Renzo Riboldazzi  
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L'ARTE DI COLMARE LE DISTANZE


Introduzione all'incontro e commento al libro di Giuseppe Dematteis



Renzo Riboldazzi


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Martedì 24 maggio, alle 18.00, la IX edizione di Città Bene Comune chiuderà i battenti con Giuseppe Dematteis che discuterà il suo Geografia come immaginazione. Tra piacere della scoperta e ricerca di futuri possibili (Postfazione di Arturo Lanzani, Donzelli 2021) con Francesca Governa, professore ordinario di Geografia economico-politica del Politecnico di Torino, Laura Montedoro, professore ordinario di Urbanistica del Politecnico di Milano, e – se una situazione imprevista dovesse, come speriamo, risolversi in tempo utile – Filippo Celata, professore ordinario di Geografia economico-politica della Sapienza Università di Roma. L'iniziativa – prodotta dalla Casa della Cultura di Milano e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano e patrocinata dall’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU), dalla Società Italiana degli Urbanisti (SIU), dalla Società dei Territorialisti/e Onlus (SdT) e dall’Associazione Italiana di Scienze Regionali (AISRe) – conferma così il proposito di promuovere il dibattito pubblico sui temi della città, del territorio, dell’ambiente, del paesaggio e delle relative culture progettuali con uno sguardo aperto e attento a tutti quei saperi – in questo caso quelli geografici – su cui nel tempo si sono fondate letture e interpretazioni di città e società, territori e paesaggi, ambienti naturali e antropizzati.

 

Introduzione ai temi del libro

Qualcuno che avesse ancora in testa un’idea della geografia come quella che si insegnava nelle scuole medie diversi anni fa – quella che, sostanzialmente, va poco oltre la descrizione e la riproduzione cartografica della superficie terrestre, dei suoi caratteri naturali e delle attività antropiche che si svolgono su di essa –, potrebbe perfino rimanere sorpreso. L’ultimo libro di Giuseppe Dematteis, infatti, è qualcosa di più e di diverso che, scorrendo nel solco della liquefazione dei confini delle discipline della modernità – liquefazione che è al tempo stesso inclusione di altri campi del sapere e intrusione in altre discipline –, interpella senza remore mondi eterogenei dove alligna la sua stessa inquietudine. Quella della ricerca (vana?) di un modo corretto o almeno plausibile di comprendere luoghi, territori e paesaggi: il loro passato, il loro presente e il loro futuro. Il titolo, in effetti, doveva insospettire: Geografia come immaginazione, ovvero non come lettura, descrizione, interpretazione di una realtà tangibile ma come qualcosa «che non segue regole fisse né legami logici, ma – precisa il Vocabolario on line Treccani – si presenta come riproduzione ed elaborazione libera del contenuto di un’esperienza sensoriale». E in effetti l'autore si (e ci) propone di andare oltre «quella descrizione che ci vuol far credere che la carta geografica è la riproduzione oggettiva del territorio» (p. 7) abbracciando – scrive – «una geografia metaforica, immaginativa, aperta, poetica, non deterministica e nichilista [in opposizione] a una [...] letterale, ovvia, chiusa, normale, deterministica e banalmente metafisica» (p. 6). Il libro di Dematteis si configura così come un viaggio. Un errare che muove dalla geografia – cos’era, cos’è, cosa dovrebbe essere e cosa forse sarà – per attraversare zigzagando territori e paesaggi comuni alla letteratura, all’urbanistica, alla politica, all’etica e all’estetica. Questo alla ricerca di un senso ultimo (o forse anche solo di un senso possibile e temporaneo): quello sotteso al fare geografia oggi (ai suoi strumenti concettuali, alle sue tecniche, alle sue pratiche) e, in definitiva, quello di questa disciplina nella società contemporanea.

