Renzo Riboldazzi  
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ABITARE LA PROSSIMITÀ (MA NON TROPPO)


Introduzione all'incontro e commento al libro di Ezio Manzini



Renzo Riboldazzi


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Martedì 3 maggio, alle ore 18.00, in via Borgogna 3 (MM San Babila) torna Città Bene Comune, iniziativa – curata da chi scrive e prodotta dalla Casa della Cultura in collaborazione con il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano – volta a promuovere il dibattito pubblico e la riflessione collettiva sui temi della città, del territorio, dell’ambiente, del paesaggio e delle relative culture interpretative e progettuali.

Ospite del primo incontro sarà Ezio Manzini, autore di Abitare la prossimità. Idee per la città dei 15 minuti –pubblicato, con un contributo di Ivana Pais, per i tipi di Egea nel 2021 –, che discuterà delle questioni affrontate nel libro con Alessandro Balducci – professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica del Politecnico di Milano –, Sonia Stefanizzi – direttrice del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università degli Studi di Milano Bicocca – e Maurizio Tira – rettore dell’Università degli Studi di Brescia e presidente della Società Italiana degli Urbanisti (SIU).

L’iniziativa – giunta alla sua IX edizione dopo quelle del 2013, 2014, 2015, 2016, 2017, 2018, 2019, 2021 – si svolge con il patrocinio dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU), della Società Italiana degli Urbanisti (SIU), della Società dei Territorialisti/e Onlus (SdT) e dell’Associazione Italiana di Scienze Regionali (AISRe) con la formula semplice ed efficace che le appartiene da sempre, ovvero: quattro libri, quattro autori, quattro incontri con (in totale) dodici qualificati interlocutori per discutere di città e società, territori e paesaggi, ambienti naturali e antropizzati. Questo, almeno in prima battuta, a partire dall’urbanistica – dalle molte idee di urbanistica germogliate negli anni – ma con uno sguardo aperto e attento a tutti quei saperi su cui nel tempo si sono fondate letture, interpretazioni, idee, proposte che vanno oltre gli steccati disciplinari per tentare di comprendere la complessità della realtà in cui viviamo. E, per quanto possibile, senza preconcetti, nella convinzione che per le sfide che abbiamo di fronte sia necessaria una cultura – urbana, territoriale, ambientale, paesaggistica, sociologica, geografica, economica – diffusa, laica e al tempo stesso fondata scientificamente ed eticamente.

[la Redazione]

 

Le ragioni di un incontro

Forse non è un caso che Abitare la prossimità sia stato dato alle stampe nel 2021 e scritto, con ogni probabilità, quando la pandemia da Covid-19 ha avuto i suoi impatti più duri sulla vita di tutti noi. Potrebbe non essere un caso perché proprio in quel periodo molti di noi hanno sperimentato direttamente cos’è la prossimità e cosa significa, o avrebbe potuto significare, ‘abitarla’ quotidianamente e stabilmente. Nel bene e nel male.

Ne abbiamo colto i limiti pesanti quando è stata coabitazione forzata, privazione della libertà di uscire dagli spazi privati, di allontanarci dall’isolato della nostra casa, di oltrepassare i confini del nostro quartiere o quelli del nostro comune, della nostra regione, della nostra nazione. E, al tempo stesso, ne abbiamo apprezzato le potenzialità quando – magari dopo un iniziale periodo di sbandamento per l’enormità della vicenda che improvvisamente ci siamo trovati ad affrontare – siamo riusciti a lavorare comodamente da casa più o meno come quando ci spostavamo da una parte all’altra della città o di territori assai più ampi impegnando una parte significativa del nostro tempo. Quando i nostri figli – seppur con una serie di limiti non secondari e di effetti sulla loro psiche anche rilevantissimi di cui ancora oggi portano i segni – sono riusciti a seguire le loro lezioni, a fare i compiti con i loro compagni, a concludere l’anno scolastico. Quando abbiamo fatto la spesa online per noi o per qualche vicino o parente poco avvezzo all’uso di tecnologie informatiche comprendendo bene quanto – in quel momento dove le parole d’ordine erano distanziamento e isolamento ovvero il contrario della prossimità – fossero importanti le relazioni: quelle familiari o affettive con cui abbiamo condiviso la vita anche più di quanto avremmo voluto in spazi perlopiù inadeguati; quelle di vicinato o amicali a cui abbiamo dato e da cui abbiamo ricevuto sostegno, anche inaspettatamente e anche solo con saluto dal balcone; e quelle più lontane che – seppur a distanza e tramite dispositivi elettronici – abbiamo in qualche modo continuato a coltivare.

