Andrea Villani  
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PROGETTARE IL FUTURO O GESTIRE GLI EVENTI?


Le origini della pianificazione della città metropolitana di Milano



Andrea Villani


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Alla fine degli anni Cinquanta ebbe luogo in Italia un fortissimo sviluppo industriale che si concentrò soprattutto nelle regioni del Nord ma in particolare in Lombardia, in Piemonte e nel Veneto occidentale. Lo sviluppo del Nord-Est, infatti, si sarebbe verificato almeno un decennio più tardi. Un tratto di questo tanto impetuoso quanto imprevisto sviluppo fu - specie nella prima fase - di non essere imbrigliato, e quindi neppure in qualche modo frenato, da un'azione pubblica di regolamentazione e controllo. Questa è, un po' ovunque, la caratteristica degli esordi dell'industrializzazione: negli anni Cinquanta-Sessanta, nella Lombardia del nord e nel Torinese; negli anni Settanta-Ottanta nel Nord-Est italiano; a fine secolo in Spagna, negli anni Duemila in Cina, in India nella Corea del Sud. Sempre con le medesime caratteristiche, come d'altronde era già avvenuto in Gran Bretagna, in particolare nel secolo Decimonono. 

Ora è ben noto che quando si verifica un rilevante sviluppo industriale non si ha soltanto l'effetto - certamente positivo - di creare posti di lavoro, beni materiali e reddito che consente di acquistare i beni prodotti e mettere insieme un patrimonio, ma si determinano anche spostamenti di popolazione, inurbamento, cambiamenti di abitudini a livello di massa, crisi negli stili di vita personali e di rilevanti gruppi sociali, crisi delle famiglie, criticità (per inadeguatezza) in tutte le strutture pubbliche, congestione del traffico, pressioni della domanda sulle abitazioni esistenti e quindi aumento dei prezzi di acquisto e dei canoni d'affitto nelle città. E ovviamente, e forse innanzitutto - nel modo più evidente e immediato - la scomparsa o la rilevantissima trasformazione dell'ambiente fisico tradizionale, la trasmutazione legata all'urbanizzazione di vasti territori generalmente destinati all'agricoltura (per la costruzione di fabbriche, depositi, magazzini, strade di connessione) nonché, con modalità diverse nel tempo, inquinamento idrico e atmosferico. È di fronte a simili situazioni che le autorità pubbliche - in linea generale ovunque, man mano che si creano le condizioni - intervengono nel difficile compito da una parte di cercare di controllare le modalità dello sviluppo; dall'altra di non frenarlo, perché di regola lo sviluppo - innanzitutto industriale e in termini di creazione di posti di lavoro - è bene accetto, anzi sovente costituisce l'obiettivo prioritario delle politiche pubbliche. 

Un fatto da molti punti di vista piuttosto sconvolgente è costituito dal modo in cui si espandono e si moltiplicano sul territorio i nuovi insediamenti. In assenza di un'accurata pianificazione urbanistica, ogni imprenditore tende a realizzare la sua fabbrica quando, dove e come ritiene più opportuno. Lo stesso avviene per le attrezzature di servizio da lui medesimo promosse. E lo stesso fanno coloro che - imprese o singoli privati cittadini - intendono realizzare abitazioni. Un simile modo di procedere determina evidentemente una situazione caotica, tanto meno accettabile quanto più l'osservatore - singolo cittadino, studioso, amministratore pubblico - sia adusato a giudicare la qualità di una città, di un borgo, di un territorio, osservando e apprezzando l'ordine tradizionale, anteriore allo sconvolgimento, o una situazione in cui sia stato sperimentato lo sviluppo industriale ma questo sia stato assorbito, razionalizzato, aggiustato nel tempo, attraverso opportune politiche urbanistiche e di gestione del territorio.

Milano e il Milanese alla fine anni Cinquanta-inizio anni Sessanta si trovavano in una situazione in cui il polo centrale, la città di Milano, aveva praticato nel tempo, nell'arco di quasi un secolo, un controllo del proprio sviluppo fisico attraverso l'elaborazione di diversi piani regolatori. Piani che, nel bene e nel male, apprezzabili o meno, erano stati gli strumenti che effettivamente avevano guidato la crescita urbana che non si era realizzata con insediamenti casuali e arbitrari ma sulla base di regole stabilite dalla pubblica amministrazione. Nei comuni contermini, invece, privi di piano regolatore, le varie iniziative immobiliari erano state attuate - là dove un certo controllo era praticato - semplicemente in base all'applicazione di un regolamento edilizio. Vale a dire: nel perimetro amministrativo del Comune di Milano un ordine era stato stabilito, un governo del territorio era stato praticato, mentre ciò che si realizzava appena al di fuori di quei confini, a iniziare dalla prima cintura, era la concretizzazione del disordine urbanistico: la caotica disseminazione degli insediamenti caratterizzava infatti il territorio della maggior parte dei comuni dell'area metropolitana milanese investiti dallo sviluppo industriale e residenziale degli anni Sessanta. Dunque, in quel periodo, il Comune di Milano - che coi suoi amministratori si gloriava di avere tra le mani il piano urbanistico più moderno e progredito d'Italia (approvato nel 1953) - frutto di una cultura urbanistica apprezzata nel mondo politico e nei centri di studio e ricerca sulla città e il territorio a iniziare dalle Facoltà di Architettura dominanti in quel momento in tutta Europa - disponendo di un simile strumento urbanistico e di una forte volontà politica di intervento pubblico si trovò da una parte a gestire l'esplosione della domanda sul territorio comunale, dall'altra il concentrarsi di insediamenti del più vario genere e nella totale assenza di controllo nei comuni limitrofi.

Questa situazione, e il timore che la tendenza andasse ulteriormente ad aggravarsi, indussero l'amministrazione comunale di Milano a chiedere al Ministero dei Lavori Pubblici l'autorizzazione alla realizzazione di un piano intercomunale, ai sensi dell'art. 12 della legge urbanistica n. 1150 del 1942. L'intenzione degli amministratori milanesi era di riuscire a elaborare per tutto il territorio di 35 comuni - esterni a Milano, ma coinvolti dalla dinamica complessiva dello sviluppo in atto - un piano regolatore come quello vigente sul territorio comunale. Una richiesta che alla fine si concretizzò nella costituzione del Piano Intercomunale Milanese (PIM), una struttura pubblica per lo sviluppo e il governo del territorio all'interno della quale ciascun comune, compreso Milano, avrebbe dovuto (e di fatto per statuto fu così) contare in modo uguale a ciascun altro.

