Carlo Olmo  
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LE MOLTEPLICI DIMENSIONI DEL TEMPO


Commento al libro di Maurizio Bettini



Carlo Olmo


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Ci sono libri che si leggono per dovere, altri per piacere, altri ancora per curiosità. L’ultimo testo di Maurizio Bettini, Chi ha paura dei Greci e dei Romani? Dialogo e «cancel culture» (Einaudi, 2023), occupa per gli studi architettonici e urbani un posto singolare. Non è come un suo lavoro precedente (A che servono i Greci e i Romani? L'Italia e la cultura umanistica, Mondolibri, 2017) un richiamo che lui, filologo e antropologo, rivolge allo studio senza aggettivi, senza pensare al peso che hanno i testi classici nella formazione del cittadino. Auspicio che, per altro, attraversa tutto il Novecento seppur con toni diversi: nostalgici (il cui topos rimane Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, 1918-22), catastrofisti (Emmanuele Severino, Essenza del nichilismo, 1982), ma anche capaci “nella terra della sera” che stiamo vivendo, in momenti e forme differenti, di un pensiero che, sottraendosi a un mondo “calcolante”, possa aspirare a cambiare le connotazioni del mondo reale. Bettini nel suo ultimo libro non solo ci porta dentro le ragioni per cui la perdita o la delega della memoria profonda ad un altro da sé (che sia digitale o cartaceo poco interessa) recano la rinuncia all’essere nel proprio tempo e con la propria memoria, collettiva e individuale, ma - ed è questo che qui ci interessa - come perdita e delega neghino la “politique de la mémorialisation d'un pays, d'un cadre social ou d'une communauté (C. Malle, B. Desgranges, D. Peschanski, F. Eustache, La force de la mémoire collective dans la mémoire autobiographique, in “Revue de neuropsychologie”, 1/2018, pp. 59-64). Ci offre cioè una riflessione sulla politica della mémorialisation, tra culture e autobiografie, e del loro peso per la nostra stessa individualità da un punto di vista interessante, toccando un nervo estremamente sensibile per gli studi architettonici e urbani.

 

Chi e quale heritage si conserva?

Il caso più discusso è quello, ormai più che ventennale, della “distruzione” dei monumenti (E. Maré, A critique of monuments, in Acta Academica, 3/2004 ,pp. 73-97). Senza entrare in una discussione su cosa sia e come diventi monumento, una statua, un’architettura, un rappresentazione scritta o figurativa, anche solo nel Novecento, Maurizio Bettini ci porta, con progressione, ironia e una scrittura puntuale, dentro il cuore della questione della cancel culture. Non si tratta di una parodia del politically correct. E neppure di uno spostamento sul piano simbolico della lotta alle discriminazioni per cui persino una parola (non solo una scultura o un monumento) possono diventare offensivi imponendo un rigido conformismo persino alla lingua, quasi paradossale in una società che si vuole iper liberista. Né è solo l’espressione di una subcultura politica che genera un risentimento nelle élites più coscienti di cosa implichi il separare la memoria collettiva e quella cognitiva (F. Dei, La teoria, il risentimento e il declino delle scienze umane, in “Rivista di antropologia contemporanea”, 2/2021, pp. 167-196). Bettini ricostruisce ancor più di come agisca la cancel culture, come operi il cancel classic: una vera e propria strategia che come tale va affrontata, portata avanti da attivisti che usano strumenti di pressione sociale per arrivare a forme di ostracismo nei confronti di qualcuno o qualcosa di ritenuto offensivo (P. Norris, Cancel Culture. Myth or Reality?, in “Political Studies”, 1/2023, p.148).

La risposta, insieme ironica e alternativa, del testo di Maurizio Bettini è davvero esemplare ed equilibrata. Con una capacità narrativa quasi da romanzo di Maigret sono infatti solo gli ultimi tre capitoli a svelare… l’assassino o se si vuole i rischi di un presentismo, ormai neanche più chiamato ad amuser le présent (F.Hartog, 2018), che mette in discussione le basi della conoscenza occidentale: la critica delle fonti e la capacità di ricostruire la produzione di località, che dà il senso di un testo o di un monumento.