Ecco, Manzini sembra partire idealmente da qui. Non tanto dalla vicenda pandemica in sé quanto da quello che ci ha lasciato in eredità nella nostra percezione delle cose della vita. E con parole semplici e chiare ci spiega cos’è la prossimità in tutte le sue sfaccettature (geografica, sociale, cognitiva, organizzativa, istituzionale). Come questa intercetti la dimensione fisica degli insediamenti, soprattutto quella delle città. Quanto influenzi o potrebbe influenzare positivamente quella sociale, quella funzionale, quella economica e amministrativa. Quanto riguardi il ventaglio dei beni comuni, comunque li si intenda. In che termini – nella scia di una lunga tradizione di critica al modernismo ortodosso inaugurata da Jane Jacobs e che passa da Kevin Lynch, Bernard Rudofsky, Gordon Cullen, Jan Gehl e altri ancora –, in che termini – dicevamo – la prossimità sia, in fondo, una condizione della democrazia: quella che muove dagli scambi informali di vicinato e dalla partecipazione diretta alle decisioni che riguardano le comunità. E come sia intrinsecamente legata al concetto di cura: cura del prossimo, del più fragile, dei luoghi. Una cura spontanea, generosa e intrisa di umanità. Intimamente differente da quella erogata da un qualsiasi servizio pubblico pensato e istituito altrove, a tavolino, gestito burocraticamente e calato in un contesto di fatto estraneo. Quella a cui pensa Manzini è la cura attiva dei membri di comunità radicate nei luoghi che il senso di appartenenza rende sensibili ai bisogni dei singoli e della collettività verso cui agiscono in prima persona e responsabilmente. Facendosi carico di bisogni piccoli e grandi. Sostenendosi vicendevolmente. Organizzandosi. Dedicando una parte del proprio tempo agli altri. Facendo ciò che può essere utile a far stare meglio. Non solo se stessi o la propria ristretta cerchia di familiari e amici, ma la comunità di cui sono parte, le persone che la compongono, perché – afferma l’autore – «la cura non è un fatto individuale da risolvere tra chi ne ha bisogno e chi offre soluzioni» (p. 68).

Quello di Manzini è un messaggio con una forte carica ideale ma non è un’utopia, come questi pochi richiami alle tesi del libro potrebbero lasciar intendere e come lui stesso precisa. Si tratta, piuttosto, di una riflessione ampia e articolata che sfocia in una vera e propria proposta progettuale fondata su alcuni concreti esempi di innovazione sociale o di politiche urbane – Parigi e la città dei 15 minuti, Barcellona e le Superilles, il modello Circle del Regno Unito, per citarne alcuni – considerati prodromi di un futuro possibile. Ma soprattutto incardinata nelle possibilità offerte dalle tecnologie digitali. Quelle che durante i lunghi periodi di lockdown tutti, chi più chi meno, ci siamo abituati a utilizzare, imparando a fare molte delle cose che facevamo prima in modo un po’ diverso, in luoghi e tempi differenti, incrinando così quel paradigma di matrice taylorista che nel Novecento ha permeato e strutturato la vita delle società occidentali e la forma delle nostre città. Quello che vedeva nello svolgimento di una determinata mansione in un preciso luogo fisico, in un tempo e con ritmi prestabiliti, uno dei suoi tratti essenziali. Questo non vuol dire che l’autore sia annoverabile tra quanti sognano una quotidianità traslata dal reale allo spazio-tempo virtuale, una vita di solitudini colmata dai social e vissuta sostanzialmente nel chiuso di quattro mura domestiche. Al contrario, quello che l’ingegnere, architetto e teorico del design, nonché professore onorario del Politecnico di Milano sostiene con convinzione è la necessità di ritessere ciò che la “città delle distanze” – come ripetutamente battezza quella moderna e contemporanea – nel secolo scorso e tutt’oggi ha e mantiene sfilacciato e disgregato. In altri termini, ciò che Manzini immagina è una vita urbana fatta di relazioni sociali impostate su un ordito di luoghi concreti e identitari, conformati fisicamente e strutturati funzionalmente in modo che lo stare insieme, l’incontrarsi, il dialogare, l’occuparsi l’uno dell’altro, il curare i contesti e il vigilare su di essi avvenga quasi naturalmente. Una proposta, che ha radici antiche e prospettive future, che dal passato coglie alcune lezioni importanti, senza scivolare nell’imbuto di una retorica passatista che folkloristicamente evoca stili di vita in condizioni spaziali, sociali e funzionali che non esistono e non esisteranno più.

