Giancarlo Consonni  
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IL PASSATO COME RISORSA DEL PROGETTO


Commento al libro di Arturo Lanzani



Giancarlo Consonni


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Se, come ha scritto Carlos Fuentes, «la memoria è il desiderio soddisfatto [...]» (1), le 374 fittissime pagine di Cultura e progetto del territorio e della città. Una introduzione, che Arturo Lanzani ha pubblicato nel 2020 nella collana Architettura della casa editrice FrancoAngeli, grondano di desiderio. Desiderio di conoscenza, o meglio di «virtute e canoscenza» (Dante, Inferno, XXVI, 120), dove virtute, in questo caso, si compone di onestà intellettuale (a evitare, per quanto è possibile, la manipolazione della memoria storica) e di una concezione della ricerca come servizio civile: come propensione a nutrire di consapevolezza la progettualità collettiva, oltre che la propria. Del resto, nel definire il libro come una «guida», l’autore intende evidenziare come il suo lavoro risponda all’obiettivo di mettere a disposizione del lettore – soprattutto dei giovani – uno strumento di orientamento nella difficile, e per certi versi caotica, fase storica in cui siamo immersi.

L’impegnativa ricerca di Lanzani si inserisce in un filone della cultura architettonica e urbanistica di cui Lewis Mumford è l’autorevole capofila: un variegato insieme di ricerche che, a partire dal presente e dai suoi problemi più rilevanti, pongono la storia e il progetto in una relazione dialettica. Per questo, integrerei le citazioni poste in esergo al libro con quest’altra, dal Convivio di Dante Alighieri: «Conviensi adunque essere prudente e savio e a ciò essere si richiede buona memoria delle vedute cose, buona conoscenza delle presenti e buona provedenza delle future» (2).

Vale la pena seguire Lanzani nel suo lungo viaggio nel tempo e nei luoghi? Sì: indico quattro motivi.

Il primo è che questo libro tenta, per usare le parole di Adriano Prosperi, di «leggere la storia umana nel contesto di un contenitore più grande: quello della storia naturale» (3). Va in questa direzione l’attenzione posta da Lanzani sia alle origini delle città sia agli sviluppi coevolutivi, fatti di azione e reazione, fra i contesti naturali e l’impronta (sempre più incisiva) impressa dall’azione umana alla Terra.

Il secondo è che l’autore della “guida”, oltre a contare sul proprio bagaglio culturale (di geografo, urbanista e architetto), si avvale dell’apporto di una molteplicità di altri saperi: storiografia (su molti fronti), archeologia, climatologia, scienze della terra, agronomia, demografia, sociologia, diritto, filosofia, cartografia, cultura visiva ecc.

Il terzo motivo è la consapevolezza che l’autore mostra circa l’inevitabile parzialità della sua sintesi (da cui il suo augurio che il lettore possa essere incuriosito a intraprendere altri “viaggi” nello spazio e nel tempo dando vita a una propria “guida”, continuamente aggiornata).

Il quarto motivo è che Cultura e progetto del territorio e della città è, a suo modo, il racconto avvincente di processi di formazione, di maturazione (spesso nello splendore) e di crisi di assetti insediativi e compagini sociali contraddistinti da paradigmi e elementi motori specifici, anche molto diversi fra loro. Processi di cui l’autore non manca di evidenziare le ragioni di fioriture e crisi e, insieme, talune persistenze, grazie alla comparazione tra le civiltà del passato e tra queste e il presente (dove si rende esplicito ciò che nel lavoro storiografico è solitamente sottinteso).

Il libro spazia dalle origini degli insediamenti umani fino alle soglie della rivoluzione industriale, con attenzione particolare all’Europa Occidentale (non senza estendere l’orizzonte ad altre realtà, ove occorre). L’autore precisa che si tratta del primo di una serie di tre libri e che sta lavorando ad altri due volumi in cui affronterà gli ultimi due secoli e mezzo. Se questo primo libro è già ricchissimo di apporti e illuminazioni, c’è da aspettarsi che le prossime due tappe del “viaggio” siano non meno vivaci e stimolanti.

Le annotazioni che seguono riguardano solo alcuni passaggi del libro, essenzialmente riferiti all’antichità greca e romana. Hanno il carattere di note a margine e richiederebbero un dialogo diretto e serrato con l’autore. Le avanzo sperando che si colga comunque il loro spirito seminariale.

 

Luogo e spazio: due comunità interpretanti

Fa bene Lanzani a dare rilevanza alle origini della geografia.

