prima di tutto con attenzione le articolate diversità dei contesti. Diversità mai interpretate come realtà statiche ma piuttosto come immagini dinamiche in continuo movimento. Caleidoscopi di territori in cui si ibridano e si intrecciano scalarità differenti e da cui sembra emergere una spazialità tutt'altro che euclidea, ma "fatta di campi di azione, in cui convergono reti di relazioni, sistemi di opportunità, network di attori anche molto estesi" (Calvaresi, cit. in De Rossi, Mascino). Proprio per questo purtroppo le immagini cartografiche proposte, per la loro stessa natura, non sempre appaiono in grado di restituire queste territorialità palpitanti che, con ogni probabilità, avrebbero richiesto l'uso di ben altri strumenti e linguaggi. Da questa mappatura e da questo sguardo indugiante emerge una immagine ambigua, una sorta di Giano bifronte, che destabilizza i cliché percettivi con cui per decenni si sono rappresentati questi territori. Se da un lato infatti i dati e gli sguardi zenitali restituiscono le traiettorie dello spopolamento e dell'abbandono, la rarefazione e/o le difficoltà di accesso ai servizi di cittadinanza, dall'altra lo sguardo vagante, radicato al suolo, consente a quel buio di cominciare a far trasparire "un immenso, diversificato palinsesto patrimoniale" (Cersosimo, Ferrara, Nisticò), un mondo di cose abbandonate, fatto di scarti ingombranti, ma anche di sopravvivenze, materie e di tracce che possono costruire una presa da cui ripartire per reinventare il futuro (Lanzani, Curci) e insieme un serbatoio "stratificato di conoscenze, saperi, attitudini codificati e taciti" (Cersosimo, Ferrara, Nisticò) a cui attingere per nutrire creatività e progetto.

Nella seconda sezione Storia e rappresentazioni i saggi contenuti nel libro ci forniscono gli strumenti per comprendere come quelle tracce e quelle realtà sopravviventi giungano, come le stelle che popolano il cielo notturno, da molto lontano. Nel far questo i vari contributi ci mostrano come nel giro di due secoli, con una svolta di grande accelerazione avvenuta negli ultimi decenni, quel mondo che costituiva il cuore luminoso della penisola si sia spento (Bevilacqua). Nel libro vengono costruiti con dovizia i processi storici, antropologici, sociali e culturali che ne hanno determinato la messa in ombra, ma anche costringendoci a porre attenzione a come di volta in volta si sia guardato a questi territori costruendo forme di rappresentazione che hanno caratterizzato il discorso pubblico e condizionato le scelte del governo e della politica. Anche in questo caso non è il rimpianto di un mondo perduto a guidare lo sguardo, ma semmai un sentimento di nostalgia inteso come "sentimento morale e rigenerativo, di 'presenza' che cerca orizzonti di una rinascita possibile" (Teti). Una nostalgia dunque che non vuole impossessarsi del passato ma vuole compiere un atto di memoria per "trarre allo scoperto e liberare quanto si è lasciato indietro, si è perduto involontariamente o necessariamente, ed è rimasto come imprigionato, sospeso, in attesa, appena abbozzato" (Prezzo 2006, p. 56) e che necessita di essere guardato nuovamente, per immaginare e costruire il futuro.