Il libro di Ezio Manzini finisce così col prestarsi a molte letture. Suscita riflessioni. Stimola interpretazioni su temi e questioni non propriamente al centro del dibattito pubblico o, meglio, discusse ma spesso riduttivamente perché non supportate da un ragionamento argomentato come quello contenuto in questo bel libro. Al punto da ridursi a slogan. O da essere assunte strumentalmente come bandiera nell’agenda urbanistica di qualche assessore illuminato o di qualche politico colto e sensibile ai fermenti della società, senza tuttavia inciderla veramente, con impatti sporadici e assai circoscritti sulla vita delle città. Dove, in pochi casi, si è affrontata seriamente una riflessione sui caratteri della spazialità urbana (e dunque sull’architettura dei luoghi, su come li costruiamo o trasformiamo). Sulla distribuzione della popolazione sul territorio (e dunque sui modi di abitare anche in rapporto ai luoghi di lavoro o agli effetti della rendita immobiliare e fondiaria). Sull’organizzazione delle funzioni urbane e territoriali così come sulla distribuzione e sul carattere dei servizi e delle infrastrutture collettive (e dunque sul funzionamento della città e del territorio nel loro insieme). Sugli strumenti che abbiamo a disposizione per governare tutto ciò (ovvero sulle strutture amministrative, sociali ed economiche di cui disponiamo). Sulla vita dei singoli e soprattutto delle comunità (e, dunque, sul tipo di società a cui guardiamo, tendiamo, ambiamo che evidentemente è espressione di un ideale politico). Manzini interpella queste e diverse altre dimensioni della vita civile. Le intreccia. Ne comprende e ne descrive ruoli e relazioni. Non tutte sono analizzate con la stessa profondità e di non tutte se ne comprendono appieno i risvolti. Di certo, tuttavia, a tutte è attribuita una funzione non secondaria sulla scena di una sperabile quotidianità caratterizzata, appunto, dalla prossimità relazionale e, soprattutto, da quanto questa potrebbe generare di positivo per tutti noi.

 

Qualche elemento di discussione

Non c’è dubbio che quella che Ezio Manzini chiama la “città delle distanze” abbia dimostrato nel tempo tutti i suoi limiti. E non c’è dubbio che occorra «deviare la tendenza in atto verso la non-città del tutto a/da casa» (p. 6).

Si tratta di limiti derivanti dalla dispersione dell’edificato sul territorio, per esempio. Che costringe molti a lunghi spostamenti nei rapporti casa/lavoro, casa/scuola, casa/servizi sottraendo tempo alla vita e alle relazioni affettive, amicali o sociali e comportando costi individuali e collettivi (per esempio, per l’automobile, la benzina, l’assicurazione, l’autostrada) che impattano significativamente tanto sui bilanci familiari quanto su quelli delle imprese e, in definitiva, sui prodotti. Che, in molte aree del Paese, comporta un inutile quanto pervasivo consumo di suolo con tutto ciò che ne consegue in termini di alterazione degli equilibri idrogeologici, di riduzione delle superfici naturali (e quindi, tra le altre cose, sulla possibilità di rigenerare l’aria e l’acqua) e di quelle agricole (e di conseguenza della nostra capacità di autosostentamento). E, allo stesso tempo, fenomeni di abbandono di ampie parti del nostro territorio.