 

Il piano urbanistico di area vasta. Verso una terra ignota

Il compito fondamentale di questo nuovo istituto di pianificazione urbanistica - che nasceva dal basso, su base volontaria e del tutto sperimentale - era di elaborare il piano urbanistico per tutta l'area metropolitana milanese e, successivamente, quello di gestirlo. Ci si muoveva tuttavia verso terre ignote. Non si sapeva affatto che metodo di lavoro seguire. La legge urbanistica n. 1150 del 1942 specificava ciò che avrebbe dovuto contenere un piano regolatore comunale ma era assai meno precisa circa i contenuti di un piano intercomunale. Anzi, a dire il vero, qualche idea e indicazione nella legge c'era ed era nel senso del piano prefigurato, interpretato da politici e tecnici del comune di Milano come una sommatoria dei piani regolatori dei comuni componenti debitamente riadattati e concertati. Questo perché i piani intercomunali nell'intenzione del legislatore avrebbero dovuto riguardare pochi comuni fisicamente conurbati: per esempio - come ci chiarì uno dei tecnici che parteciparono alla elaborazione di quella legge - tra comuni limitrofi della Riviera ligure. Restava dunque da chiarire chi avrebbe dovuto elaborare i piani intercomunali, con quali criteri, con quali vincoli e quali di questi avrebbero dovuto essere messi in campo dall'istituzione sovracomunale o, al contrario, dal governo locale. Problemi di carattere metodologico che si sommavano a ulteriori problemi relativi alle specificazioni concrete che i piani - rispettivamente quello intercomunale e quelli comunali - avrebbero dovuto assumere circa la localizzazione delle funzioni urbane sul territorio. 

 

Il "modello della turbina"

Nella ricostruzione di questa vicenda, credo di dover ricordare due linee evolutive. Una riguarda la storia del dibattito politico-culturale (la controversia metodologica sulla pianificazione territoriale); l'altra, il modo concreto con cui ebbero luogo le trasformazioni territoriali su iniziativa dei singoli comuni o del complesso dei comuni nell'arco degli anni Sessanta, e anche - sia pure con l'influenza, o meglio, in qualche modo in connessione con la neonata Regione Lombardia - durante gli anni Settanta. In particolare, ci soffermeremo sulla prima ovvero sulla questione dell'elaborazione teorica del piano territoriale. Le domande che ci poniamo sono: che tipo di cura, tutela, assetto del territorio poteva venire proposto, e cosa di fatto si giunse a proporre dagli organi del PIM? Che proposte vennero da parte dei comuni? Quali risultati sono stati ottenuti? 

Intanto cominciamo col dire che abbiamo buoni motivi per affermare che mai nella storia della pianificazione urbanistica milanese un dibattito sul metodo e la strategia delle scelte venne presentato e dibattuto pubblicamente con così grande impegno e intensità, tanto alla scala locale - nelle amministrazioni e nei consigli comunali - quanto attraverso i media. Il primo progetto su cui ci fu ampio confronto fu quello elaborato da Giancarlo De Carlo che prevedeva un modello insediativo cosiddetto "a turbina". Con questo si dava corpo a un'idea di sviluppo urbano di Milano e dei comuni contermini che avrebbe dovuto seguire, nella realizzazione fisica sul territorio, la forma appunto di una turbina. L'idea forte era che in tal modo lo sviluppo avrebbe potuto e dovuto avvenire in modo da concentrare insediamenti e valori urbani lungo aree predefinite e rigorosamente disegnate (le pale della turbina); il verde avrebbe lambito ampiamente queste aree e sarebbe penetrato di fatto fin nel cuore della città; agli apici di queste avrebbero dovuto essere collocati elementi catalizzatori di valori urbani di particolare significato e importanza in modo da qualificare anche gli ambiti circostanti. Per i comuni minori che non ricadevano nel disegno della turbina non era prevista alcuna espansione; un certo numero di comuni più lontani - sempre nell'area metropolitana - avrebbe dovuto invece sperimentare una significativa crescita per raggiungere dimensioni adeguate a svolgere il livello di servizio locale e sovralocale considerato opportuno e necessario.

Checché se ne sia detto e scritto in quel momento, l'idea di De Carlo non era affatto peregrina nè priva di fondamento. Essa aveva indubbiamente un'esplicita estrinsecazione formale (in termini di "forma della città", quanto meno per la città di Milano), ma metteva in gioco anche la conservazione del verde e del territorio, sia con funzioni agricole che da destinare a parchi, una visione che allora - primi anni Sessanta - non era certamente diffusa. Tuttavia questa proposta o "modello" non ebbe successo e non trovò applicazione sia per l'opposizione a livello teorico, in particolare dall'interno dell'ILSES (Istituto Lombardo per gli Studi Economici e Sociali), sia, soprattutto, per l'opposizione delle amministrazioni locali dei comuni indicati con un "bollino bianco": quei comuni cioè che non avrebbero potuto-dovuto crescere. E poiché questi comuni erano numerosi, all'interno dell'Assemblea dei Sindaci - che era l'organo del PIM formalmente committente del progetto di piano - il "modello a turbina" venne accantonato.

Nel racconto di De Carlo - che pure avrebbe giocato una parte importante anche nella fase immediatamente successiva - la vera e significativa elaborazione culturale del piano per l'area metropolitana milanese finisce a quel punto. In realtà non è così. Ci fu infatti negli anni 1964-65 una rilevante proposta di piano, alternativa in termini metodologici, in cui lo stesso De Carlo giocò un ruolo significativo, anche se meno solitario. Una proposta in cui la forma della città e del territorio - a differenza del "modello a turbina" - non doveva, in linea di principio, avere alcuna importanza.

 

Prefigurazione versus piano-processo

Nel 1964 l'Assemblea dei Sindaci del PIM incaricò il Comitato Tecnico-Urbanistico e il Comitato per la Programmazione Economico-Finanziaria - due organi interni dell'ente - di elaborare una proposta di piano. Alcuni membri di questi due comitati vennero prescelti per formare un Comitato Tecnico-Direttivo che risultò composto da Marco Bacigalupo, Giacomo Corna Pellegrini, Giancarlo De Carlo, Giancarlo Mazzocchi, Silvano Tintori, Alessandro Tutino e presieduto da Mario Talamona. Come si può osservare, nel Comitato Tecnico Direttivo erano presenti architetti-urbanisti, un geografo ed economisti. Questi ultimi, in quel momento, giocavano una parte attiva molto forte sul fronte della pianificazione: all'inizio degli anni Sessanta programmazione economica e pianificazione urbanistica erano infatti due parole d'ordine del dibattito politico corrente. 

Nel Comitato Tecnico Direttivo del PIM vennero immediatamente a galla due posizioni contrapposte. De Carlo, Tintori e Tutino assunsero una posizione che mirava a contrapporsi a qualsiasi cosa somigliasse a un "Grande Disegno", quanto meno a qualcosa che postulasse la necessità e la presenza di grandi infrastrutture. Milano e tutto il territorio milanese avrebbero dovuto acquisire qualità urbana, godere di quegli aspetti positivi sintetizzati nella formula "effetto urbano"; essere dotati di tutti i servizi realizzabili alla scala locale e quelli di livello superiore (da realizzarsi alla scala sovracomunale) in funzione di subaree ovvero raggruppamenti di comuni. In una prospettiva di accessibilità alle funzioni di livello superiore, a iniziare da quelle più rare e importanti ubicate necessariamente nel capoluogo, la connessione sarebbe dovuto avvenire attraverso "capillari", ovvero una trama di infrastrutture per la mobilità omogeneamente diffusa sul territorio. La crescita di popolazione, prevista in misura non particolarmente rilevante dopo l'enorme ondata migratoria di fine anni Cinquanta-inizio anni Sessanta, avrebbe poi dovuto essere assorbita da una distribuzione tale da riguardare i comuni più piccoli, fino a quel momento meno dotati di insediamenti produttivi, di possibilità di lavoro e di servizi.