La prima cosa che vien da chiedersi è perché. Perché per una disciplina che ha una tradizione secolare e che può vantare tra i suoi avi figure che hanno dato un contributo fondamentale alla conoscenza del mondo – Humboldt, Vidal, Reclus, per citarne alcuni – c’è oggi la necessità di pensare nuovi approcci, di imboccare strade dagli esiti incerti. Le ragioni sono più d’una ma in primis sembra esserci la necessità di scartare dall’idea di “contenitore enciclopedico” (p. 59) che l’aveva connotata dai suoi esordi. Di lasciarsi alle spalle quel lungo processo che, durante il Novecento, ha teso in molti casi ad appiattirla su una visione parametrica propria delle scienze esatte. Omologandola, come molte altre discipline, a una concezione deterministica, l’unica che sembrava guidare lo sguardo scientifico della modernità, che però si è rivelata incapace di vedere altro. C’è cioè – per dirlo con le parole dell'autore – «il rifiuto di quel fondamento della scienza “moderna” che presuppone la possibilità di conoscere l’universo come un meccanismo d’orologeria» (p. 21). Per Dematteis, tuttavia, «non si tratta di inventare una nuova geografia, ma soltanto di prender coscienza che qualcosa di essenziale risiede in questo lato oscuro (allegorico, non esplicitato) della descrizione geografica» (p. 9). Qualcosa che, pur connotando la realtà, sfugge completamente alla scientificità novecentesca. Soprattutto oggi che questa la realtà si è fatta più complessa. Che le voragini del virtuale impediscono di contenerla entro confini certi. E la sua lettura e interpretazione appare un’impresa titanica. «La geografia del terzo millennio – afferma Dematteis – ha bisogno di [nuove] scoperte […], per descrivere un mondo che ancora pensiamo come una successione di luoghi contigui, mentre invece è costituito da una rete iperconnessa di luoghi lontani, ma capaci di comunicare tra loro come se fossero vicini e osserva da un insieme frammentato di luoghi vicini che quasi non comunicano tra loro» (p. 38).

Ma quale approccio adottare per leggere il mondo che ci circonda, questo tipo di mondo? Intanto – secondo Dematteis – mettendo in campo l’immaginazione. Ovvero la «capacità di scoprire (inaugurare, aprire) dei mondi attingendo alla contingenza temporale e spaziale della Terra» (p. 19) e anche, forse soprattutto, cogliendo dal suo “disordine” «certi segni [e dando] ad essi un senso, immettendoli in quella rete della comunicazione che è il mondo» (p. 19). E poi cercando di guarire da quell’afasia che, di fatto e non solo in ambito geografico, ci impedisce di vedere le cose semplicemente perché come sostiene Umberto Galimberti a proposito delle emozioni non abbiamo le parole, e dunque i concetti, per descriverle. Per l’autore di Le metafore della Terra (Feltrinelli, 1985) appare cioè fondamentale trovare o ritrovare il «piacere di liberare le parole e le idee dalla prigione dei luoghi comuni; di farle interagire con le cose, traslando il loro significato da un contesto all’altro» (p. 10). Gli ampi riferimenti a Italo Calvino, ai contenuti e alla genesi di alcune sue opere, da questo punto di vista non sono un vezzo intellettuale ma diventano quasi strutturali di un modo di praticare una geografia che Dematteis definisce “poetica”. Ovvero una geografia che, come la letteratura, «fa emergere dal fondo oscuro della Terra mondi nuovi che prima non esistevano da nessuna parte; mondi che tuttavia sono destinati a chiudersi su se stessi nella forma normalizzata, immobile e deperibile, dell’opera (geografica e territoriale)» di stampo tradizionale (p. 17). In questo senso, quello di Dematteis appare un ritorno alle origini. A quell’idea primigenia di geografia disvelatrice di terre e immaginari sconosciuti. Dove la realtà sta non solo nel fattuale ma anche nella capacità di suscitare immaginazione e stupore per una diversità vera o presunta. Che rifugge da una globalizzazione omologante scovando e portando alla luce le differenze dei luoghi che sempre più sono un valore. «Il terzo millennio – scrive l’autore – chiederà ai geografi una cartografia di questo tipo: multicentrica e quindi molteplice, che sappia ascoltare i particolari, comprendere le diversità senza ridurle alla povertà dei linguaggi globali, senza ridurre il mondo né a scacchiera, né a semplice trama di reti globali, come un “pensiero unico”, oggi dominante, vorrebbe farci credere che sia» (p. 44).