Oppure di limiti derivanti da un modo di edificare indifferente allo spazio pubblico. Fatto di architetture solitarie e strade ridotte a mere infrastrutture per la mobilità veicolare, prive di quel carattere di urbanità che storicamente ha caratterizzato la costruzione della città europea favorendo relazione, condivisione, vita civile. Perché, è innegabile – come sostiene Manzini – che «le caratteristiche dello spazio fisico della città costruita influiscano sulla possibilità che si generino degli incontri» (p. 51) e, aggiungiamo noi, sulla qualità della nostra vita. È dunque – come affermava Giancarlo Consonni già nel 2008 nel suo La difficile arte. Fare città nell’era della metropoli (Maggioli) – «alle trame relazionali socializzanti che va (ri)affidato il compito di strutturare e tenere insieme l’edificato, puntando allo stesso tempo sulla complessità e sulla qualità architettonica dei luoghi» (p. 70). Ed è restituendo importanza a quel «forte legame tra la forma, la vita della città e la misura del passo» dell’uomo – come suggeriva Rosario Pavia nel suo Il passo delle città. Temi per la metropoli futura (Donzelli, 2015) – che ciò va fatto.

Non c’è dubbio, poi, che la città della separatezza fisica e funzionale abbia ampiamente contribuito a quella sociale generando «una non-città fatta da un aggregato di individui senza comunità, senza beni comuni, senza luogo» (p. 35) e abbia, al tempo stesso, avuto ripercussioni ambientali non secondarie che ci chiedono di «rimettere in discussione alcuni dei fondamenti più spiccatamente antropocentrici, e quindi intrinsecamente insostenibili, della cultura occidentale» (p. 25). È dunque plausibile, perfino auspicabile, prevedere una riorganizzazione dello spazio urbano che – sfruttando l’energia di iniziative riconducibili sotto il cappello dell’innovazione sociale – quella che prende corpo «quando qualcuno, cambiando un modo di fare socialmente consolidato, risolve un problema o apre nuove possibilità» (p. 20) – o esito di politiche urbane innovative di natura pubblica – possa contribuire a dare corpo a comunità più coese, radicate, meglio distribuite in ambito urbano e territoriale. Questo anche sfruttando le potenzialità offerte dalle tecnologie informatiche, esaltate tanto dalla capillare diffusione di ogni tipo di dispositivo digitale quanto dalla pervasiva abitudine all’utilizzo dei social.

I possibili esiti positivi di un’inversione di rotta che vada nella direzione indicata da Manzini sono ampiamente illustrati nel libro. E qualora le cose andassero come l’autore auspica, non c’è dubbio che per molti aspetti della vita ne avremmo un vantaggio generalizzato. Questo, tuttavia, non è esente da limiti se non addirittura da qualche pericolo. Di seguito indichiamo alcuni temi e questioni che, a nostro parere, andrebbero approfonditi meglio e li poniamo come elemento di discussione.