Sulle orme di Franco Farinelli e di Giuseppe De Matteis, egli individua in Anassimandro (4) (610-546 a. C.), allievo di Talete, il capostipite di una «concettualizzazione della Terra che arriva fino a Tolomeo [100-175 a. C.] […] in cui domina uno spazio astratto, omogeneo, equivalente, misurabile […]» (p. 213). Contestualmente indica in Erodoto (484-425 a. C.) il rappresentante della concezione opposta, intesa a mettere in luce «la specificità fisica e umana […] delle regioni del mondo» (ivi). Si affaccia, nella storia degli insediamenti umani, l’inedita coppia oppositiva spazio/luogo che Lanzani vede rispecchiarsi nella coppia topografia/corografia, ovvero in due modalità di rappresentare il mondo che hanno finito per influenzare i modi con cui gli esseri umani pensano, vivono e modificano i contesti.

È questo uno dei passaggi cruciali del libro su cui vale la pena soffermarsi. Almeno a partire da Contro la Geografia di Eratostene i tre libri, oggi perduti, con cui Ipparco (200-120 a.C.) «rendeva omaggio a Omero, facendone, al contrario di Eratostene, un pioniere della ‘scienza geografica’» (5) –, si sono delineate due «comunità interpretanti» (6). Una di esse aveva come capofila proprio Eratostene (276-194 a. C.), per 37 anni direttore della Biblioteca di Alessandria: è a lui che si deve la prima carta del mondo conosciuto disegnata su basi scientifiche (7). L’altra ‘comunità’ era tenuta viva da Strabone (60 a. C.-21-24 d. C.), il grande studioso che più ha contribuito a rinfocolare la polemica. Strabone, oltre a schierarsi con Ipparco, in più punti, nel suo Geografia (8), nel parlare del mondo greco muoveva proprio dalle descrizioni omeriche (non senza rimarcarne, talora sulla base di osservazioni dirette, attendibilità e insufficienze).

Merita attenzione l’argomentazione da lui addotta: «E primamente mostriamo come a ragione e noi e quelli che ci precedettero (de’ quali è anche Ipparco) abbiam detto essere Omero il fondatore della scienza geografica: il quale non solamente nel valore poetico soverchiò tutti quelli che furono prima e dopo di lui, ma sì fors’anche nell’esperienza della vita civile» (9). Strabone era arrivato alla geografia dopo una lunga ricerca storiografica (10) e considerava storia e geografia come due saperi reciprocamente necessari: una convinzione coerente con la scelta di porre al centro dei suoi interessi la «vita civile».

Tra le molte prove dell’efficacia di questo approccio, si può richiamare un passo molto citato della Geografia in cui, con straordinaria concisione, Strabone sintetizza la differenza intercorrente fra il mondo greco e quello romano in fatto di cultura insediativa: «E nel vero gli Elleni sono in fama di avere felicemente fondate le loro città perché guardarono alla bellezza, alla fortezza [sicurezza del sito], ai porti, alla fertilità dei paesi: ma i Romani provvidero principalmente a quelle cose le quali gli Elleni neglessero, come sono le strade lastricate, gli acquidotti e le cloache per trasmettere nel Tevere le immondezze della città» (11).

 

Roma antica: le infrastrutture come principio del ridisegno del mondo

I Romani, nel tracciare le loro reti infrastrutturali, furono forse i primi a praticare in modo esteso e sistematico alcune potenzialità dell’idea di spazio ‘svelata’ nella tavoletta (pinax) di Anassimandro e sistematizzata, anche concettualmente, nelle mappe di Eratostene (12). È, infatti, soprattutto grazie ai nuovi strumenti di rappresentazione topografica che essi poterono concepire e a organizzare il suolo secondo una tensione “orizzontale”, a scapito di quella “verticale” che, fin lì, aveva guidato l’umanizzazione del mondo (13). Nella romanità, l’axis mundi, mentre nelle intenzioni assicurava a ogni nuova città l’origine sacra, diveniva allo stesso tempo l’epicentro di un nuovo ordine da imprimere al suolo (una duplicità ben riassunta nella groma, lo strumento con cui i gromatici definivano i tracciati del cardo e del decumano delle città di fondazione e anche le centuriazioni). Per questo, a conti fatti, credo si possa affermare che i Romani, nel fare della religione un instrumentum regni, per primi misero un piede nella secolarizzazione.

Forte dell’ancoraggio al divino, il potere terreno poteva tracciare sulla superfice terrestre una trama ordinatrice che dalle città si estendeva (anche con diversa giacitura) al territorio. Le reti (strade, acquedotti, cloache e centuriationes) – a cui Lanzani dedica pagine interessanti –, mentre offrivano formidabili risorse per il vivere civile, avevano una potente carica simbolica: si presentavano come la nuova architettura del mondo. Così, con opere spesso mirabili, Roma poteva accreditarsi come civilizzatrice presso i popoli sottomessi.

