Giancarlo Consonni  
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LA PAROLA COME ABITO MORALE


Commento al libro di Gabriele Scaramuzza



Giancarlo Consonni


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Il lavoro dello storico è tanto più apprezzabile quanto più, nel delineare scenari d’assieme (i rapporti sociali, i caratteri insediativi, le culture, le mentalità, le dinamiche politiche ecc.), riesce a restituire i quadri di vita e il vissuto delle popolazioni. La memorialistica a sua volta, se non vuole chiudersi nel bozzolo delle vicende personali, ha il problema di dare conto del contesto in cui le vicende narrate si sono svolte. In entrambi i casi si pone un problema di equilibrio.

Uno dei tratti distintivi delle memorie d’infanzia e d’adolescenza di Gabriele Scaramuzza (In fondo al giardino, Mimesis, Milano-Udine 2015) è proprio l’equilibrio: la capacità di far vivere sulla pagina, con rapide ed efficaci pennellate, il mondo in cui l’autore e i suoi familiari hanno passato anni della loro esistenza tra guerra e dopoguerra. Così, oltre a far conoscere meglio il protagonista (nato a Milano nel 1939 e destinato a diventare un fine studioso e docente di estetica), il libro offre sonde a chi sia interessato a esplorare un ampio ventaglio di questioni: l’ambiente a tutto tondo di Inzago, un paese situato a 25 chilometri a est di Milano sulla Statale n. 11, Padana superiore (strada che attraversa da ovest a est la fascia delle risorgive che distingue l’altopiano asciutto, a nord, dalla bassa pianura irrigua, a sud); i rapporti fra città e campagna a metà del XX secolo; le dinamiche comunitarie, le mentalità, i comportamenti, le regole non scritte; le relazioni fra le componenti sociali; e, ancora, i mutamenti sul piano dell’ecologia e dei paesaggi.

Il tutto è filtrato dallo sguardo di un bambino dalla nascita alla soglia dell’adolescenza, che vede rari momenti d’incanto mescolati a sofferenze di varia natura e origine.

Seguiamo alcune sonde.

 

I tram extraurbani e il paesaggio. Se a ovest c’era il gamba de lègn che collegava Milano a Magenta, a nord-est e a est c’erano i tram per Vimercate e per Cassano-Vaprio. La partenza per questi ultimi era in via Benedetto Marcello che Scaramuzza definisce «luogo magico di partenze desiderate, con bancarelle, chioschi, platani». Posso confermare per esserci stato nel 1948 (sulla linea Vimercate-Milano): quel capolinea era un luogo pieno di fascino, che addomesticava la dimensione metropolitana nei modi di una mobilità leggera assicurata dal trasporto pubblico. La tramvia per Inzago (capolinea Cassano d’Adda), ci ricorda l’autore, vedeva questa successione: «Benedetto Marcello, Caiazzo, la Gobba, poi via via nomi insipidi o sgangherati come Crescenzago, Vimodrone, Cernusco, Gorgonzola, la Bettola; ma anche nomi promettenti (solo come nomi beninteso) come Villa Fiorita, o nobili come Cassina de’ Pecchi, verso il libero respiro della campagna. Alla fine del tragitto l’aprirsi degli spazi mille volte attesi, campi, rogge e filari di gelsi, robinie, il campanile e la grande quercia da lontano. Dal finestrino, oltre il filare degli alberi in fondo, il Monestirolo, avamposto del paese» (p. 9).

Il viaggio era una esperienza oggi impossibile: il transitare dalla città compatta alla campagna lasciava spazio al godimento di un paesaggio non ancora devastato dallo sprawl e dall’invasività dei mezzi di trasporto su gomma. Sui mutamenti intervenuti Scaramuzza va diritto come in un referto clinico: «Nei campi oggi solo sentori di fertilizzanti; centri commerciali, fabbriche, nella migliore delle ipotesi piccoli centri urbani ripuliti. Resiste la tipologia delle case, qualche scorcio rammodernato, prati uniformi. Il resto sono solo nomi senza più contenuti, del tutto cancellati ormai, anche se non scomparsi dalla mia memoria. Tutto si è fatto periferia scostante» (p. 10).