Naturalmente il libro non è interessato a far emergere solo quello che arriva da lontano, ma anche e soprattutto le dinamiche che animano il presente. Nella terza sezione, Persone e trasformazioni, i diversi saggi ci mostrano, infatti, come in questi territori non illuminati esistano forze ed energie che non si vedono, ma che lavorano costantemente per produrre un incessante cambiamento. Con uno sguardo molteplice e attento i saggi provano ad inseguire i balenii, le lucciole (Didi-Huberman, 2010) che danzano nelle pieghe di queste aree e che si riappropriano in forme nuove e inedite dei patrimoni ereditati dalla storia; provando a costruire inedite forme di economie, di comunità e di società e sperimentando alternative forme di mobilità. Lo fanno in un'ottica transcalare ponendo attenzione agli intrecci che si stabiliscono "tra luoghi e flussi, tra sedimentazione delle relazioni a corto raggio e reti lunghe di attori e opportunità" (Cersosimo, Ferrara, Nisticò), ma anche ai nuovi rapporti, alle nuove correnti d'amore che legano le città alle aree più interne e alle montagne (Dematteis) e che producono inedite forme di territorialità tutte da comprendere e da indagare. Sono infatti proprio queste tessiture, che spesso trasformano luoghi sperduti in "crocevia di funzioni globali", e non le semplici appartenenze, a determinarne l'antropologia, l'economia, le relazioni umane, e quindi la loro stessa identità. Una identità "affettiva, legata alla vita più che al sangue e alla terra" (Clemente), che ibrida tradizione e modernità; dandosi come un artefatto composto di assemblaggi di parti di pezzi, di connessioni, e frammenti e in cui spesso la stessa coscienza di luogo viene dall'esterno e guarda a culture internazionali e di avanguardia più che a memorie di tempi lontani.

Quello che si delinea, "intingendo - come direbbe Agamben - la penna nelle tenebre del presente" è un "margine che diventa centro", "un vuoto" che si trasforma in "uno spazio di libertà" in cui "non sono i padri a generare i figli ma i figli a generare i padri" (Clemente). L'immagine che il libro fa emergere, infatti, è quella di un vero e proprio laboratorio, un cantiere in cui alcune "minoranze visionarie", spesso giunte da lontano, provano a sperimentare e a collaudare modelli sociali, pratiche di vita e di lavoro fortemente innovativi, pensati in più stretta armonia con gli ambienti naturali e con le componenti storiche che strutturano gli stessi ambienti di vita, costruendo forme di imprenditorialità "capaci di stare sul mercato" tenendo insieme "valore economico, cittadinanza attiva e territorio" e che tornano ad ancorarsi al "senso della sobrietà, del limite e della solidarietà reciproca"(Barbera, Dagnes, Membretti). Naturalmente se è vero che molti saggi inseguono gli sciami di lucciole danzanti che animano il presente, il libro non dimentica come da quell'oscurità emergano anche voci non ascoltate, lampi di protesta, riverberi e contraddizioni che manifestano i segni di una crisi profonda, e che si esprimono in una geografia elettorale alternativa ai partiti politici (Fusco, Picucci), ormai sempre meno di capaci di sostare di fronte al buio per trovare nuove chiavi attraverso cui interpretare la contemporaneità.

È da questa consapevolezza che prende l'avvio l'ultima sezione del testo Progetti e politiche che delinea con forza quali visioni, strategie e azioni mettere in campo per avviare una nuova vera e propria stagione politica in cui contribuire a far si che questi fermenti innovativi possano germogliare e impedire che cresca la rabbia e il risentimento. Dare una consistente speranza di futuro a queste aree, che per molti aspetti costituiscono l'ossatura portante del territorio nazionale, significa assicurare, infatti, come osserva Sacco, "la sopravvivenza" dell'intero paese. Come riporta acutamente lo stesso autore, infatti, "se non sapremo innovare nella nostra capacità di ridare senso e valore a questi territori e quindi a fare leva sulla nostra specificità geografica e culturale, ci stiamo di fatto condannando da soli a entrare sempre più nel cono d'ombra" (Sacco). È proprio per questo che, dopo aver dunque fatto emergere attraverso un grande sforzo analitico e interpretativo le sopravvivenze, le potenzialità latenti, i baluginii che lampeggiano in questi territori poco illuminati, il testo invita ad andare oltre.