Non meno rilevanti furono le conseguenze sugli assetti territoriali: poiché reti e trame si estendevano per lo più su territori pianeggianti, ne è derivata una nuova tendenza insediativa che privilegiava le pianure rispetto a un popolamento che, fino ad allora, salvo la costellazione delle città-porto, aveva in molti contesti prediletto le colline e i fianchi delle montagne. Si anticipavano così processi che riemergeranno in modo travolgente in età contemporanea.

 

Òmphalos e axis mundi

A meglio spiegare lo spartiacque che, nell’antichità, si è interposto fra il mondo greco e quello romano può essere d’aiuto il confronto fra òmphalos (14) e axis mundi. Mentre nel mondo greco l’Ombelico del Mondo (òmphalos) era uno solo: quello di Delfi (15) (a rimarcare la sacralità della città-santuario e il suo essere il punto di ancoraggio della koinè greca), l’axis mundi veniva replicato a ogni fondazione di città. Se l’òmphalos di Delfi svolgeva una funzione aggregativa dell’ampia costellazione delle città greche, gli axis mundi delle città nuove romane erano di fatto avamposti per la conquista dei territori da parte di Roma.

A proposito dell’Ombelico del Mondo, vale la pena richiamare l’eccezione introdotta da Policleto il Giovane quando nel teatro di Epidauro (370 - 360 a.C.) collocava al centro dell’orchestra un òmphalos (simboleggiato da una semplice pietra). In questo caso, mentre il kòilon (la cavea) accoglieva la volta celeste, all’òmphalos era assegnato il compito di assicurare il legame con il mondo ctonio, con il risultato di fare dell’organismo teatrale il luogo di congiunzione di cielo e terra (16).

Allo stesso tempo, non solo a Epidauro ma almeno fin dal primo teatro costruito sul pendio meridionale dell’acropoli ateniese – datato da Carlo Anti (17) attorno al 534 a.C. –, l’architettura si faceva piena espressione del ruolo centrale assunto dalle rappresentazioni teatrali nelle città greche, a cominciare da Atene: il loro essere sede di un rito di introspezione collettiva intimamente connesso al «culto della “sacra persuasione” come essenza stessa della polis» (18).

Se poi si tiene presente il fatto che «dal VII secolo in avanti i greci diventano un popolo di alfabetizzati senza precedenti» (19), vengono ancor più in evidenza le profonde differenze con il mondo romano.

 

Il luogo come orizzonte primario dell’abitare

Per scavare ulteriormente sui paradigmi a cui fanno riferimento le «comunità interpretanti» di cui si è detto, dobbiamo tornare a Omero. Nel passaggio del secondo libro (II, 494-759) che va sotto il nome di Catalogo delle navi, oltre a passare in rassegna i contingenti dello schieramento acheo che assedia Troia, il poeta dà conto delle “città” da cui gli assedianti provengono. Che il quadro geografico restituito nel secondo libro dell’Iliade sia fedele o meno alla realtà è questione alquanto dibattuta, ma è difficilmente contestabile che si tratti della prima rappresentazione corografica del mondo greco. Credibili appaiono in particolare gli appellativi assegnati alle città (20), anche perché il lungo percorso dell’Iliade, dalla sua costruzione orale nell’VIII secolo alla prima sistemazione scritta nel VI secolo, ha sottoposto il poema, oltre che a interpolazioni interessate, a un vaglio collettivo; cosa che rende assai improbabile che gli appellativi andassero contro il senso comune.

Ciò premesso, richiamo l’attenzione sull’uso di due epiteti: euktimenon (21) = ben costruito e erateinē (22) = amabile. L’appellativo ben costruita è riservato a 7 città: Ipotebe (II, 505), Atene (II, 545), Micene (569), Cleone (II, 570), Epi (II, 593), Iaolco (II, 712), mentre 4 città – Aretirea (II, 571), Augea (II, 532 e 583)(23), Arene (II, 591), Mantinea (II, 607) – sono denominate come amabili. Sono denominazioni dense di significati che testimoniano il legame dell’abitare e con l’atto costruttivo e con la bellezza.

Portando in evidenza un significato implicito di euktimenon, Franco Montanari nel suo Vocabolario della lingua greca (Loescher, Torino 1995) si è spinto a tradurlo, oltre che con il consueto «ben costruito», con «bello da abitare»: una scelta ardita, ma non forzata; semmai rivelatrice. Introducendo la formula «bello da abitare», Montanari va alle radici, io credo, del modo in cui nel mondo greco antico era intesa la bellezza, ovvero come fatto consustanziale al poiein e al costruire in particolare. Il concetto di bello, in quel contesto, non promanava da un’«estetica pura» (24) (in cui la bellezza è disancorata dall’umano e dalla dimensione civile), ma, al contrario, era inscindibile dall’obiettivo primario della trasformazione dell’ambiente: il suo renderlo abitabile.