Un approccio che a ben guardare non è neutrale ma assume anche connotazioni politiche non secondarie. Perché nel suo disvelare aspetti sconosciuti della realtà ci accompagna verso una maggiore consapevolezza di ciò che ci circonda. Cosa fondamentale oggi che la fiducia nella democrazia rappresentativa sembra traballare. Che i processi partecipativi ci chiamano sempre più spesso in causa nella definizione di trasformazioni urbane e territoriali senza poter contare, il più delle volte, su concreti elementi e strumenti di giudizio. La geografia poetica «la sua capacità di fare emergere del senso […] andando oltre il buon senso, può produrre consenso, progettualità sociale» (p. 24). Per questo appare importante. Perché avvalora «la necessità morale (collegata al problema della giustizia) che ciò avvenga attraverso argomentazioni razionali, verificabili [e - scrive l'autore - persino] falsificabili» (p. 24). In altri termini, sostiene Dematteis, «proprio perché tutto dipende dalle rappresentazioni, occorre che esse siano in grado di comprendere e regolare i processi di trasformazione del pianeta e quindi, per quanto riguarda la geografia, di mettere in scena i fatti pertinenti a quei rapporti di territorialità, attraverso cui la nostra società, trasformando la Terra, trasforma se stessa» (p. 65).

Invocare rappresentazioni territoriali capaci di cogliere, esplicitare e perfino “regolare” i processi di trasformazione significa mantenere uno sguardo aperto sulle società, le economie, e, nei fatti, attribuire al territorio quello che «nella fase fordista […] era stato negato o ignorato [ovvero un ruolo] come soggetto attivo delle trasformazioni» stesse (p. 98). Vuol dire cioè misurarsi con la necessità di «rappresentare la contraddizione tra le potenzialità dei territori e le forze omologanti globali che ne limitano lo sviluppo alle forme di valorizzazione monetizzabili» (p. 70). E dunque trovare il modo di far emergere non tanto o non solo i tratti comuni ma le differenze (anche economiche e sociali) che connotano i contesti, evitando di appiattirle su una uniforme quanto surreale visione del mondo. In altri termini – afferma Dematteis – «si tratta di descrivere le condizioni oggettive e soggettive per la costruzione di nuovi rapporti di territorialità attiva, capaci di conservare e riprodurre la diversificazione culturale dei territori in quanto patrimonio comune dell’umanità» (p. 71). Un discorso che inevitabilmente ha a che fare con l’identità che secondo Dematteis non va semplicemente intesa come «il senso di appartenenza alimentato dalle memorie di un passato comune, ma anche e soprattutto – scrive – [come] la capacità di riprodurre nel tempo quei principi auto-organizzativi, che sono, come s’è detto, il risultato della traiettoria coevolutiva propria di una data società» (p. 49). Tutto ciò che, in sostanza, qualora fosse ancora identificabile e descrivibile, la globalizzazione – ma anche una politica miope o un’urbanistica praticata acriticamente – tende a negare. Da un lato riducendo l’identità a folklore e, talvolta, imbalsamando i contesti. Dall’altro imponendo ovunque le stesse regole, gli stessi processi, gli stessi identici prodotti. È così che, in sostanza, si creano le condizioni perché progressivamente alcuni contesti urbani e territoriali assumano sembianze non «molto diverse da quei non-luoghi del divertimento che vanno sotto il nome di parchi tematici» (p. 68). Ed è così che dai luoghi vengono cancellate quelle «strutture di senso, capaci di orientare le scelte e le modalità degli interventi» (p. 96) riducendoli a simulacri di loro stessi.