1. La presenza di un servizio pubblico, negli ambiti della cura delle persone o delle cose (per esempio, uno spazio pubblico) e non solo in quelle, è in generale, una garanzia per tutti i cittadini. Probabilmente il servizio erogato sarà un po’ più freddo, distante, meno puntuale rispetto a quelli che l’autore immagina e in parte descrive nei casi studio. Tuttavia, in quanto pubblico avrà un carattere egualitario, indipendente dalle dinamiche comunitarie e, in linea di principio, eviterà a chi volesse o dovesse usufruirne l’incertezza di un’azione fondata sulla disponibilità dell’altro che, per quanto collaborativa sia, comporta sempre margini di incertezza e discrezionalità. In altre parole, la presenza delle comunità di cura – così come di qualsiasi genere di comunità che, orientata o meno, può formarsi in un ambito urbano o territoriale su base politica, culturale, identitaria o etnica offrendo un contributo alla qualità della vita – non esclude la necessità di un servizio pubblico universale che renda i cittadini uguali tra loro e li faccia sentire parte della società. L’universalità dei servizi, un’equa distribuzione degli stessi sul territorio – così come la cultura urbanistica moderna ha cercato di praticare fin dal piano di Cerdà per Barcellona della seconda metà dell’Ottocento – e l’accesso ai beni comuni sono al tempo stesso diritto e garanzia per tutti. È perciò necessario immaginare forme di welfare che, pur in grado di far leva anche sulle energie, le conoscenze, l’intelligenza, la collaborazione di quanti agiscono attivamente in ambito comunitario, sia accessibile e disponibile anche per coloro che di quelle comunità circoscritte non possono o non vogliono far parte.

2. Le comunità circoscritte, quelle dove tutti si conoscono, dove c’è chi si accorge di te, dei tuoi bisogni, o quelle dove, come in un caso citato dall’autore, c’è perfino il “gestore sociale” (p. 138), sono anche quelle dove il controllo sociale è più facile. Dove l’autodeterminazione e le libertà individuali sono maggiormente condizionabili, comprimibili. Quelle dove l’esclusione del diverso – ovvero di chi, semplicemente, non è allineato sulle posizioni della maggioranza – è potenzialmente più pesante perché non lascia scampo. Viene cioè da chiedersi se non sia preferibile immaginare una società meno definita, più aperta e plurale, multietnica, multiculturale i cui legami siano fondati su principi etici condivisi senza essere necessariamente ricondotti alla dimensione comunitaria locale (reale o virtuale). Una città che non si illude di sfuggire alle tensioni determinate dalle differenze ma che – come scrive Gabriele Pasqui nel suo La città, i saperi, le pratiche (Donzelli, 2018) di cui si è discusso qui, in una delle scorse edizioni di Città Bene Comune – le intende come «la condizione di equilibri dinamici, instabili e parziali» (p. 19) che andranno pazientemente ma ostinatamente ricercati tanto nel progetto quanto nel governo della città e del territorio. Dove, parafrasando Pasqui, condividere lo spazio non significa necessariamente condividere i sogni, gli stili di vita, il destino degli altri. Dove, certo, possono coagulare una, dieci, cento mille comunità che fanno della cura reciproca o di quella dei luoghi uno dei loro tratti caratteristici ma non necessariamente comportano il farvi parte e non per questo il grado di accessibilità ai servizi si riduce o viene meno la cittadinanza, il senso di appartenenza al luogo o alla società. In altre parole – si chiede l’autore stesso – «è possibile coltivare allo stesso tempo le reti brevi della quotidianità e quelle lunghe dell’apertura sul mondo?» (p. 45). E come praticare davvero quel localismo cosmopolita di cui scrive Manzini (pp. 45-46) che sia garanzia di libertà politica e culturale?

3. I luoghi dove l’innovazione sociale o le politiche urbane di diversa natura prendono corpo – con il parallelo miglioramento della qualità della vita in quegli ambiti – sono anche quelli dove spesso si innescano processi di rigenerazione/sostituzione urbana e sociale. Quelli, cioè, dove i fenomeni di gentrification – ovvero di progressiva espulsione degli abitanti e delle attività commerciali o artigianali tradizionali con parallela riqualificazione degli immobili e degli spazi pubblici – avvengono più frequentemente. Come si possano metabolizzare e sedimentare i molti benefici di cui parla Manzini con questo tipo di fenomeno resta un aspetto da discutere. Non controllare i possibili esiti, non mettere in conto il loro impatto sulla vita delle persone e delle realtà locali rischia di creare ulteriori problemi, di peggiorare gli squilibri, di esacerbare le difficoltà. Soprattutto quelle dei più fragili. Quelle di quanti hanno meno possibilità economiche o strumenti culturali adeguati ad affrontarle.