Non meno illuminante è un altro passaggio dell’Iliade, là dove (VI, 390-1) si legge: «Ettore si slanciò fuori di casa, / per la medesima via per le strade ben fatte». Euktiménas kat’agouias si può intendere «per le strade ben fatte» (come fa Vittoria Calzecchi Onesti), ma anche «per le contrade ben fatte». Non solo: sulle orme di Franco Montanari potremmo spingerci più in là e tradurre «per le strade belle da abitare»; o anche «per le contrade belle da abitare».

Comunque sia, sta di fatto che in questi due versi del libro VI dell’Iliade compare un giudizio urbanistico, forse il primo di cui si ha documentazione nel mondo occidentale. Ed è significativo che la valutazione si riferisca non genericamente alla città ma a un suo elemento costitutivo: la strada e l’aggregato delle case che la delimitano.

Il giudizio può essere meglio compreso nelle sue implicazioni se si tiene conto che è riferito a Ilio, ovvero al campo avverso rispetto al mondo in cui l’Iliade è nata. Il poema, come si sa, tratta sullo stesso piano gli Achei e i loro nemici, riconoscendo in primo luogo la comune umanità: un fatto che difficilmente si ritroverà nella storia successiva. Ma non meno significativo è l’estendersi di questa impostazione anche alla cultura materiale (quale può essere intesa la configurazione urbanistico-architettonica di una città), e dunque a tratti caratterizzanti una civiltà.

Nel complesso, la ‘corografia’ di Omero porta in luce una concezione del mondo come insieme di luoghi dove l’abitare si esplica su due fronti inscindibili:

1) asseconda ab interiore le ragioni e le potenzialità del contesto, avendone cura;

2) stabilisce «un legame profondo tra la gente, che si raduna, coltiva o costruisce […]» (Lanzani, p. 131).

La lingua latina custodisce una solida traccia di questo modo di concepire e vivere il mondo nel legame che intercorre fra incŏla (abitante) e colĕre (l’avere cura, il venerare, il coltivare). Dove l’in di incŏla è quanto mai indicativo di un elemento costitutivo della condizione umana: il fatto che, dalla nascita, siamo immersi nel mondo; da cui un rapporto degli esseri umani con l’ambiente fatto di azione e reazione e di adattamento reciproco.

Maurice Merleau-Ponty ha racchiuso la portata di questo rapporto in una formula efficacissima: «io e il mondo siamo l’uno nell’altro» (25).

È di questa mutua appartenenza che la modernità ha inteso liberarsi, come a volersi sgravare di una responsabilità verso il mondo (una scelta le cui conseguenze si manifestano ormai in modi sempre più impetuosi e inequivocabili).

Ma corre l’obbligo di una precisazione. I due paradigmi che fanno capo a quelle che abbiamo chiamato le «comunità interpretanti», in potenza sono fra loro compatibili e non escludenti. I problemi sorgono quando la nozione di spazio astratto, continuo e omogeneo diviene la chiave per operare nella (dis)umanizzazione del mondo.

A integrazione della formula di Merleau-Ponty, dobbiamo anche riconoscere che nella forma mentis dell’homo sapiens sapiens le due comunità interpretanti di cui si è detto convivono da tempo in ogni individuo.

Ha scritto Henri Bergson: «quanto più ci si eleva nella serie degli esseri intelligenti, tanto più si delinea con nettezza l’idea indipendente di uno spazio omogeneo» (26). Prosegue Remo Cantoni «Lo spazio omogeneo non sarebbe […] un dato spontaneo e immediato dell’intelligenza umana, come vogliono le metafisiche dell’intelligenza. Lo spazio dell’azione, ad es., di necessità non è omogeneo ma profondamente differenziato» (27). E ancora: «Lo spazio quale avvertito dalla coscienza, è proprio lo spazio qualitativo, inseparabile dagli oggetti che sono in esso, pieno di forze, di partecipazioni, lo spazio concreto in una parola. L’armatura logica penetra sì il mondo della nostra esperienza quotidiana, ma non integralmente e non giunge a esaurirne la ricchezza di determinazioni» (28).

In altri termini, oltre che nella società (sempre più globalizzata), la battaglia si gioca dentro ognuno di noi.

Ed è bene che di questo abbiano consapevolezza coloro da cui più dipende la trasformazione del mondo. Mi limito qui a richiamare la responsabilità che, sia pure limitatamente a quanto di loro competenza, ingegneri, architetti, urbanisti ecc. hanno di fronte: se assecondare l’impoverimento del costruire (e dell’abitare) oppure difenderne la ricchezza di senso.