In vista di ciò avrebbe dovuto essere progettata - anche in termini di effettivo disegno urbano - una rete di infrastrutture di servizio sovracomunale, in connessione a una ipotetica espansione dei singoli centri urbani, specie di quelli minori, localizzati in prevalenza nell'area del Sud-Milano. Avrebbero dovuto essere individuate e previste - sia pure in modo stabilito come non definitivo - aree a parco e aree agricole. Mentre le dimensioni degli insediamenti produttivi e residenziali non avrebbero dovuto essere specificate, sia perché si riteneva impossibile quantificarle in modo ragionevole, sia perché si pensava che iniziative imprenditoriali di rilevante portata come quelle di fine anni Cinquanta-inizio anni Sessanta non si sarebbero più verificate, né quindi sarebbe continuato nel tempo un flusso migratorio come quello che si era sperimentato in quel periodo di tempo. In ogni caso si riteneva che non si potesse prefigurare la realtà futura, né in termini quantitativi né in termini di specifica destinazione d'uso del suolo, né quindi in termini di prefigurazione-predeterminazione delle infrastrutture e dei servizi fondamentali necessari. Si pensava cioè che non si sarebbe dovuto porre vincoli forti per non condizionare le decisioni delle generazioni future. Queste le ragioni sostanziali delle strutture e infrastrutture cosiddette "leggere", più facilmente modificabili al variare degli orientamenti culturali e politico-amministrativi. La conclusione di un simile approccio, in termini metodologici, avrebbe dovuto essere, e così fu presentato in quel momento, il "piano-processo", ovvero un modo di pianificare in cui si stabiliscono gli obiettivi generali da raggiungere dagli organi di governo dell'area e, successivamente, tali obiettivi vengono (o meglio: devono venire) specificati man mano nel tempo, in relazione all'evolversi della situazione, alle risorse disponibili, alla volontà, le preferenze, gli interessi della molteplicità di soggetti pubblici e privati che giocano un ruolo sulla scena urbana e sul territorio, nelle diverse fasi o nei singoli momenti della storia.

 

Una proposta di sviluppo lineare

Sul fronte opposto c'era la proposta di Bacigalupo, Corna Pellegrini e Mazzocchi. In particolare fu il professor Mazzocchi a elaborare - sia nell'ambito del Comitato Tecnico Direttivo, sia teoricamente attraverso scritti che sono ancora davanti ai nostri occhi - un approccio metodologico di tutt'altra natura. I presupposti erano che lo sviluppo - in termini produttivi e demografici - sarebbe continuato; che i "poli esterni" alla scala regionale solo in parte avrebbero sperimentato una crescita tale da frenare il trasferimento di iniziative imprenditoriali, popolazione e risorse verso Milano; che oltre agli "orizzonti spaziali" ampi si dovessero considerare anche ampi "orizzonti temporali", per cui si sarebbe dovuto tener conto di una concentrazione di persone e funzioni in un periodo medio-lungo e quindi con una crescita non marginale dei centri urbani e dei borghi minori esistenti; che l'accettazione della diffusione di funzioni sul territorio in connessione alla molteplicità dei piccoli e medi centri dell'area metropolitana sarebbe stata causa di spreco di suolo, di impossibilità di adeguata dotazione di infrastrutture e servizi, in particolare di quelli relativi al trasporto pubblico, essenziali per un ordinato sviluppo dell'area metropolitana; che quindi si dovesse giungere a una preferibile soluzione urbanistica di "sviluppo lungo assi"; che quanto alle conseguenze della concentrazione di funzioni, e quindi agli squilibri territoriali conseguentemente mantenuti o accentuati, dovesse venire prevista attraverso l'azione del Piano Intercomunale - vale a dire attraverso l'organo di governo dell'area metropolitana - un'attività di perequazione economica e finanziaria, da tradurre essenzialmente in un vantaggio per i comuni territorialmente meno favoriti. Un simile approccio avrebbe comportato una prefigurazione dello sviluppo urbano alla grande scala. Anzi, in modo più preciso, una concentrazione dello sviluppo urbano alla grande scala da realizzarsi intorno alla creazione di grandi infrastrutture di trasporto, su gomma e su ferro. Concentrazione che nel dibattito pubblico - che si sviluppò fortissimo, quanto meno a Milano - venne tradotta nella formula-slogan "linearizzazione degli sviluppi"

Giancarlo Mazzocchi, nella sua elaborazione, non giungeva ad affermare dove quello sviluppo lineare dovesse precisamente realizzarsi sul territorio, ma - poiché l'architetto-urbanista Marco Bacigalupo avanzava una proposta formale di sviluppo nelle aree Est-Ovest rispetto a Milano, ben definita e tradotta in modo esplicito graficamente - giungeva a concludere e sottolineare che quella precisa proposta, tra altre pure teoricamente possibili, fosse da appoggiare, in quanto tale da corrispondere positivamente alle esigenze e ai criteri di metodo individuati. In sostanza, si trattava di una soluzione urbanistica tale da evitare quello che veniva chiamato "sviluppo a macchia d'olio". Una modalità che - per prova provata, legata al modo in cui Milano (come altre città) era cresciuta - era ritenuta la più negativa che si potesse immaginare, per i bassi esiti di qualità urbana, per la devastazione del territorio, per l'inefficienza che comportava in termini di trasporti, congestione del traffico, diseconomie di scala, nonché per la distruzione di aree più opportunamente destinabili all'agricoltura, e comunque con uno spreco di suolo e, in generale, di risorse.

 

Un giudizio sui due modelli

I due modelli presentati per la politica urbanistica dell'area metropolitana milanese costituivano indubbiamente un riferimento concettuale di grande significato e importanza. Nella sostanza, e con un grado di sofisticazione estrema, avrebbero costituito l'oggetto di un dibattito teorico, alla scala nazionale e internazionale per tutti gli anni Settanta e Ottanta. A noi - che oggi possiamo osservare la vicenda in termini di prospettiva - spetta dunque il compito di sottolineare quanto quel dibattito sia stato importante e pieno di significato nella costruzione di un pensiero urbanistico. Il professor Mazzocchi continuò, negli anni successivi, la riflessione su quel tema, nel contesto del "Progetto Milano" e successivamente, dal 2000 al 2005, nei convegni e nelle pubblicazioni di  "Sulla città, oggi": un'iniziativa che costituisce la testimonianza di una lungimiranza e di un impegno durato fino alla fine dei suoi giorni, ma anche un'eredità culturale per i suoi allievi affinché continuino la ricerca, il confronto e la contaminazione con ciò che di fatto viene proposto nelle scelte collettive, attraverso il dibattito pubblico.