Nel tenere sullo sfondo e nel ripartire dalle sperimentazioni condotte con la Strategia delle Aree interne, che in filigrana traspare come riferimento costante per quasi tutti gli autori, indica come percorso possibile l'apertura di una grande stagione progettuale, avviata in nuce da questo importante strumento (Lucatelli, Tantillo). Ciò che traspare nei diversi autori, che tematizzano i nuclei attorno a cui sembra necessario lavorare, è in modi diversi l'uscita dal paradigma della conservazione e della semplice patrimonializzazione e contemporaneamente l'avvio di un grande progetto di riforma politico-istituzionale. Perché le risorse presenti in queste aree possano parlare all'uomo contemporaneo, non basta infatti dargli voce, ma occorre dargli un nome, rielaborarle, costruire attorno ad esse, progettualità, cultura ed economia. Fare della diversità un motore di sviluppo, mettendo al lavoro proprio quelle energie già presenti e elaborando per ciascuna area vasta una idea guida attorno a cui coordinare in una nuova geometria variabile diversi attori e differenti istituzioni. Indirizzare gli sforzi, evitando la dispersione e la frammentazione ma soprattutto le ricette omologanti uguali per tutti. Per questo se è certamente importante farsi nutrire dalle memorie che foderano ogni territorio, e leggere gli indizi che preparano il nuovo, diventa fondamentale provare a a combinare in nuove trame di espressione, il sapere del passato con i segnali espressi dal nuovo divenire, per dar forma a qualcosa di assolutamente inedito. Captare dunque forze non visibili, per "rendere visibile e non riprodurre il visibile" (Klee, 2004). Attingere dunque non alle forme codificate, ma alle logiche non conosciute, trasmesse dalle forze che emergono, dalle nuove forme di uso e di appropriazione dei differenti ambienti, facendo lavorare la memoria, l'ingegno e l'immaginazione, senza costruire repliche banali dell'esistente, ma descrizioni metaforiche ed interpretative che inaugurano nuovi scenari di senso.

Perché queste aree, dunque, non solo esistano, ma diventino centro, come gli stessi fermenti innovativi ci insegnano, è necessario: riuscire a produrre nuovi significati capaci di portare all'apparizione di nuove funzioni, di nuovi comportamenti; coltivare un rapporto virtuoso tra le risorse latenti e i desideri le urgenze che attraversano il presente; lavorare sugli scarti per attribuire un valore a cose che apparentemente non ne hanno; costruire cantieri cooperativi in cui mettere al lavoro intelligenze connettive e collettive; organizzare in nuove immagini, in nuove idee forti, le peculiarità che questi territori contengono; reinterpretare le forme materiali e spaziali per dar vita a nuove configurazioni; creare nuovi spazi per la vita collettiva, nuovi modi di pensare i servizi, le infrastrutture e la mobilità, più aderenti alle diversità dei contesti e capaci di mettere in connessione, coniugando velocità e lentezza, molteplici scale territoriali, e soprattutto, ricostruire economie produttive intimamente connesse delle risorse culturali e ambientali, capaci di costruire arcipelaghi di terra nel mare della globalizzazione. È da queste sperimentazioni al margine che potrebbero venir fuori, in questo momento di crisi per l'intero paese, strumenti importanti per ripensare e rigenerare non solo queste aree ma i nostri stessi modi di abitare, così come i modelli di sviluppo che caratterizzano il nostro presente, ma anche il nostro modo di pianificare e governare le diverse specificità territoriali. Perché tutto questo possa avvenire e far sì, come direbbe Benjamin che il passato possa unirsi "fulmineamente con l'adesso" e dare origine ad un lampo ad una "costellazione", ad una immagine "ricca di futuro" (Benjamin, 1997), tuttavia non solo occorre mettere in campo nuove visioni, ma occorre dargli gambe. Come osserva ancora Sacco, infatti, "l'effervescenza progettuale che, contro ogni aspettativa, anima molte aree interne, può esaurirsi in un baleno, infatti, se non trova un adeguato supporto e se non diviene la chiave per avviare un nuovo ciclo di politiche territoriali, improntate a una filosofia diversa", capace di tenere insieme differenti scale territoriali, diversi attori e soggetti.