La responsabilità si è fatta tanto maggiore quanto più estesa e incisiva è diventata l’azione antropica e quanto più sono cresciute le conoscenze nel campo delle scienze della natura e nelle cosiddette “scienze umane”. Ed è proprio su una riassunzione di responsabilità che punta lo scavo di Arturo Lanzani.

L’impostazione e l’apparato teorico-pratico che egli ha maturato in decenni di ricerche irrompono appassionatamente nell’ultimo capitolo del libro, come se la linfa concettuale e interpretativa che ha percorso l’ampia ricostruzione storica di Cultura e progetto affiorasse alla fine come l’acqua di una risorgiva: limpida e resistente al gelo.

 

Per continuare a discutere

Molti altri passaggi del libro meriterebbero di essere discussi, ma mi fermo qui per non superare la misura dei commenti di “Città bene comune”. Mi avvio dunque a concludere.

L’opposizione spazio/luogo conosce ulteriori e più incisivi sviluppi nel Rinascimento e in età moderna anche grazie all’affermarsi di paradigmi interpretativi e di tecniche di rappresentazione della realtà la cui portata Lanzani non manca di rimarcare e che, non meno di quanto formulato da Anassimandro e da Eratostene, affondano le radici in precisi contesti storico-geografici, ovvero in ciò accade nel consorzio umano.

I passaggi sono essenzialmente tre:

1) l’uso della prospettiva (che condiziona il modo di concepire e organizzare la realtà);

2) la separazione cartesiana fra res cogitans e res extensa (che autorizza a trattare il mondo fisico come un inerte);

3) l’affermarsi di una spazialità denominata da Leonardo Benevolo con la formula «conquista dell’infinito» (che anticipa l’idea di superamento di ogni limite che contraddistinguerà l’età contemporanea).

Sono passaggi che preparano le dirompenti trasformazioni degli ultimi due secoli (oggetto, suppongo, dei prossimi due volumi).

Li indico in estrema sintesi, solo per rimarcare l’efficacia della coppia spazio/luogo messa in campo da Arturo Lanzani.

Gli sviluppi vanno sotto l’insegna della razionalità parziale che si afferma in uno con il prevalere del modo di produzione capitalistico e che porta alle estreme conseguenze la riduzione della triade territorio-ambiente-paesaggio a mero spazio e della superficie terrestre a supporto spaziale inerte, organizzabile ab exteriore.

È con la trasformazione di criteri parziali in principi assoluti che, negli sviluppi maturi dell’età contemporanea, il conflitto fra spazio e luogo entra nel vivo, a costituire alcuni dei problemi cardinali della condizione metropolitana contemporanea. Una condizione che ha tra i suoi elementi distintivi il prevalere delle relazioni a distanza su quelle di prossimità e la marginalità in cui, nell’era del predominio delle reti e delle rendite di posizione, è confinato l’abitare.

Giancarlo Consonni

 

 