Per tornare al dibattito degli anni Sessanta a cui stiamo facendo riferimento, possiamo dire che quel confronto fu, dal nostro punto di vista, importante e suggestivo perché presentava due modalità alternative di procedere: entrambe legittime, entrambe importanti, entrambe dense di significati e di possibili risultati, con riferimento alla questione delle scelte, al metodo e alla strategia delle decisioni individuali e collettive. Da una parte l'idea del piano-processo che, per certi aspetti, potrebbe anche essere definito un "non-piano" (1). Dall'altra il piano prefigurato dove, almeno nei tratti essenziali, le forme e le funzioni sul territorio sono stabilite a priori. In altri termini, quel dibattito - quanto meno in termini teorici, in termini di metodo - poneva da una parte un obiettivo generale di qualità dell'assetto urbano e del territorio ricercata attraverso la prefigurazione; dall'altra l'idea della non-capacità o non-volontà di decidere a priori per un tempo futuro quello che configura, determina, stabilisce nel tempo la forma urbana. In altri termini, la sostanza del discorso è questa: non si può prefigurare la forma urbana, né la futura realtà del territorio, come non si può prefigurare il futuro della propria vita, della propria famiglia, e neppure di un viaggio. 

Quanto qui scritto può essere letto in senso asseverativo, come un'affermazione indiscutibile, oppure può essere considerato in termini interrogativi. Nel dibattito che ci fu allora nell'ambito del PIM, e poi anche successivamente, si tese - da parte dei sostenitori dell'una piuttosto che dell'altra posizione - a giungere a risposte drastiche, del tipo: "si può prestabilire, si può prefigurare"; o invece, all'opposto: "non si può prestabilire, non si può prefigurare": né un viaggio, né la propria vita, né la propria città. Il paradosso della vicenda è che in quel momento - a metà degli anni Sessanta - i sostenitori del piano-processo erano gli urbanisti di sinistra, quelli che facevano esplicito riferimento alle posizioni comuniste e socialiste della realtà politica milanese. E questa proposta si sarebbe dovuta tradurre, concettualmente, nell'assenza di forti linee e azioni di indirizzo ovvero in azioni che - di volta in volta, man mano - avrebbero dissolto, superandole, le azioni precedenti: esattamente come con la "creazione distruttiva" propria del sistema capitalistico. Va anche detto che con l'andare del tempo - stiamo parlando di alcuni decenni - a iniziare da Milano e dalla Lombardia sarebbero poi state le posizioni politico-culturali alternative alla Sinistra a negare, in termini generali, la validità della prefigurazione del piano, fino ad arrivare all'elaborazione e approvazione da parte della Regione Lombardia di una legge urbanistica (L.R. n. 12 del marzo 2005) che persegue almeno tendenzialmente, la negazione dell'individuazione e definizione ex-ante di una forma urbana. In altri termini e in linea generale, i sostenitori di una pianificazione urbanistica processuale non saranno coloro che si dichiaravano (e si dichiarano) progressisti e fanno riferimento alla Sinistra politica. 

 

Sulla possibilità di costruire piani, individuali e collettivi

La mia tesi è che si può "prefigurare", che molte persone "prefigurano" e anche molte comunità "prefigurano", se ne hanno la forza e la capacità. Vale a dire si può cercare di progettare - e in concreto si progetta - quello che si vuole realizzare nel futuro. E quando dico: "quello che si vuole realizzare", intendo qualsiasi cosa: da un progetto di vita, a un piano di studi, a un viaggio, alla realizzazione di una casa, a un'avventura romantico-sentimentale, a un qualsiasi uso del proprio tempo. Questo, innanzitutto a livello individuale. Negli anni Settanta - all'epoca del grande sconvolgimento teorico-metodologico delle prassi urbanistiche e non solo -  ebbi fortissime dispute sia a livello tecnico che nell'ambito politico-amministrativo di Milano. Paradossalmente - come ho già detto - proprio con esponenti di quella parte politica che al tempo del grande dibattito culturale urbanistico degli anni Sessanta sostenevano la tesi opposta, cioè il piano di infrastrutture, il piano prefigurato, il piano-utopia. Posizione culturale che in questa fase veniva negata sottolineando che non avesse senso, che non fosse praticamente possibile per la grande quantità delle variabili non controllabili in gioco. Non si trattava di un dibattito morbido. Al PIM - negli anni Settanta così come d'altronde già negli anni Sessanta, al tempo del "Grande Dibattito sul Metodo" - per una quantità di motivi, questi dibattiti sui processi di decisione furono sempre durissimi. 

Nel merito, non c'è il minimo dubbio che i progetti di vita - sia quando si pongono grandi, che medi, che piccoli obiettivi - vedono l'interferenza di una quantità di elementi e fattori che portano a impedire o distorcere i programmi rispetto a quanto previsto e desiderato. Tuttavia l'esperienza insegna che in una quantità di casi, circostanze, situazioni, quanto programmato si può e si riesce a realizzare e anche, se non totalmente, ciò che si era prefisso viene a costituire una linea-guida ai comportamenti, restringe di fatto, nelle continue scelte, le opzioni possibili. Questo soprattutto se - in vista degli obiettivi stabiliti - il decisore, il singolo decisore, pone dei pre-commitments per vincolare la propria volontà e per non soccombere facilmente alle tentazioni, vale a dire agli elementi che man mano porterebbero a deviare in varia misura rispetto al progetto primitivo. Sugli aspetti della razionalità nelle scelte individuali e collettive, l'elaborazione teorica negli anni Ottanta e Novanta è stata rilevante. Anche noi, personalmente, vi abbiamo riflettuto con impegno nel volume La decisione di Ulisse al quale rinviamo. Quello che vogliamo e dobbiamo sottolineare qui è il fatto che senza dubbio esistono problemi e difficoltà per le scelte - e poi per la realizzazione concreta - di un qualsiasi piano a livello individuale. E a maggior ragione esistono rilevanti difficoltà per l'elaborazione e gestione di scelte a livello collettivo (vale a dire quando le decisioni da prendere coinvolgano - tanto nel momento della definizione, quanto nel momento della concretizzazione - una pluralità di soggetti). Ma queste difficoltà non possono distoglierci dall'obiettivo di immaginare razionalmente un futuro, prefigurarne gli esiti piuttosto che limitarci a gestire gli eventi che di volta in volta si presentassero a noi.  

 

L'imprevedibilità degli esiti del piano

Quale regola seguire quando la scelta riguarda una pluralità di soggetti? Una decisione all'unanimità? Una decisione a maggioranza? Chi sono i soggetti che dovrebbero venire coinvolti nel processo decisionale? Quali dovrebbero essere gli organi politici in un sistema di democrazia rappresentativa? E a quale livello? Per non considerare tutti i soggetti (i cittadini, nell'ipotesi di una città; tutti gli abitanti di città e borghi, quando si tratti di decisioni riguardanti una vasta area) toccati in qualche nodo dalla decisione che si va a prendere, cioè dalle sue conseguenze? 