La questione delle aree interne, se ripensata in questi termini, potrebbe diventare la leva da cui partire per costruire una sorta di laboratorio in cui elaborare un modo nuovo di pensare lo spazio, di governare il territorio e di ricostruire la politica, secondo uno sguardo non omologante e centralista, ma capace di rispettare la diversità dei contesti. Non secondo una visione difensiva di chiusura e di conservazione, ma di apertura, di relazione e di dialogo (Barca). Non si tratta infatti di pensare in un'ottica di confinamenti, ma di immaginare forme di pianificazione e di governo non euclidee e piramidali, ma capaci di: intercettare le energie molecolari, fini, i fermenti innovativi e costruire bacini di cooperazione e di raccolta per dargli forza; intrecciare diverse scale di governo; immaginare nuovi rapporti fra l'alto e il basso; costruire nuove cornici normative; combinare e ibridare differenti saperi. Una bella scommessa che il libro lancia con rigore, passione e determinazione e che richiederebbe, per aprire qualche radura di luce nelle fitte tenebre dell'orizzonte contemporaneo, di essere davvero accolta e sostenuta con forza.

Lidia Decandia

 

 

 

 

Riferimenti bibliografici
Agamben G. (2008), Che cos'è il contemporaneo?, Nottetempo, Roma.
Benjamin W. (1997), Sul concetto di storia, Bonola G. e Ranchetti M. (a cura di), Einaudi, Torino.
Didi-Huberman G. (2010), Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, Bollati Boringhieri, Torino.
Prezzo R. (2006), Pensare in un'altra luce. L'opera aperta di Maria Zambrano, Milano, Raffaello Cortina.
Klee P. (2004), Confessione creatrice e altri scritti, Abscondita, Milano.
Rossi Doria M. (1982), Scritti sul mezzogiorno, Einaudi Torino.

 

 

 

N.d.C. - Lidia Decandia è professore associato di Tecnica e Pianificazione urbanistica all'Università degli Studi di Sassari (sede di Alghero) e membro del Collegio dei Docenti del Dottorato di Tecnica e Pianificazione Urbanistica della Facoltà di Ingegneria dell'Università degli Studi "La Sapienza" di Roma. È stata responsabile scientifica, coordinatrice o componente di progetti di ricerca finanziati dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, del Consiglio Nazionale delle Ricerche, del Ministero dell'Ambiente, di amministrazioni regionali e locali. Ha organizzato mostre, seminari convegni nazionali e internazionali. Fa parte del comitato di redazione della rivista "CRIOS" e del comitato scientifico di: "Scienze del Territorio. Rivista della Società dei territorialisti e delle territorialiste", "Tracce Urbane", della collana "Il futuro delle città" diretta da Alessandro Balducci. Nel 2008 ha fondato "Matrica. Laboratorio di 'fermentazione' urbana" con cui porta avanti attività di sperimentazione di pratiche di ricerca-azione in diversi contesti locali.

Tra i suoi libri: con C. Cannaos, L. Lutzoni (2017), I territori marginali e la quarta rivoluzione urbana. Il caso della Gallura (Guerini); con I. Agostini, G. Attili, E. Scandurra (2017), La città e l'accoglienza (Manifestolibri); con L. Lutzoni (2016), La strada che parla. Dispositivi per ripensare il futuro delle aree interne in una nuova dimensione urbana (FrancoAngeli); (2011), L'apprendimento come esperienza estetica. Una comunità di pratiche in azione (FrancoAngeli); con P. Bottaro, S. Moroni (2009), Lo spazio, il tempo e la norma (Editoriale Scientifica); (2008), Polifonie urbane. Oltre i confini della visione prospettica (Meltemi); con G. Attili, E. Scandurra (2007), Storie di città. Verso un urbanistica del quotidiano (Edizioni interculturali); (2004), Anime di luoghi (FrancoAngeli); (2000), Dell'Identità. Saggio sui luoghi. Per una critica alla razionalità urbanistica (Rubbettino); con M. Coli, R. Bertini (1996), Tipicità ambientale & continuità urbana (Alinea).

Del libro di Decandia et al La strada che parla, v., in questa rubrica, il commento di Enzo Scandurra (26 maggio 2017).

Sul libro curato da De Rossi oggetto di questo commento v. anche: A. Clementi, Un progetto per i centri minori (11 dicembre 2019).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

09 GENNAIO 2020

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

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