Note
1) «la memoria es el deseo satisfecho […]». Carlos Fuentes, La muerte de Artemio Cruz, Fondo de Cultura Económica, México 1962, qui citato nell’edizione Bruguera, Barcelona 1984, p. 62.
2) Dante Alighieri, Convivio, IV, XXVII, 4-5.
3) Adriano Prosperi, Tremare è umano. Una breve storia della paura, Solferino, Milano 2021, p. 66.
4) Corre l’obbligo di richiamare l’attenzione del lettore sulla complessità e l’importanza di questa figura. «Si tramanda – scriveva già Plinio il Vecchio – che fu Anassimandro di Mileto ad aprire per primo le porte della natura» (Plinio, Storia naturale, II, 32). Nel 1937 Enriques e De Santillana, oltre a riconoscere il suo ruolo di «precursore» della geografia, scorgevano in Anassimandro «il primo germe di un grande principio: l’evoluzione della vita per adattamento all’ambiente» (Federigo Enriques, Giorgio De Santillana, Compendio di storia del pensiero scientifico dall’antichità ai tempi moderni, Zanichelli, Bologna 1937, p. 19). Ma è soprattutto nel dopoguerra che la figura di Anassimandro è stata indagata nei suoi molteplici aspetti e fortemente rivalutata. Dirk L. Couprie, uno dei suoi maggiori studiosi, è giunto alla conclusione che Anassimandro è «una delle menti più grandi mai vissute. Riflettendo e discutendo sull’“Illimitato” è stato il primo metafisico. Disegnando una mappa del mondo è stato il primo geografo. Ma soprattutto, speculando coraggiosamente sull'universo, mise in discussione l'antica immagine della volta celeste e divenne lo scopritore dell'immagine del mondo occidentale».
Dirk L. Couprie, Anaximander (c. 610-546 B.C.E.), Internet Encyclopedia of Philosophy (IEP). https://iep.utm.edu/anaximan.
5)
Germaine Aujac, Geografia, in Storia della Scienza, Treccani 2001.
https://www.treccani.it/enciclopedia/scienza-greco-romana-geografia_Storia-della-Scienza/
6)
È la nota formula introdotta da Stanley Fish, Is There a Text in This Class? The Authority of Interpretive Communities, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1980, trad. it. C’è un testo in questa classe?, Einaudi, Torino 1987.
7) Aujac, cit.
8) Un’opera in XVII libri (pervenutici quasi completi) in cui
Strabone si occupa anche del resto dell’Europa, dell’Asia Minore e dell’Africa (Egitto e Libia).
9) Strabone, Geografia, I, 1, 2. La traduzione è tratta da Della geografia di Strabone, Libri XVI volgarizzati da Francesco Ambrosoli, vol. II, Paolo Andrea Molina, Milano 1832, p. 2.
10) Strabone era autore di una Storia universale in 47 libri (non pervenutaci).
11) Strabone, Geografia, V, 3, 8. Il passo continua così: «
Selciarono anche le vie che passano attraverso tutto il territorio, provvedendo a tagliare colline e a colmare cavità, cosicché i carri potessero accogliere i carichi delle imbarcazioni; le fogne, coperte con volte fatte di blocchi uniformi, talvolta lasciano il passaggio a vie percorribili da carri di fieno. Tanta è l'acqua condotta dagli acquedotti da far scorrere fiumi attraverso la città e attraverso i condotti sotterranei: quasi ogni casa ha cisterne e fontane abbondanti dovute per la maggior parte alla cura che se ne prese Marco Agrippa, che ha abbellito la città anche con molte altre costruzioni». La traduzione è tratta da Della geografia di Strabone, cit., vol. III, Paolo Andrea Molina, Milano 1835, pp. 61-62.
12) Anche se, va detto, queste rappresentazioni all’origine guardavano più ai viaggi via mare che alla terraferma.
13) Molto opportunamente Lanzani coglie l’importanza della coppia verticale/ orizzontale nella storia degli insediamenti umani.
14) «l’òmphalos, il centro del mondo, pietra eretta che veniva avvolta in una matassa di lana, forse spiraliforme; la Pizia teneva in mano un’estremità del filo mentre vaticinava – l’immagine di un emblematico contatto con la fonte terrestre della divinazione». Massimo Scotti, Spirali sulle pietre del tempio. Luoghi oracolari in Paul Valéry e in Robert Greves, in Aa. Vv., Profezie e disincanto. Il tempo a venire nella tradizione letteraria e musicale, a cura di Luigi Marfè, Mesogea, Messina 2013, p. 193.
15) Lo stesso Eratostene prendeva Delfi come punto di partenza per i meridiani e i paralleli delle sue carte geografiche.
16) Su questo rinvio a G. Consonni, Teatro, spazio, identità, in «Quaderni del Dipartimento di Progettazione dell’architettura», a. IV, n. 4, marzo 1987, pp. 14-37, poi in Id., L’internità dell’esterno. Scritti su l’abitare e il costruire, Clup, Milano 1989, pp. 95-143.
17) Carlo Anti, Teatri greci arcaici da Minosse a Pericle, Le Tre Venezie, Padova 1947, p. 65.
18) Ivi, p. 257. La Persuasione nell’Orestea di Eschilo evoca il fondarsi della polis sul superamento sia della «legge tribale della vendetta di sangue» sia del «dominio della giurisdizione aristocratica». Ibidem.
19) Ellen Meiksins Wood, Peasant-Citizen and slave. The Foundations of Athenian Democracy, Verso, London-New York 1988, trad. it. di Anna Maria Riccomini, Contadini-cittadini & schiavi. La nascita della democrazia ateniese, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 250.
20) Eccoli: «ben popolata» (Festo, Rítio); «petrosa» (Aulide, Pito, Calidone); «aspra» (Olizone,
Egílipa); «ampia» (Elíce); «murata» (Tirinto, Gòrtina); «ricca di pecore» (Orcòmeno); «dalle molte di colombe» (Tisbe); «ricca di colombe» (Messe); «ricca di grappoli» (Arne, Istíea); «piantata a vigneti» (Epidauro); «bianca (Càmiro-Rodi, Lícastro, Oloòssono); e, infine, «ben costruito» e «amabile», di cui dico più estesamente.
21)
Associato a ptoliethron o con il femminile euktìmenē se associato a polis.
22)
Associato a polis.
23) Augea è nominata due volte.
24) Traggo l’espressione da un testo di Merleau-Ponty del giugno 1945 intitolato C’è stata la guerra, in Marcel Merleau-Ponty, Sense et non sense, Nagel, Paris 1948, trad. it. di Paolo Caruso, Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano 1962, p. 183, laddove l’autore afferma: «Volevano smobilitare le coscienze, ritornare all’estetica pura, disimpegnarsi dalla storia…».
25) M. Merleau- Ponty, Le visible et l’invisible, testo stabilito da C. Lefort, Gallimard, Paris 1964, trad. it. di Andrea Bonomi, Il visibile e l’invisibile, nuova ed. a cura di Mauro Carbone, Bompiani, Milano 1999, p. 141.
26) Henri Bergson, Essai sur les données immédiates de la consciense, Alcan, Paris1889 cit. dalla 33.ma edizione del 1936, da Remo Cantoni (a cura di), Il pensiero dei primitivi, Garzanti, Milano 1941, p. 151.
27) Cantoni (a cura di), cit., pp. 151-152.
28) Ivi, p. 155.