Talune scelte hanno conseguenze - impegni, azioni da compiere, vincoli da sopportare - che si estendono nel tempo. Nel caso di una città ciò risulta ben evidente. Se in un certo anno si stabilisce un piano per la realizzazione di grandi infrastrutture per la mobilità e in connessione con queste dei complessi di vario genere (industriali, terziari, commerciali, residenziali, con tutti i servizi connessi per le attività e per le persone) non solo queste attività richiederanno un'enorme quantità di risorse di ogni tipo per venire attuate, ma anche - di solito, come regola generale - l'azione di una molteplicità di soggetti pubblici e privati. Quando i piani urbanistici erano disegnati - come si faceva una volta e come in generale si fa ancora oggi - si tracciavano su una carta che rappresentava un territorio segni che esprimevano ciò che si sarebbe voluto e dovuto realizzare nel tempo. Nel caso di un autocrate - con un potere assoluto, o quanto meno molto grande - potrebbe aversi una situazione in cui il soggetto decisionale giunge a decidere sul progetto, l'uso del suolo e infine a vedere anche la realizzazione dell'opera. Non si tratta di qualcosa del tutto astratto ovvero di mera fantasia accademico-letteraria. Il Re Sole decise per Versailles e la vide attuata nel tempo della sua vita; e analogamente Mussolini con le città nuove delle Paludi Pontine bonificate. E anche una quantità di altre esperienze, lontane o vicine nel tempo, mostrano esempi importanti di come certi sogni che sembravano pure utopie, si possono tradurre nella realtà quasi integralmente come erano state pensate. Karlsruhe, San Pietroburgo, Brasilia, le città nuove inglesi o francesi e oggi alcune nuove città cinesi sono esempi significativi di città di fondazione realizzate in un periodo di tempo non illimitato.

In generale, però, non avviene così. Nei regimi democratici occidentali, tendenzialmente i piani urbanistici intanto non esprimono attraverso un progetto quello che sarà l'esito finale ma solo quella che è la trama delle fondamentali infrastrutture e la destinazione d'uso del suolo, magari definita in modo preciso sulle mappe e quindi in pratica sul territorio. Ma se in una mappa alla grande scala si indicano aree destinate a centri commerciali, a industrie, a centri direzionali, a grandi attrezzature sportive e di entertainment, queste aree diverranno la sede di quelle strutture se, e solo se, ci sarà un soggetto - un singolo privato, o una istituzione collettiva pubblica o privata - che riterrà di realizzarle. Il che significa, e ha come conseguenza, che se alcune strutture e infrastrutture si realizzeranno, mentre altre non si realizzeranno mai, si sarà di fronte a una realtà diversa da quella prefigurata e prevista. E le differenze potranno anche essere significative. Molto dipenderà anche dalle intenzioni e dai comportamenti dei cittadini-utenti; dalle loro modalità di vivere la città; dalla distribuzione della ricchezza; dal progresso tecnico e organizzativo in tutte le espressioni che possono avere qualche rilevanza - immediata o come riverbero e conseguenza - sul modo di essere della città; sulla vita nella città e nelle sue parti componenti.

 

Che obiettivi concreti per la città? Quale visione di città?

Torniamo al dibattito sul Piano Intercomunale Milanese. Una domanda che sarebbe legittimo porsi è la seguente: che cosa avevano in mente come obiettivo da raggiungere il membri del Comitato Tecnico Direttivo del PIM e in particolare i membri dei due filoni politico-culturali a cui abbiamo fatto riferimento? 

In termini generali abbiamo già dato qualche indicazione, ma pensiamo si possa e debba tentare qualche approfondimento e specificazione. Possiamo presumere che tutti avessero in mente una certa qualità urbana da realizzare in quella realtà che era l'area metropolitana milanese: cioè Milano più tutti i comuni contermini, ad eccezione dell'area Sud, oggi inclusa nella Provincia di Lodi e che allora era parte della Provincia di Milano. Possiamo ipotizzare che tutti avessero in mente - e tutti invero dichiaravano esplicitamente - di voler evitare, e perfino eliminare, in quanto esistente, la congestione urbana: che per il gruppo Bacigalupo-Corna Pellegrini-Mazzocchi era qualcosa di attinente la mobilità e il traffico, mentre per il gruppo De Carlo-Tintori-Tutino era da considerarsi in termini più generali come conseguenza di uno squilibrio tra strutture e infrastrutture, ovvero tra soggetti richiedenti servizi collettivi - e quindi non solo quelli relativi alla mobilità - e la quantità esistente dei medesimi. Ma ritengo, motivatamente, che in generale per tutti fosse da considerare ovvio che i servizi collettivi per la popolazione dovessero essere adeguati in termini quantitativi; che dovessero essere accessibili; che dovessero venire realizzati in modo efficiente e al costo minimo e che tutti i cittadini dovessero poter godere dell'effetto urbano proprio di una grande città.

Se tutto ciò costituiva un obiettivo comune, dove stavano i motivi della differenza di posizioni nella proposta urbanistica tanto drammaticamente evidenziata all'interno del Comitato Tecnico Direttivo? 

In termini tecnici credo si possa parlare di un diverso giudizio sull'adeguatezza di diversi tipi di risposta tecnico-urbanistica a raggiungere quegli obiettivi. La questione è dunque se sia possibile in generale e in astratto esprimere un giudizio, una valutazione in un certo senso neutrale, ponendosi in qualche modo su un "vantage point", tra i due modelli urbanistici che si confrontavano. Intanto però riteniamo di dover mettere in evidenza qualcosa che allora non venne posto in debita luce nel dibattito pubblico. In termini di metodo si confrontavano - come abbiamo ampiamente sottolineato - un "piano di infrastrutture", piano prefigurato che si traduceva in una proposta di sviluppo lineare (che venne correntemente definito "il biscione") versus un "piano-processo" che per sua caratteristica intrinseca non avrebbe dovuto tradursi in una preliminare prefigurazione. Invece (paradossalmente?) entrambi i gruppi esprimevano le loro proposte in mappe, in un discorso sul territorio, anche se con un livello di specificazione diverso: più dettagliato e approfondito quello del gruppo De Carlo-Tintori-Tutino; più schematico, ma estremamente preciso nell'intenzione urbanistica alla grande scala, quello del gruppo di Mazzocchi. Dunque entrambi i gruppi proponevano soluzioni prefigurate.

Ora se si prefigura in partenza qualcosa da realizzare (che in un piano urbanistico è qualcosa di più di una strategia e di un metodo espresso attraverso idee perché è qualcosa di disegnato, specificato con riferimento a ciò che deve accadere sul territorio), il processo - come regola - è inevitabilmente nell'attuazione. Non si realizzano infatti obiettivi complessi con un colpo di bacchetta magica. Le concretizzazioni avvengono necessariamente nel tempo, e nel tempo, alla scala attuativa, microurbanistica e microrealizzativa, inevitabilmente si dovranno avere aggiustamenti e innovazioni di ogni tipo, anche legate al fatto che gli attori della vicenda, col passare degli anni, possono non essere più - e nel lungo periodo non sono certamente più - quelli che avevano elaborato e approvato il progetto originario. 