 

Il paesaggio vissuto dall’interno. L’aggettivo «limpida» ricorre più volte a proposito dell’acqua che scorreva nella rete di rogge e fossi derivata dal naviglio della Martesana (realizzato a partire dal 1460, con conseguente innalzamento a nord della zona irrigua). In alcuni casi, come nella roggia Crosina si «riusciva persino a nuotare» (p. 30). «Momento magico irrigare i campi (mi resta il termine dacquà, che neppure il Cherubini registra), di notte; l’acqua tra le zolle, gli orbettini nuotano tra i solchi, qualche rara anguilla resta impigliata» (p. 41). Vengono in mente i disegni di Luisa Carminati Viganò ora conservati nel Museo della civiltà contadina, presso la Cascina Carlotta, nella frazione di Zivido di San Giuliano Milanese. L’apertura delle bocche d’acqua ad opera dei campari assumeva il carattere di un rituale. A questo e ad altri appuntamenti dei lavori campestri erano associate forme antichissime di religiosità che sopravvivevano nel culto cristiano.

Nella sua scrittura lieve, rapida e incisiva, Scaramuzza ha modi efficacissimi per indicare la distanza dall’oggi: «A un pozzo poco lontano, all’inizio del cortile dei coloni, si attingeva l’acqua, molto fresca, l’estate: ne portavo un secchiello a chi lavorava nei campi vicini, la bevevano tutta d’un fiato, con grande sollievo, con gusto; e mia gratificazione. Ora tutto inquinato, estinti i pozzi» (p. 59).

Il mutamento intervenuto negli ultimi settant’anni è radicale anche nel quadro insediativo: «Le cascine attorno al paese, per me oasi favolose già nel nome: Morosina (acqua limpida delle rogge, perché dense, succose, d’un sapore che s’è perso, rimasto mitico, Moneta, Magana, Peregalla, Bonetta, Ravella, Draga … Sopravvivono isolate, ma ormai sono per lo più assorbite nella onnipresente periferia, che ne cancella lontananze e confini» (p. 30). Non sono state risparmiate nemmeno alcune dimore patrizie, come il Marchìn Sècch (un complesso in cui, alla parte padronale, erano aggregate l’abitazione del fattore e quelle dei coloni): «L’intero edificio è dimezzato, irriconoscibile: in parte è trasformato in un condominio “in stile”, da cui sono scomparsi lo scalone nobile, la sala degli specchi poi frazionata, irriconoscibili i locali della nonna. Resta l’ala con i nostri locali e le camere; resta la chiesa incorporata, ma trasformata in trattoria […] Al posto del cortile dei coloni case popolari troppo addossate all’edificio, tolgono il respiro. I vecchi abitanti sparsi per tutto il paese o chissà dove; alcuni zii in villette con giardinetto lì vicino. Tutto stinto da asfalto, auto, italiano misero a cadenza dialettale (quanto più ricco, espressivo il dialetto di cui un po’ ci si vergognava): squallore da periferia anche se non ancora del tutto degradata – da stringere il cuore» (p. 60).

È Inzago, ma mutamenti simili, in infinite varianti, hanno investito una parte estesa del pianeta. Ha scritto da qualche parte Carlos Fuentes: «Cuando termina la miseria empieza el malo gusto» (Quando finisce la povertà inizia il cattivo gusto): una verità con cui chi ha responsabilità nelle trasformazioni fisiche dei contesti – e persino chi fa ricerca – fa fatica a fare i conti. Gabriele Scaramuzza, che della bellezza ha fatto uno dei temi portanti della sua vita di studioso, evita in questo libro di entrare in disquisizioni storiche e filosofiche. Sceglie di far parlare le cose, lasciando trasparire, con estremo pudore, dolore e pietas. Le conclusioni – le lascia al lettore, alla sua sensibilità e responsabilità.