 

 

N.d.C. - Giancarlo Consonni, professore emerito di Urbanistica del Politecnico di Milano, dirige l'Archivio Piero Bottoni che ha contribuito a fondare.

Tra i suoi libri: L'internità dell'esterno. Scritti su l'abitare e il costruire (Clup, 1989); con L. Meneghetti e G. Tonon (a cura di), Piero Bottoni. Opera completa (Fabbri, 1990); Addomesticare la città (Tranchida, 1994); Dalla radura alla rete. Inutilità e necessità della città (Unicopli, 2000); con G. Tonon, Il «lapis zanzaresco» di Pepin. Giuseppe Terragni prima del progetto (Ronca, 2004) e Terragni inedito (Ronca, 2006); La difficile arte. Fare città nell'era della metropoli (Maggioli, 2008); La bellezza civile (Maggioli, 2013); Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà (Solfanelli, 2016), La forma della convivialità. I tavoli ellittici di Piero Bottoni (La Vita Felice, 2018).

Tra i molti saggi sulla metropoli milanese (con Graziella Tonon): La terra degli ossimori. Caratteri del territorio e del paesaggio della Lombardia contemporanea, in Aa. Vv., Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Lombardia, a cura di D. Bigazzi e M. Meriggi, Einaudi, Torino 2001, pp. 51-187; Milano, la questione metropolitana, in «Archivio Storico Lombardo», dicembre 2020, pp. 41-65.

Sue raccolte di poesia sono pubblicate con i tipi di Scheiwiller ed Einaudi. L’opera pittorica è documentata in Ritmi e soglie (2018), Sognando la Liguria. 1994-1998 (2019); Stagioni. 1980-1998 (2021) editi da La Vita Felice.

Per Città Bene Comune ha scritto: Un pensiero argomentante, dialogico, sincretico, operante (2 giugno 2016); Museo e paesaggio: un'alleanza da rinsaldare (13 gennaio 2017); Coscienza dei contesti come prospettiva civile (9 febbraio 2018); In Italia c'è una questione urbanistica? (15 giugno 2018); Le ipocrisie della modernità (23 novembre 2018); La rivincita del luogo (25 luglio 2019); Le pratiche informali salveranno le città? (15 novembre 2019); Città: come rinnovarne l’eredità (20 novembre 2020); La coscienza di luogo necessaria per abitare (12 marzo 2021).

Dei libri di Giancarlo Consonni hanno scritto in questa rubrica: Pierluigi Panza (16 dicembre 2016); Paolo Pileri (10 febbraio 2017); Vezio De Lucia (18 maggio 2017); Andrea Villani (15 dicembre 2017); Rita Capurro (23 gennaio 2018); Francesco Erbani (15 gennaio 2021).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


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10 SETTEMBRE 2021

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Luca Bottini
Oriana Codispoti
Filippo Maria Giordano
Federica Pieri

cittabenecomune@casadellacultura.it

iniziativa sostenuta da:
DASTU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
2021: programma/1,2,3,4
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori
2019: Alberto Magnaghi

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021:

F. Indovina, Urbanistica? Bologna docet, commento a: R. Scannavini, Al centro di Bologna, 1965-2015 (Costa Editore, 2020)

S. Brenna, È questa l’urbanistica che vogliamo?, Commento a: P. Berdini, Lo stadio degli inganni (DeriveApprodi, 2020)

S. Moroni, Oltre la retorica dell’attivismo civico, commento a: C. Pacchi, Iniziative dal basso e trasformazioni urbane (Bruno Mondadori, 2020)