I contrasti nel Comitato Tecnico Direttivo del PIM furono probabilmente motivati dal fatto che al suo interno c'erano già in partenza due gruppi di persone che avevano un diverso atteggiamento e un differente approccio disciplinare rispetto ai temi della città e del territorio. Questo pur essendo tutti, in quel momento storico, favorevoli all'intervento pubblico nell'economia e nell'organizzazione della città, nonché alla programmazione economica e alla politica urbanistica: ma con un modo di procedere, con linguaggi e metodi diversi. 

Il secondo elemento era costituito dall'orientamento politico. De Carlo, Tintori e Tutino erano di sinistra, ed erano stati nominati su indicazione dei sindaci comunisti e socialisti; Bacigalupo, Corna Pellegrini e Mazzocchi erano invece di centro-sinistra, ed erano stati nominati su indicazione della Democrazia Cristiana milanese che era di sinistra, ma della sinistra cattolica.

Il terzo elemento - forse quello determinante nello scontro - era che in realtà entrambi i gruppi entravano nel dibattito avendo già compiuta un'opzione di metodo, di strategie e anche di prefigurazione sul divenire della città e del territorio. Il gruppo di sinistra aveva già in mente che i comuni della cintura del Sud comprensoriale dovevano potersi sviluppare. Erano comuni amministrati da giunte "rosse", e oltre tutto era ben evidente a questi che il "modello del 25 luglio 1964" (cioè il "modello a turbina") di Giancarlo De Carlo era stato rifiutato e accantonato proprio perché ipotizzava che i comuni del Sud comprensoriale, fuori dalle previsioni formalizzate nella "turbina", non potessero crescere. D'altra parte, anche il gruppo dell'area democristiana aveva un piano predeterminato, già disegnato. L'idea dello "sviluppo lineare", o "linearizzazione degli sviluppi", era nata da un'intesa tra l'architetto Marco Bacigalupo - fervente e convinto razionalista lecorbusiano - Giovanni Marcora - sindaco di Inveruno, segretario provinciale della DC milanese e più tardi ministro - e Camillo Ripamonti - sindaco di Gorgonzola, presidente dello IACP di Milano, poi pure lui ministro -. Non casualmente il tracciato della "città lineare" andava dall'area del Castanese (dove si trova anche Inveruno), scendeva nell'immediato Sud di Milano passando per San Donato Milanese, sede del quartier generale dell'ENI (e cosa significasse questo in termini politici era ben evidente), per risalire a Est, lungo l'area a cavallo del Naviglio della Martesana e delle linee celeri dell'Adda, territorio di Ripamonti.

Accanto a questa ipotesi di buona gestione immobiliare, di valorizzazione di aree fabbricabili e di dotazione di servizi per la mobilità particolarmente forti a determinati territori, centri urbani, borghi e popolazioni, vi era un motivo politico-culturale evidente nella proposta di sviluppo lineare. Quello di una battaglia culturale in campo urbanistico tra uomini dell'area democristiana e uomini della sinistra. Un ambito culturale, quello urbanistico, in cui la sinistra - comunista e socialista, et ultra - era sempre stata egemone in Italia e in particolare in Milano. Di fatto per la DC la proposta di quel metodo di pianificazione, con una prefigurazione alla grande scala, veniva posta e considerata come una bandiera, e la tesi dominante in quella sede politica, a livello di partito politico, non era di tentare una mediazione ma - nel caso in cui la tesi dello sviluppo lineare non fosse stata accettata dall'Assemblea dei Sindaci - era di rompere, anche a costo di mettere in una crisi gravissima e probabilmente irreparabile l'esperienza del PIM. Un'esperienza che vedeva la collaborazione tra comunisti e democristiani ed era considerata - in sede di governo provinciale della DC - fonte di equivoci e di confusione politica. Fortunatamente le cose non andarono in quel modo e l'esperienza di pianificazione sovracomunale proseguì.

 

Quale città metropolitana avremmo se si fosse realizzato il piano di infrastrutture?

Le domande che ci poniamo a questo punto sono le seguenti. Che cosa sarebbe avvenuto se fosse stata accolta la tesi della concentrazione degli interventi sul territorio sostenuta da Mazzocchi e dal suo gruppo? Che cosa è avvenuto di fatto nell'area metropolitana milanese? Quali successivi sviluppi si sono avuti in termini di metodo di pianificazione della città e del territorio, alla scala milanese, italiana, in termini di elaborazione scientifica e culturale, e in termini di prassi, cioè di gestione burocratica e di iniziativa e operatività concreta? 

Sul primo quesito, abbiamo in mente l'idea disegnata da Marco Bacigalupo che pensava a un effettivo sviluppo lineare, con le case disegnate come una greca, separate l'una dall'altra come nei progetti di Le Corbusier. È tutto da capire come si sarebbero potuti ottenere gli effetti positivi di decongestionamento ipotizzati in quel modello qualora la città lineare fosse stata effettivamente realizzata con uno sviluppo "a nastro", lungo le fondamentali infrastrutture autostradali e su ferro. Oppure, al contrario, se lo sviluppo fosse avvenuto "per poli" lungo tale assi se si sarebbero riproposti all'interno di quei poli e intorno ai medesimi gli abituali, ordinari problemi che si erano verificati e si verificano ancora oggi in ogni centro urbano, in particolare di quelli ubicati nell'area metropolitana. Perché di quello stiamo parlando. Ci stiamo cioè chiedendo se l'assetto lineare - con attività produttive e di servizio alle medesime, con le residenze e i connessi servizi alla persona - sarebbe stato comunque tale da evitare una diffusione dell'edificato ben aldilà di quegli assi e l'inevitabile dispersione a scala metropolitana.

Quello che Mazzocchi e il suo gruppo non tenevano in adeguata considerazione erano: primo, le dimensioni della pressione insediativa sul territorio; secondo, la diffusione dei mezzi di trasporto su gomma, di persone e di merci, e gli impatti che questa avrebbe determinato, sia in termini di intensità di traffico sulle strade che di distribuzione degli insediamenti sul territorio; terzo, la capacità e volontà delle singole amministrazioni dei comuni dell'area metropolitana milanese di accettare di essere spossessati della possibilità di decidere del proprio sviluppo, del proprio modo di essere, del proprio futuro. Si tenga conto che a metà degli anni Sessanta i comuni dell'area metropolitana milanese non avevano certo l'atteggiamento e il sentire campanilistico, particolaristico, individualistico che li aveva caratterizzati per secoli e che - in misura forse ancora maggiore - li caratterizza oggi. Fu dunque la resistenza politico-amministrativa dei comuni destinati a non crescere per favorire la concentrazione lungo l'asse di sviluppo il motivo formale che bloccò quella proposta. Detto questo bisogna anche riconoscere che quella proposta probabilmente si sarebbe comunque deformata nella realtà, come è successo per esempio nell'area metropolitana di Parigi dove lo Schéma Directeur del 1965 fu imperniato proprio su degli assi di sviluppo. Gli esiti di quel piano sono quelli di una gigantesca ameba, o - per usare un'espressione più comune - di una enorme macchia d'olio. Un fenomeno che si è verificato in tutte le grandi aree metropolitane in cui lo sviluppo alla grande scala era stato pensato in riferimento a un grande sistema di autostrade da Long Island a Los Angeles (2).