 

Altre, del resto, sono le urgenze da cui il libro è scaturito («Ci sono giorni in cui la necessità di raccontare si fa soffocante – fino a far male. Nodi irrisolti ancora incalzano. I conti restano tutt’ora aperti, forse è questo» p. 53). È sintomatico che il paesaggio venga restituito in stretta relazione con quanto della percezione è rimasto impresso nella memoria. Così, il paesaggio, oltre che visivo, è olfattivo, tattile, gustativo, sonoro: «L’odore del letame, dell’erba fresca, del fieno, della pioggia; l’ansietà delle ortiche. Il gusto della neve, ci si metteva il vino per insaporirla. Il ticchettio delle gocce nelle pozzanghere ai limiti del portico, i sassi netti sul fondo. Voci sparse». E ancora: «Luce scialba sul tavolo apparecchiato, voci allucinate di ubriachi le sere, gridi e fruscii di animali nelle aie, nei cortili fin nella notte: canto del gallo, abbai, ragli di asini, miagolii d’amore, grugniti. Di giorno cantilene di venditori e di artigiani ambulanti, rumori di zoccoli, di porte che si aprono, nenie di preghiere, saluti, alterchi, richiami. Cadenze ritornanti tra i tavoli delle osterie coi bicchieri sporchi di vino, canti straziati» (p. 61).

L’autore non lo dice, ma lo lascia intuire: il percorso che lo ha portato a occuparsi di estetica – e a un certo modo di rapportarsi al mondo – deve non poco a questi nutrimenti assimilati negli anni dell’infanzia.

Un libro, dunque, fatto di idilli? Tutt’altro: nelle pagine di In fondo al giardino hanno ampio spazio il disagio, le regole costrittive, le paure, le diffidenze, i conflitti. Ma, anche qui, l’incisività della narrazione non è mai a scapito della misura e dell’equilibrio. Vi contribuisce non poco la capacità di scavare sulla condizione propria e dei suoi familiari senza ritrosie e il sapersi guardare da fuori. Così le vicende personali divengono casi studio su altri temi rilevanti.

 

I rapporti fra la componente operaia (a cui apparteneva il padre dell’autore) e quella piccolo-borghese (da cui proveniva la madre). Distanze mai sanate, non tanto tra i genitori, quanto piuttosto tra i loro ambienti di origine. A Milano, città in cui era cresciuto un esteso ceto medio, l’aspirazione della piccola borghesia a distinguersi assunse una valenza ampia. Allo stesso tempo, la consistente presenza di impiegati e commercianti al minuto ha reso più articolato il quadro sociale, complicando il dualismo città borghese/città operaia e contribuendo a fare della città ambrosiana un laboratorio politico complesso.

 

Le relazioni tra gli sfollati in tempo di guerra (talora originari del paese, come nel caso dei genitori del piccolo Gabriele) e la popolazione del luogo. Scaramuzza dà conto dell’insinuarsi di diffidenze basate su luoghi comuni difficili da smantellare (i radicati pregiudizi reciproci dei cittadini e degli abitanti del contado). Al contempo si ha la conferma dell’apporto prezioso che le campagne dell’hinterland offrirono nell’ospitare masse ingenti di abitanti di Milano (fino a 800.000 sfollati, due abitanti su tre, secondo le ricerche coeve condotte da Felice Vinci) (1): una riprova di quanto il capoluogo fosse (e sia) debitore al suo hinterland.

Sia il fenomeno dello sfollamento tra il 1942 e il 1945 sia il problema di coloro che, nel capoluogo, persero la casa a causa delle bombe (un numero stimabile in 330.000) meriterebbero una maggiore attenzione fra gli storici. Una ricerca condotta da chi scrive e da Graziella Tonon ha portato a formulare l’ipotesi che almeno centomila sfollati non abbiano più fatto ritorno a Milano città (2), facendo fare un primo balzo allo sprawl insediativo (seguiranno altri balzi, prima, con l’esplodere della motorizzazione di massa e, a seguire, tra il 1975 e il 1995, a seguito delle radicali dismissioni industriali, con la perdita da parte di Milano di quasi mezzo milione di abitanti, finiti per lo più nella periferia metropolitana). In questa materia, si sente la mancanza di testimonianze dirette – quella di Scaramuzza è una felice eccezione –, così da poter dare ai quadri d’assieme la sostanza di vita vissuta.