P. Pardi, Dal territorio una nuova democrazia, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

L. Carbonara, Riappropriarsi delle origini (di Mogadiscio), commento al catalogo della mostra curata da K. M. Abdulkadir, G. Restaino, M. Spina

C. Diamantini, La città nella tela del ragno, commento a: R. Keeton, M. Provost, To Built a City in Africa (nai010 publishers, 2019)

C. Petrognani e A. P. Oro, Paesaggi della pluralità, commento a: E. Trusiani et al. (a cura di), Paisagem cultural do Rio Grande do Sul, supplemento al n. 24/2021 di “Visioni LatinoAmericane”

E. Scandurra, Roma, e se non capitasse niente?, Commento a: W. Tocci, Roma come se (Donzelli, 2020)

G. Demuro, Custodire la bellezza insieme, commento a: G. Arena, I custodi della bellezza (Touring Club Italiano, 2020)

A. Casaglia, L'invenzione (e l'illusione) dei confini, commento a: L. Gaeta e A. Buoli (a cura di), Transdisciplinary Views on Boundaries (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2020)

R. Pugliese, Comporre nuove urbanità, commento a: A. De Rossi (a cura di), Riabitare l'Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste (Donzelli, 2018)

L. Bonesio, Dall'uso-consumo all'uso-cura del mondo, commento a: O. Marzocca, Il mondo comune (Manifestolibri, 2019)

G. Amendola, La città è fatta di domande, commento a: A. Mazzette e S. Mugnano (a cura di), Il ruolo della cultura nel governo del territorio (FrancoAngeli 2020)

C. Bianchetti, Incoraggiare rotture e nuovi germogli, commento a: Camillo Boano, Progetto Minore (LetteraVentidue, 2020)

M. Balbo, La città pensante, commento a: A. Amin, N. Thrift, Vedere come una città (Mimesis, 2020)

G. Pasqui, La ricerca è l'uso che se ne fa, commento a: P. L. Crosta, C. Bianchetti, Conversazioni sulla ricerca (Donzelli)

R.R., L'Urbanistica italiana si racconta, introduzione al video: E. Bertani (a cura di), Autoritratto di Alberto Magnaghi (Casa della Cultura 2020)

S.Saccomani, La casa: vecchie questioni, nuove domande, commento a: M. Filandri, M. Olagnero, G. Semi, Casa dolce casa? (il Mulino, 2020)

G. Semi, Coraggio e follia per il dopo covid, commento a: G. Nuvolati, S. Spanu (a cura di), Manifesto dei Sociologi e delle Sociologhe dell’Ambiente e del Territorio sulle Città e le Aree Naturali del dopo Covid-19, (Ledizioni, 2020)

R. Riboldazzi, Per una critica urbanistica, introduzione a: Città Bene Comune 2019 (Ed. Casa della Cultura, 2020)

M. Venturi Ferriolo, Contemplare l'antico per scorgere il futuro, commento a: R. Milani, Albe di un nuovo sentire (il Mulino, 2020)

S. Tagliagambe, L'urbanistica come questione del sapere, commento a: C. Sini, G. Pasqui, Perché gli alberi non rispondono (Jaca Book, 2020)

G. Consonni, La coscienza di luogo necessaria per abitare, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

E. Scandurra, Nel passato c'è il futuro di borghi e comunità, commento a: G. Attili – Civita. Senza aggettivi e senza altre specificazioni (Quodlibet, 2020)

R. Pavia, Roma, Flaminio: ripensare i progetti strategici, commento a: P. O. Ostili (a cura di), Flaminio Distretto Culturale di Roma (Quodlibet, 2020)

C. Olmo, La diversità come statuto di una società, commento a: G. Scavuzzo, Il parco della guarigione infinita (LetteraVentidue, 2020)

F. Indovina, Post-pandemia? Il futuro è ancora nelle città, commento a: G. Amendola (a cura di), L’immaginario e le epidemie (Mario Adda Ed., 2020)

G. Dematteis, Il territorio tra coscienza di luogo e di classe, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

M. Ruzzenenti, Una nuova cultura per il bene comune, commento a: G. Nuvolati, S. Spanu (a cura di), Manifesto dei sociologi e delle sociologhe dell’ambiente e del territorio sulle città e le aree naturali del dopo Covid-19 (Ledizioni, 2020)

F. Forte, Una legge per la (ri)costruzione dell'Italia, commento a: M. Zoppi, C. Carbone, La lunga vita della legge urbanistica del '42 (didapress, 2018)

F. Erbani, Casa e urbanità, elementi del diritto alla città, commento a: G. Consonni, Carta dell’habitat (La Vita Felice, 2019)

P. Pileri, Il consumo critico salva territori e paesaggi, commento a, A. di Gennaro, Ultime notizie dalla terra (Ediesse, 2018)