Renzo Riboldazzi

 

 

N.d.C. - Renzo Riboldazzi insegna Urbanistica al Politecnico di Milano. È mem­bro della direzione scientifica dell’Archivio Piero Bottoni (dipartimento Dastu) e del consiglio culturale della Casa della Cultura di Milano. Ha ideato e coordina “Città Bene Comune”, ambito di dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e le relative culture progettuali. La sua attività di ricerca verte prevalen­temente sulla cultura del progetto urbano moderno e contemporaneo.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

20 MAGGIO 2022

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Luca Bottini
Oriana Codispoti
Filippo Maria Giordano
Federica Pieri

cittabenecomune@casadellacultura.it

iniziativa sostenuta da:
DASTU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Conferenze & dialoghi

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
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2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2021: V. Magnago Lampugnani | G. Nuvolati
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

 

 

Gli incontri

2021: programma/1,2,3,4
2022: programma/1,2,3,4
 
 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori
2019: Alberto Magnaghi

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021: online/pubblicazione
2022:

R. Pavia, Il porto come soglia del mondo, commento a: B. Moretti, Beyond the Port City (Jovis, 2020)

S. Sacchi, Lo spazio urbano è necessario, commento a L. Bottini, Lo spazio necessario (Ledizioni, 2020)

D. Calabi, La "costituzione" degli ebrei di Roma, commento a: A. Yaakov Lattes, Una società dentro le mura (Gangemi, 2021)

F. Ventura, Memoria dei luoghi ed estetica dell'Ircocervo, riflessione a partire da: G. Facchetti, C’era una volta a San Siro (Piemme, 2021) e P. Berdini, Lo stadio degli inganni (DeriveApprodi, 2020)

E. Scandurra, Il territorio non è una merce, commento a: M. Ilardi, Le due periferie (DeriveApprodi, 2022)

A. Mela, Periferie: serve una governance coerente, commento a: G. Nuvolati, Alessandra Terenzi (a cura di), Qualità della vita nel quartiere di edilizia popolare a San Siro, Milano (Ledizioni, 2021)

M. A. Crippa, Culto e cultura: una relazione complessa, commento a: T. Montanari, Chiese chiuse (Einaudi, 2021)

V. De Lucia, La lezione del passato per il futuro di Roma, commento a: P. O. Rossi, La città racconta le sue storie (Quodlibet, 2021)

M. Colleoni, Mobilità: non solo infrastrutture, commento a: P. Pucci, G. Vecchio, Enabling mobilities (Springer, 2019)

G. Nuvolati, Una riflessione olistica sul vivere urbano, commento a: A. Mazzette, D. Pulino, S. Spanu, Città e territori in tempo di pandemia (FrancoAngeli, 2021)

E. Manzini, Immaginazione civica, partecipazione, potere, commento a: M. d'Alena, Immaginazione civica (Luca Sossella, 2021)

C. Olmo, Gli intellettuali e la Storia, oggi, commento a: S. Cassese, Intellettuali (il Mulino, 2021); A. Prosperi, Un tempo senza storia (Einaudi, 2021)

A. Bagnasco, Quale sociologia e per quale società?, commento a: A. Bonomi (a cura di), Oltre le mura dell’impresa (DeriveApprodi 2021)

R. Pavia, Le parole dell'urbanistica, commento a A. A. Clemente, Letteratura esecutiva (LetteraVentidue, 2020)

G. Laino, L'Italia ricomincia dalle periferie, commento a: F. Erbani, Dove ricomincia la città (Manni, 2021)

G. Consonni, La bellezza come modo di intendersi, commento a: M. A. Cabiddu, Bellezza. Per un sistema nazionale (Doppiavoce, 2021)