Allora - ci si può domandare - hanno senso le grandi iniziative di pianificazione urbanistica? Hanno fondamento teorico o pratico i piani di area vasta? Cos'è accaduto in questo quarantennio, dal 1965 - data della grande controversia metodologica milanese sulla pianificazione urbanistica - fino a oggi? La risposta è che la pianificazione di area vasta, e il lavoro per definire una metodologia di intervento sui temi di area vasta, quanto meno nell'area metropolitana milanese, sono stati accantonati dalla fine dell'attività pianificatoria del PIM, cioè dalla metà degli anni Settanta quando l'attività di controllo urbanistico passò alla Regione Lombardia e fino agli anni Novanta del secolo scorso quando si aprì la stagione dei piani territoriali di coordinamento. In quei due decenni l'attività urbanistica, svolta dagli "urbanisti condotti" fu infatti essenzialmente alla scala comunale e fu volta ad applicare le leggi urbanistice, prima nazionali e poi regionali, ancora sostanzialmente basate sul metodo dello zoning razionalista. Da questo punto, oggi si sta ripartendo per immaginare il futuro.

Andrea Villani

 

Note

(1) Nella polemica feroce che si sviluppò all'interno del Comitato Tecnico Direttivo del PIM, Mazzocchi, con Bacigalupo e Corna Pellegrini non esitarono a fare ampi sarcasmi sulla proposta di "piano-processo", con ciò che lo doveva concretizzare e integrare. "Autostrade di panna montata" fu la battuta del professor Mazzocchi a fronte dell'idea della creazione e valorizzazione dei "capillari", ovvero strade minori a innervare tutto il territorio, (anziché grandi infrastrutture) come appunto sostenuto da Giancarlo De Carlo.
(2) Cfr. The City on the Highway. The Automobile Suburb, in P. Hall,  2005, pp. 295 e ss.

 

NdC -  Andrea Villani è laureato in economia, filosofia e architettura. Ha insegnato Economia Urbana e Economia Politica all'Università Cattolica di Milano dove attualmente coordina il programma della Urban and Territorial Research Agency (ULTRA) del Dipartimento di Sociologia. Ha diretto il Centro Studi del Piano Intercomunale Milanese (PIM) ed è stato membro della Giunta esecutiva della XVI Triennale. È stato direttore di "Città e Società" e condirettore di "Edilizia Popolare" nonché visiting scholar presso la Research School of Social Sciences della Australian National University di Canberra; il Public Choice Center della George Mason University di Fairfax (Virginia); il Department of Economics dell'Università di Toronto (Ontario); il Department of Economics dell'Università di Tucson (Arizona).

Tra i suoi scritti: Dalle città-giardino alle new-towns nell'esperienza urbanistica inglese, "Vita e Pensiero", dicembre 1965, pp. 1007 e ss; Il Centro Direzionale di Milano, "Città e Società", vol. 1, n.3, maggio-giugno 1966, pp. 61-69; Ideologie politiche e scelte urbanistiche, "Città e Società", vol. 2, n. 4, luglio-agosto 1967, pp. 2 e 128-130; Ideologia e scelte politiche nell'organizzazione della città, "Città e Società", vol. 3, n. 5, settembre-ottobre 1968, pp. 137-153; La planification économique et térritorial au niveau régional en Italie, "Aménagement du territoire et développement régional", vol. IV, Grenoble 1971; Trasporti e pianificazione territoriale nelle aree metropolitane, "Città e Società", vol. 7, n. 5, settembre-ottobre 1972, pp. 106-107; La pianificazione urbana in Italia. Un bilancio e alcune considerazioni, "Città e Società", vol. 2, n. 5, settembre-ottobre 1967; Nuove strategie per l'abitare, "Vita e Pensiero", n. 2, 1973, pp. 158-184; Dopo i pianificatori, "Città e Società", vol. 8, n. 4, luglio-agosto 1973, pp.10-25; Tesi sulla casa e la città, Franco Angeli, Milano 1974; La maison et la ville. Eléments pour une stratégie des choix, "Aménagement du territoire et développement régional", vol. VII, Grenoble 1974; Sviluppo e pianificazione nell'area metropolitana milanese. Il caso dell'industria, "Città e Società", n. 1, gennaio-febbraio 1974, pp. 52-84; Speranza progettuale e disordine creativo, "Edilizia popolare", n. 126, settembre-ottobre 1975; Leggi urbanistiche e riforme nel regime d'uso dei suoli, "Edilizia popolare", vol. 22, n. 127, novembre-dicembre 1975, pp. 2-8; Il ruolo di una città metropolitana. Milano nella proposta di piano regolatore del 1975, "Edilizia popolare", n. 125, luglio-agosto 1975, pp. 29-37; Piano e razionalità urbana, Celuc, Milano 1976; L'urbanistica della partecipazione, "Vita e Pensiero", n.1, 1977, pp.51-71; Piani urbanistici per una città metropolitana, "Vita e Pensiero", Milano 1977; Realtà e miti della progettazione, F. Angeli, Milano 1978; Dall'urbanistica non disegnata al progetto. Conservazione e costruzione dell'ambiente, "Città e Società", n. 1, gennaio-marzo 1979; Piano socio-economico, piano urbanistico comprensoriale, pianificazione locale. Discorso sul metodo, "Città e Società", n. 3, luglio-settembre 1979, pp. 9-43; Divisione del lavoro e specializzazione funzionale del territorio, "Città e Società", n. 2, aprile-giugno 1981, pp. 31-55; La politica dei quartieri nella "città dell'imperfezione", "Città e Società", n. 2, aprile-maggio 1982, pp. 99-160; L'eclisse della ragione pianificatoria, "Città e Società", n. 2, aprile-giugno 1983, pp. 3-22; Piano e progetto per la città, "Vita e Pensiero", n. 5, maggio 1985; La pianificazione della città e del territorio, ISU Università Cattolica, Milano 1986; La gestione del territorio, gli attori, le regole, ISU Università Cattolica, Milano, 2002; Scelte per la città. La politica urbanistica, ISU Università Cattolica, Milano, 2002; Il gioco della città al tempo dell'"urbanistica debole", in G. Mazzocchi, A. Villani (a cura di), Sulla città oggi. Governo e politiche urbane nella società globale, Franco Angeli, Milano, 2002, pp. 17-27; Nodi urbanistici di Milano e governo dell'area metropolitana, in G. Mazzocchi, A. Villani (a cura di), Sulla città oggi. 1. Governo e politiche urbane nella società globale, Franco Angeli, Milano, 2002, pp. 238-319; La pianificazione urbanistica nella società liberale, I.S.U. Università Cattolica, Milano 1993;  La decisione di Ulisse. Sulle scelte individuali e collettive, e sulla loro razionalità e moralità, ISU Università Cattolica, Milano 2000; La ricerca di valori comuni, per la creazione di progetti comuni, in G. Mazzocchi, A. Villani (a cura di), Sulla città, oggi. 4. Il lavoro e i suoi luoghi dalla fabbrica al terziario avanzato, Angeli, Milano 2003, pp.337-348; La città del buongoverno, ISU Università Cattolica, Milano 2003; L'urbanistica in Italia. Lettura di un dibattito teorico e di una prassi, in G. Mazzocchi, A. Villani (a cura di), Sulla città, oggi. 9. L'urbanistica alla prova, Angeli, Milano 2004, pp. 155-216

In questa rubrica Andrea Villani ha pubblicato: Disegnare, prevedere, organizzare le città… Commento al libro di Franco La Cecla (28 aprile 2016).