Per procedere in una lettura che il libro di Bettini consente, vorrei partire, come storico dell’architettura, da un classico – in realtà non lo è mai diventato - che condensa uno dei periodi più tragici del Novecento per mano di uno dei suoi più estremi antieroi. Il testo è Neue Deutsche Baukunst (1941), l’autore è Albert Speer. A differenza delle sue sin troppo discusse Memorie…, Neue Deutsche Baukunst, illustra di cosa l’architettura monumentale, quasi per una forma di delirio narcisistico della personalità, si sia appropriata: persino di parole chiave nate per negare l’esistenza del monumentalismo: neue e baukunst.

 

Vivere di parole senza padrone

Nel caso di Speer il cancel classics avviene per negazione, come quasi tutte le forme di cancel culture, ma anche per appropriazione di quanto, ad esempio neue e baukunst, potevano agire legittimando il nuovo monumentalismo. Un processo che arriverà, molti anni dopo, a costruire addirittura una sua contro storia, che troverà – nel libro curato da Maria Luisa Neri, L’altra modernità nella cultura architettonica del XX secolo. Dibattito internazionale e realtà locali (2012) – la conclusione di quella che è un’autentica parabola di vangelo apocrifo. L’architettura, tuttavia, offre alle tesi di Maurizio Bettini altri argomenti, forse ancor più radicali… Chi sono i moderni da cancellare e quali strategie si nascondono dietro l’esigenza di cancellarne l’autorità, se non la memoria?

L’architettura del Novecento è l’esempio più didascalico della complessa scrittura per frammenti della Dialektik der Aufklärung: Philosophische Fragmente (M. Horkheimer, T. W. Adorno, 1944-1947) e del suo drammatico incipit: Se la vita pubblica ha raggiunto uno stadio dove il pensiero si trasforma inevitabilmente in merce e la lingua in imbonimento della medesima - si legge a p. 2 della prima introduzione - il tentativo di mettere a nudo questa depravazione deve rifiutare obbedienza alle esigenze linguistiche e teoretiche attuali, prima che le loro conseguenze storiche universali lo rendano del tutto impossibile”. Togliere autorità al Kärntner Bar o alla Borsa di Amsterdam, alla villa Savoye o alla Casa sulla cascata perché erano luoghi in cui si celebravano i riti della finanza o di residenza élitaria, in realtà non restituisce “senso” all’architettura anonima o a ghetti abitati da immigrati di prima o seconda generazione. Come l’altra modernità è solo una modesta applicazione del pensiero di Carl Schmitt all’architettura - l’amico/nemico - portata dentro una vicenda storica, la cui narrazione è stata definita dalla ricezione, dal riconoscimento, dalla fama: in modi che possono essere tutti studiati e discussi, ma devono essere analizzati. Il canceling classics non sfiora neanche il problema di come si forma lo statuto di un’opera classica in architettura e come forse andrebbe riformato, anche solo per restituirne la stessa autorialità, non individuale.

La proposta di Maurizio Bettini di contestualizzare Omero e Ovidio, Atene e Costantinopoli, anche rispetto al problema della schiavitù o delle forme di diseguaglianze che allora esistevano, credo aiuti davvero a non estrapolare i testi, le opere, anche le città, dal tempo in cui sono stati costruiti e a non modernizzarli con censure da burla. Soprattutto a distinguere tra storie dell’autore (quando la si conosce) e storia dell’opera, seppur con una non marginale postilla.

 

La metafora, l’analogia e… il classico

Alcune località hanno assunto un valore, ben al di là del significato che avevano nelle civiltà che le hanno prodotte. Due soli esempi, tra i tanti che la storia dell’architettura offre. Oggi si usa agorà come metafora del confronto democratico, anche senza che quell’agorà abbia un luogo, come si usa mercato ben al di là dell’uso sociale e collettivo dei bazar nella città musulmana. Sono classici senza località, sono metafore che aiutano il pensiero di ogni cultura a trovare una morfologia con cui aprire un dialogo. Sono classici ben al di là degli stessi testi che ci radicano nel tempo. Eppure, nell’agorà entravano e parlavano solo i proprietari e nei bazar regnavano diritti solo informali! Dovremmo eliminarli dal linguaggio odierno perché la loro origine era così poco politically correct?