 

Gli spazi e i modi di abitare. L’abitazione della famiglia Scaramuzza a Milano – due locali più servizi igienici – è già un passo avanti rispetto alle case di ringhiera, due locali con latrina in comune in fondo al ballatoio (un “tipo” negli anni quaranta e cinquanta a Milano ancora molto diffuso tra le famiglie operaie). A Inzago Gabriele e i suoi devono invece adattarsi alla regola delle abitazioni contadine, con il wc alla turca situato fuori dall’abitazione, il bagno nella tinozza e l’assenza di acqua corrente. Il sogno del piccolo Gabriele di un servizio con seduta come quello intravisto nella casa padronale è il sogno di milioni di italiani per i quali, nel dopoguerra, la villetta sarà, prima di ogni altra cosa, la conquista di servizi igienici decenti.

Allo stesso tempo Scaramuzza non manca di farci partecipi del fascino che, nelle dimore contadine, esercitava la cucina con camino (versioni più povere della mitica cucina del Castello di Fratta nelle Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo).

Ma il libro ha pagine molto belle anche sulla città vissuta dopo il rientro sul finire del 1945. «Vie di Milano stupite nei primi anni Cinquanta […]. Questa Milano mi resta nella memoria; ma per lo più Milano è soffocata, afosa, piovisnent, nebbie, cielo sporco, di rado spazzata dal vento» (p. 128). Ma anche: «Felicità solo al gioco sui marciapiedi e tra le siepi degli orti accanto a casa (ora impensabili fin nel ricordo)» (p. 133).

 

La società contadina e le dinamiche comunitarie. L’esserci stato da bambino – in una posizione, va ricordato, avvertita dagli abitanti del luogo come un’intrusione – offre all’autore la possibilità di abbozzare, a posteriori, un quadro della comunità rurale inzaghese. Qui e là nel libro affiorano mentalità, sensibilità e comportamenti orientati da regole non scritte, talora innervate su una religiosità fatta per lo più di «formalismi d’obbligo» e «annoiata abitudine» (p. 96), quando non sconfinante nella superstizione. «La rozzezza era diffusa tra i contadini, cultura e gusto neanche a parlarne, affettività inesistente (verso gli estranei senz’altro, tra le mura domestiche non oso immaginare, ma certo esisteva): la scortesia era di casa, gli egoismi cupi. L’igiene era scarsa: i bambini mai graziosi, le croste lattee sulla testa, il moccolo, graffi e sporcizia» (p. 70). Ma Scaramuzza sa riconoscere anche «la disponibilità a essere d’aiuto, superando i mille egoismi, una solidarietà più viva che nell’ambiente piccolo-borghese». E aggiunge «Ho letto che Dostoevskij scorge analogie tra i contadini della pianura padana e i contadini russi, fondate presumibilmente su una comune radice cristiana» (p. 71). Per quel che vale, ho trovato conferma di questa intuizione dell’autore de I fratelli Karamazov nei racconti di contadini brianzoli sopravvissuti alla campagna di Russia.