In altre parole, e per concludere, abitare la prossimità, riorientare le politiche urbane in tale direzione facendo leva sulle energie di cui le comunità sono portatrici, assumere la pluralità di iniziative di cui queste sono capaci – siano esse spontanee o preliminarmente strutturate e indirizzate come oggi amano fare associazioni, fondazioni e persino l’università –, ha indubbiamente molti vantaggi. Manzini lo dimostra chiaramente e, dunque, lo si può e lo si deve probabilmente fare. Ma non troppo. Occorre badare che, nel nome di un ideale, non venga meno un vigile senso critico su esiti variegati, incerti e mutevoli che rischiano di farci perdere un orizzonte di senso condiviso che è patrimonio delle società occidentali. Soprattutto se, per quanto attiene l’urbanistica, non siamo più disposti a ricadere nelle semplificazioni del funzionalismo e, più in generale da un punto di vista politico e sociale, vogliamo evitare di commettere gli stessi errori di quella modernità novecentesca che, da anni, cerchiamo vanamente di lasciarci alle spalle.

Renzo Riboldazzi

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

29 APRILE 2022

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture interpretative e progettuali

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

ideazione e direzione scientifica (dal 2013): 
Renzo Riboldazzi

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comitato editoriale (dal 2013): Elena Bertani, Oriana Codispoti; (dal 2024): Gilda Berruti, Luca Bottini, Chiara Nifosì, Marco Peverini, Roberta Pitino

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2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021: online/pubblicazione
2022:

R. Pavia, Il porto come soglia del mondo, commento a: B. Moretti, Beyond the Port City (Jovis, 2020)

S. Sacchi, Lo spazio urbano è necessario, commento a L. Bottini, Lo spazio necessario (Ledizioni, 2020)

D. Calabi, La "costituzione" degli ebrei di Roma, commento a: A. Yaakov Lattes, Una società dentro le mura (Gangemi, 2021)

F. Ventura, Memoria dei luoghi ed estetica dell'Ircocervo, riflessione a partire da: G. Facchetti, C’era una volta a San Siro (Piemme, 2021) e P. Berdini, Lo stadio degli inganni (DeriveApprodi, 2020)

E. Scandurra, Il territorio non è una merce, commento a: M. Ilardi, Le due periferie (DeriveApprodi, 2022)

A. Mela, Periferie: serve una governance coerente, commento a: G. Nuvolati, Alessandra Terenzi (a cura di), Qualità della vita nel quartiere di edilizia popolare a San Siro, Milano (Ledizioni, 2021)

M. A. Crippa, Culto e cultura: una relazione complessa, commento a: T. Montanari, Chiese chiuse (Einaudi, 2021)

V. De Lucia, La lezione del passato per il futuro di Roma, commento a: P. O. Rossi, La città racconta le sue storie (Quodlibet, 2021)

M. Colleoni, Mobilità: non solo infrastrutture, commento a: P. Pucci, G. Vecchio, Enabling mobilities (Springer, 2019)

G. Nuvolati, Una riflessione olistica sul vivere urbano, commento a: A. Mazzette, D. Pulino, S. Spanu, Città e territori in tempo di pandemia (FrancoAngeli, 2021)

E. Manzini, Immaginazione civica, partecipazione, potere, commento a: M. d'Alena, Immaginazione civica (Luca Sossella, 2021)

C. Olmo, Gli intellettuali e la Storia, oggi, commento a: S. Cassese, Intellettuali (il Mulino, 2021); A. Prosperi, Un tempo senza storia (Einaudi, 2021)

A. Bagnasco, Quale sociologia e per quale società?, commento a: A. Bonomi (a cura di), Oltre le mura dell’impresa (DeriveApprodi 2021)

R. Pavia, Le parole dell'urbanistica, commento a A. A. Clemente, Letteratura esecutiva (LetteraVentidue, 2020)

G. Laino, L'Italia ricomincia dalle periferie, commento a: F. Erbani, Dove ricomincia la città (Manni, 2021)

G. Consonni, La bellezza come modo di intendersi, commento a: M. A. Cabiddu, Bellezza. Per un sistema nazionale (Doppiavoce, 2021)