Forse il libro, meglio i libri di Maurizio Bettini, ci aiutano soprattutto a recuperare quella critica (che può evidenziare contraddizioni, abusi, distorsioni di cui Neue Deutsche Baukunst è l’esempio più radicale) ai documenti, senza la quale saremo sempre più prigionieri di una memoria obligée, manipulée et commandée, come ci mette in guardia Paul Ricœur a p. 248 della sua monumentale La mémoire, l'histoire, l'oubli (2000). Ma il testo di Bettini apre anche un’altra riflessione. La cultura architettonica ha perso l’interesse a definire lo statuto epistemologico di cosa si richiede per essere definito classico a un’opera, a una morfologia urbana e perché si considera autorevole un autore. E così, prima della cancel culture, c’è oggi una pop culture dove è la costruzione di una fama senza barriere simboliche a legittimare il classico di turno. Un gesto che involontariamente richiama Humphrey Chimpden Earwicker, l’here comes everybody dei Finnegans Wake. Tanto che esiste un’involontaria cancel culture data da una rimozione di architetti o urbanisti che sono stato protagonisti del loro tempo, come Cerdà o Viollet-le-Duc, Le Corbusier o Geddes, persino dai programmi dei corsi universitari in quasi tutte le scuole del mondo.

Questo perché l’autorità (di un architetto o di urbanista) la affermano (e la distruggono) le varie forme di presentismo che - come scriveva Jacques Lacan nel 1956 nel VI seminario - quando smettono di cercare la verità, finiscono con l’affermare la tirannia anche di un valore. Cosa sottolineata anche Karl Schmitt, proprio nel 1956, che si esprimerà in un altro registro, in un linguaggio cifrato, clandestino e soprattutto nevrotico. Ma una società che ha fatto di un’ideologia (un tempo che sarebbe quasi ridotto a… zero), forse avrebbe davvero bisogno di tornare a leggere La Recherche proustiana e riscoprire le molteplici dimensioni che può avere il tempo nelle vite e nelle storie delle persone e dei loro manufatti.

Carlo Olmo

 

 

N.d.C. - Carlo Olmo, professore emerito di Storia dell'Architettura del Politecnico di Torino, è stato preside della Facoltà di Architettura e ha coordinato il dottorato di ricerca in Storia dell'Architettura e dell'Urbanistica presso lo stesso ateneo. Ha insegnato all'École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, al Mit di Boston e in numerose università straniere. Ha inoltre curato mostre di architettura a Torino, Venezia, Roma, Parigi, Bruxelles e New York.