Sul tema della Città metropolitana v. anche: Lodovico Meneghetti, Città metropolitana, policentrismo e paesaggio  (14 luglio 2016).

RR

 


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21 LUGLIO 2016

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di dibattito sulla città, il territorio e la cultura del progetto urbano e territoriale

a cura di Renzo Riboldazzi cittabenecomune@casadellacultura.it

 

 

Gli incontri 

- 2016: programma /presentazione

- 2015: programma /presentazione

- 2014: programma /presentazione

- 2013: programma /presentazione

 

Interventi, commenti, letture

-L. Meneghetti, Città metropolitana, policentrismo, paesaggio

- A. Monestiroli, Quando è l'architettura a fare la città. Cosa ho imparato da Milano

- F. Ventura, Urbanistica: né etica, né diritto, commento a: S. Moroni, Libertà e innovazione nella città sostenibile (Carocci, 2015)

- G. Ottolini, Arte e spazio pubblico, commento a: A. Pioselli, L'arte nello spazio pubblico (Johan & Levi, 2015) 

- G. Laino, Se tutto è gentrification, comprendiamo poco, commento a: G. Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland? (il Mulino, 2015)

- F. Gastaldi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland?,  recensione del libro di G. Semi (il Mulino, 2015)

- G. Consonni, Un pensiero argomentante, dialogico, sincretico, operante, commento a G. Becattini, La coscienza dei luoghi (Donzelli, 2015)

- V. Gregotti, Bernardo Secchi: il pensiero e l'opera

- R. Pavia, Il suolo come infrastruttura ambientale. Commento a: A. Lanzani, Città territorio urbanistica tra crisi e contrazione (FrancoAngeli, 2015)

- G. Tagliaventi, L'arte della città 100 anni dopo. Commento a: R. Milani, L'arte della città (il Mulino, 2015)

- A. Villani, Disegnare, prevedere, organizzare le città…, Commento a: F. La Cecla, Contro l'urbanistica (Einaudi, 2015)

- R. Milani, Per capire bisogna toccare, odorare, vedere... ,  Commento a: F. La Cecla, Contro l'urbanistica (Einaudi, 2015)

- M. Ponti, Il paradiso è davvero senza automobili? Commento a: A. Donati e F. Petracchini, Muoversi in città (Ed. Ambiente, 2015)

- S. Brenna, La strana disfatta dell'urbanistica pubblica. Note sullo stato della pianificazione italiana

- F. Ventura, Lo stato della pianificazione urbanistica. Qualche interrogativo per un dibattito

- G. Tonon, Città e urbanistica: un grande fallimento, intervento all'incontro con P. Berdini del 18 maggio 2015

- R. Mascarucci, A favore dell'urbanistica, commento a: F. La Cecla, Contro l'urbanistica (Einaudi, 2015)

 - P.Colarossi, Fare piazze, commento a: M. Romano, La piazza europea (Marsilio 2015)

- J.Gardella, Mezzo secolo di architettura e urbanistica, dialogo immaginario sulla mostra "Comunità Italia", Triennale di Milano, 2015-16

- G.Pasqui, Pensare e fare Urbanistica oggi, recensione a A.Lanzani, Città territorio urbanistica tra crisi e contrazione (Franco Angeli, 2015)

- L.Colombo, Urbanistica e beni culturali, Riflessione a partire da La Cecla, Moroni e Montanari  

- L.Meneghetti, Casa, lavoro, cittadinanza. Seconda parte

- F.Ventura, Urbanistica: tecnica o politica?, commento a: L. Mazza, Spazio e cittadinanza (Donzelli, 2015)

- P.C.Palermo, Per un'urbanistica che non sia un simulacro, commento a: L. Mazza, Spazio e cittadinanza (Donzelli, 2015)

 - S.Moroni, Governo del territorio e cittadinanza, commento a L.Mazza, Spazio e cittadinanza.(Donzelli, 2015) 

 - P.Berdini, Quali regole per la bellezza della città?, commento a S.Moroni, Libertà e innovazione nella città sostenibile (Carocci, 2015)  

 - R.Riboldazzi, Perchè essere 'pro' e non 'contro' l'Urbanistica, commento a F.La Cecla, Contro l'urbanistica (Einaudi, 2015)

 - P. Maddalena, Addio regole. E addio diritti e bellezza delle città, prefazione a: P. Berdini, Le città fallite (Donzelli, 2014)

- S. Settis, Beni comuni fra diritto alla città e azione popolare, introduzione a: P. Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani (Donzelli, 2014)

- L. Meneghetti, Casa, lavoro cittadinanza. Il nodo irrisolto dell'immigrazione nelle città italiane

- M. Romano, Urbanistica: 'ingiustificata protervia', recensione a: S. Moroni, Libertà e innovazione nella città sostenibile (Carocci, 2015)

- P. Pileri, Laudato si': una sfida (anche) per l'urbanistica, commento all'enciclica di Papa Francesco (2015)

- P. Maddalena, La bellezza della casa comune, bene supremo. Commento alla Laudato si' di Papa Francesco (2015)

- S. Settis, Cieca invettiva o manifesto per una nuova urbanistica? Recensione a: F. La Cecla, Contro l'urbanistica (Einaudi, 2015)

- V. Gregotti, Città/cittadinanza: binomio inscindibile, Recensione a: L. Mazza, Spazio e cittadinanza (Donzelli, 2015)

- F. Indovina, Si può essere 'contro' l'urbanistica? Recensione a: F. La Cecla, Contro l'urbanistica (Einaudi, 2015)

- R. Riboldazzi, Città: e se ricominciassimo dall'uomo (e dai suoi rifiuti)? Recensione a: R. Pavia, Il passo della città (Donzelli 2015)

- R. Riboldazzi, Suolo: tanti buoni motivi per preservarlo, recensione a: P. Pileri, Che cosa c'è sotto (Altreconomia, 2015)

- L. Mazza, intervento all'incontro con P. Maddalena su Il territorio bene comune degli italiani (Donzelli, 2014)

- L. Meneghetti, Dov'è la bellezza di Milano? , commento sui temi dell'incontro con P. Berdini su Le città fallite(Donzelli, 2014)

- J. Muzio, intervento all'incontro con T. Montanari su Le pietre e il popolo(mimum fax, 2013)

- P. Panza, segnalazione (sul Corriere della Sera dell'11.05.2014)