Lo scavo di Scaramuzza si spinge ancora più in là mettendo a nudo tratti della psicologia profonda della piccola compagine sociale. «Esibita noncuranza verso ciò che più si desiderava […] E si traduceva in latente aggressività, verso sé e verso gli altri. Ipocrisia della sottovalutazione in pubblico di ogni sentimentalità, pudore nel manifestare emozioni e sentimenti (roba da donne si pensava, ma inibito anche nelle donne), spinto fino all’estremo di un disprezzo marcato. Preventiva difesa da disinganni subiti? Eppure non moriva una voglia bruciante di tenerezza. E si accentuava in una sessualità privata di ogni dolcezza, relegata negli anfratti di un’acre fisicità, interdetta violentemente dai pulpiti e nelle famiglie» (p. 75). Sul sesso come ossessione e tema centrale del controllo sociale il libro ha diversi passaggi, intrisi di amarezza. Eccone uno: «Assoluta solitudine nel mondo sessuale. Mai qualcuno che indirizzasse o desse consiglio; solo divieti e censure inflessibili che accentuavano il disagio» (p. 97). Ma Scaramuzza, con la capacità di relativizzarsi che lo contraddistingue, non manca di osservare: «In Libera nos a Malo Meneghello affronta con grande spasso e incisività un mondo in buona parte analogo. Vorrei saper scrivere con quella levità di tocco – solo, la mia memoria non lo tollererebbe» (p. 53).

 

I cambiamenti nel modo di percepire oggetti, edifici, spazi, luoghi e paesaggi e il loro significato e senso. Mentre in molti passaggi dà conto di fatti sensibili rimasti incisi nella memoria – immagini e, ancora più prepotenti, suoni e odori (particolarmente efficaci le pagine 86-7), capaci di indurre «trasalimenti aspri» (p. 74) –, circa l’ambiente nel suo insieme Scaramuzza si interroga su un distacco avvenuto nel corso del tempo: «Stupisce che non conservino traccia luoghi in cui si è vissuti, le vie percorse per lungo tempo, intrise di sapori forti. Nessuna eco del passato si è sedimentata nelle strade, nei nomi; le case sono quelle, il naviglio, il comune e la chiesa, persino il cafèaus, sono rimasti com’erano anche nel nome, ma non hanno memoria; le nostre vite ci sono scivolate sopra senza lasciar segni. […] Sono rimasti gusci privi di ogni succo visivo, olfattivo, tattile. Vestigia sterilizzate, sopravvissute ora mute; conservate nell’involucro di un nome, ma come svuotate di contenuto. A ogni ritorno un senso di antica familiarità è minato da un’estraneità cresciuta nelle intermittenze dei decenni. Delle persone che incontro quasi nessuno ha radici nel nostro mondo, la loro presenza accentua la nostra lontananza» (p. 63). Ancora una volta In fondo al giardino, nel narrare di esperienza personali, mette a fuoco una questione più ampia. In questo caso, l’influenza che il passare tempo e il venir meno di rapporti d’uso hanno sul significato e il senso del mondo materiale. Qui sta una delle chiavi dell’interruzione della cura per i luoghi e i paesaggi e del loro degradarsi. Ma non è certo l’unica, essendo i luoghi e i paesaggi un terreno conteso in cui gli interessi economici hanno largo gioco; con il risultato, non infrequente, della perdita delle qualità relazionali e della bellezza degli ambiti di vita.

 

La parola come abito morale. «La mia ambizione – scrive Scaramuzza – era di scrivere qualcosa che potessero leggere anche i miei e la gente del loro ambiente» (p. 100). «Il proposito era di non usare parole estranee a quel cerchio di esperienze in cui vivono, impastate alle cose. La consegna era, e ha continuato a essere, ricorrere a parole che stessero dentro a quel mondo lontano se si voleva parlarne, evitare acquisizioni estranee, sopravvenienze colte. Altrimenti nulla fa presa, tutto suona artefatto, stonato. Quel mondo aveva anche silenzi, le cose non erano solo parole» (ibidem). In questa consapevolezza si condensa il tratto essenziale del libro: il suo dare conto di un’educazione (in larga parte proveniente dalle cose e dai fatti) in cui contraddizioni, sofferenze e conflitti alla fine passano in secondo ordine rispetto al processo che si è consumato. Dove la parola si fa specchio di un mondo e di un abito morale.