Tra i suoi libri: Politica e forma (Vallecchi, 1971); Architettura edilizia. Ipotesi di una storia (Torino, 1975), con Roberto Gabetti, Le Corbusier e L'Esprit Nouveau (Einaudi, 1975); con Riccardo Roscelli, Produzione edilizia e gestione del territorio (Stampatori, 1979); La città industriale. Protagonisti e scenari (Einaudi, 1980); Aldo Rossi attraverso i testi (Mazzotta 1986): tr. ing. in "Assemblage", 5, 1988: Turin et des Miroirs feles, in "Annales", 3, 1989; con Roberto Gabetti, Alle radici dell'architettura contemporanea. Il cantiere e la parola (Einaudi, 1989); con Linda Aimone, Le esposizioni universali, 1851-1900. Il progresso in scena (Allemandi, 1990; ed. fr. Belin 1993); con Luigi Mazza (a cura di), Architettura e urbanistica a Torino, 1945-1990 (Allemandi, 1991); (a cura di), Cantieri e disegni. Architetture e piani per Torino, 1945-1990 (Allemandi, 1992); Urbanistica e società civile. Esperienza e conoscenza, 1945-1960(Bollati Boringhieri, 1992); Gabetti e Isola. Architetture (Allemandi, 1993); (a cura di), La ricostruzione in Europa nel secondo dopoguerra (Cipia, 1993); (a cura di), Il Lingotto: 1915-1939. L'architettura, l'immagine, il lavoro (Allemandi, 1994); (a cura di) con Bernard Lepetit, La città e le sue storie (Einaudi, 1995); (a cura di), con Alessandro De Magistris, Jakov Cernihov: documenti e riproduzioni dall'archivio di Aleksej e Dimitri Cernihov (Allemandi, 1995; ed. fr. Somogy editions d'art, 1995; ed. ted. Arnoldsche, 1995); Le nuvole di Patte. Quattro lezioni di storia urbana (FrancoAngeli, 1995); (a cura di), Mirafiori(Allemandi, 1997); (a cura di) con Lorenzo Capellini e Vera Comoli, Torino (Allemandi, 1999); (a cura di), Dizionario dell'architettura del XX secolo (Allemandi, 2000-2001, 5 vol.; ed. Enciclopedia Treccani, 2002); Costruire la città dell'uomo. Adriano Olivetti e l'urbanistica (Edizioni di Comunità, 2001); (a cura di) con Walter Santagata, Sergio Scamuzzi, Tre modelli per produrre e diffondere cultura a Torino (Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci, 2001); con Michela Comba, Marcella Beraudo di Pralormo, Le metafore e il cantiere. Lingotto 1982-2003 (Allemandi, 2003); (a cura di) con Michela Comba e Manfredo di Robilant, Un grattacielo per la Spina. Torino, 6 progetti su una centralità urbana, catalogo della mostra (Allemandi, 2007); Morfologie urbane (il Mulino, 2007); (a cura di), Giedion, Sigfried, Breviario di architettura (Bollati Boringhieri, 2008); (a cura di) con Arnaldo Bagnasco, Torino 011: biografia di una città. Saggi (Mondadori Electa, 2008); Architettura e Novecento. Diritti, conflitti, valori (Donzelli, 2010); (a cura di), con Cristiana Chiorino, Pier Luigi Nervi. Architettura come sfida (Silvana ed., 2010, 2012); Architecture and the 20. Century: Rights, conflicts, values (List Lab, 2013); Architettura e storia. Paradigmi della discontinuità (Donzelli, 2013); con Susanna Caccia Gherardini, Le Corbusier e il fantasma patrimoniale (Il Mulino 2015) e Metamorfosi americane. Destruction throught neglect: Villa Savoye tra mito e patrimonio (Quodlibet, 2016); con Susanna Caccia, La villa Savoye. Icona, rovina e restauro (1948-1968) (Donzelli, 2016); con Patrizia Bonifazio e Luca Lazzarini, Le Case Olivetti a Ivrea (Il Mulino, 2018); con postfazione con Antonio De Rossi, Urbanistica e società civile (Edizioni di Comunità, 2018); Città e democrazia. Per una critica delle parole e delle cose (Donzelli, 2018); Progetto e racconto. L’architettura e le sue storie (Donzelli, 2020); Storia contro storie. Elogio del fatto architettonico (Donzelli, 2023).

Per Città Bene Comune ha scritto: Spazio e utopia nel progetto di architettura (15 febbraio 2019); La città tra corpo malato e corpo perfetto (3 luglio 2020); La diversità come statuto di una società (19 febbraio 2021); Biografia (e morfologia) di una strada (22 ottobre 2021); Gli intellettuali e la storia, oggi (4 febbraio 2022); Per una nuova Progressive Age (10 settembre 2022); La memoria come progetto (24 febbraio 2023); Un’urbanistica della materialità e del silenzio (30 giugno 2023).

Sui libri di Carlo Olmo, v. i commenti di: Cristina Bianchetti, Lo spazio in cui ci si rende visibili… E la cerbiatta di Cuarón (5 ottobre 2018); Giampaolo Nuvolati, Scoprire l’inatteso negli interstizi delle città (20 settembre 2019); Carlo Magnani, L’architettura tra progetto e racconto (11 settembre 2020); Piero Ostilio Rossi, Modi (e nodi) del fare storia in architettura (2 ottobre 2020); Gabriele Pasqui, La storia tra critica al presente e progetto (23 ottobre 2020); Andrea Bonaccorsi, La storia dell’architettura è la storia (26 gennaio 2024).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 

 


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12 APRILE 2024

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Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

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A. Porrino, Biopolitica e governo delle condotte, commento a: O. Marzocca, Il virus della biopolitica (Efesto, 2023)

A. Bonaccorsi, La Storia dell'aerchitettura è la Storia, commento a: C. Olmi, Storia contro storie. Elogio del fatto architettonico, (Donzelli, 2023)

M. Venturi Ferriolo, La città vivente, commento a: S. Mancuso, Fitopolis, la città vivente (Laterza 2023)

G. Pasqui, Città: fare le cose assieme, commento a: B. Niessen, Abitare il vortice (Utet, 2023)