Giancarlo Consonni

 

 

 

Note
1) Felice Vinci, Un’inchiesta provinciale sugli sfollati e altri argomenti provinciali, Giuffrè, Milano 1945.
2) G. Consonni, G. Tonon, Le condizioni abitative dei ceti popolari e le lotte per la casa dal 1943 al 1948, in Aa. Vv., Milano tra guerra e dopoguerra, De Donato, Bari 1979, pp. 639-702. Sulle distruzioni belliche e non solo vedi
anche G. Consonni, Milano 1923-1963. Tre guerre contro la misura dialogica, in «ACME. Annali della Facoltà di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Milano», Vol. LXXIII, 2/2020, pp. 173-198.

 

 

 

N.d.C.- Giancarlo Consonni, professore emerito di Urbanistica del Politecnico di Milano, dirige l'Archivio Piero Bottoni che ha contribuito a fondare.
Tra i suoi libri: L'internità dell'esterno. Scritti su l'abitare e il costruire (Clup, 1989); con L. Meneghetti e G. Tonon (a cura di), Piero Bottoni. Opera completa (Fabbri, 1990); Addomesticare la città (Tranchida, 1994); Dalla radura alla rete. Inutilità e necessità della città (Unicopli, 2000); con G. Tonon, Il «lapis zanzaresco» di Pepin. Giuseppe Terragni prima del progetto (Ronca, 2004) e Terragni inedito (Ronca, 2006); La difficile arte. Fare città nell'era della metropoli (Maggioli, 2008); La bellezza civile (Maggioli, 2013; Éditions Conférence, 2021); Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà (Solfanelli, 2016), La forma della convivialità. I tavoli ellittici di Piero Bottoni (La Vita Felice, 2018).
Tra i molti saggi sulla metropoli milanese: (con G. Tonon) La terra degli ossimori. Caratteri del territorio e del paesaggio della Lombardia contemporanea, in Aa. Vv., Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Lombardia, a cura di D. Bigazzi e M. Meriggi, Einaudi, Torino 2001, pp. 51-187; (con G. Tonon) Milano, la questione metropolitana, in «Archivio Storico Lombardo», dicembre 2020, pp. 41-65; Milano 1923-1963. Tre guerre contro la misura dialogica, in «ACME. Annali della Facoltà di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Milano», Vol. LXXIII, 2/2020, pp. 173-198.
Tra gli scritti sulla cultura architettonica e urbanistica e sulle questioni insediative: G. Consonni, Conférence à Milan, in Marida Talamona (a cura di), L’Italie de Le Corbusier, XVe Rencontres de la Fondation Le Corbusier, Editons de La Villette, Paris 2010, pp. 188-199; G. Consonni, Le Corbusier: rivoluzionario, sublime, antiurbano, Ogni uomo è tutti gli uomini, Bologna 2012; Tra Cartesio e Vico. La contraddizione dei razionalisti italiani, in Aa. Vv., Architettura e realismo. Per una nozione operativa di realismo: espressione critica e impegno civile, a cura di Gentucca Canella e Elvio Manganaro, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2015, pp. 104-135; «Una cultura che esige molto». Colloquio immaginario con Carlo De Carli sul rinnovamento della Facoltà di Architettura di Milano, in Aa. Vv., Carlo De Carli 1910-1999. Lo spazio primario, a cura di Roberto Rizzi, Angeli, Milano 2016, pp. 68-87; Edoardo Persico: le contraddizioni della modernità, in «Strumenti critici», a. XXXII, n. 3, settembre 2017, pp. 385-398; (con G. Tonon), Architettura e natura, in «Rivista di psicologia analitica», numero monografico su Umana natura, a cura di Barbara Maximilla e Clementina Pavoni, n.s., n. 52, vol. 104/2022, pp. 119-130; Abitanti, ovvero tessitori di urbanità, in «Gli Asini», n. 101, 2022, pp. 18-22.
Ha pubblicato sei raccolte di poesia presso gli editori Scheiwiller ed Einaudi. L’opera pittorica è documentata in Ritmi e soglie (2018), Sognando la Liguria. 1994-1998 (2019); Stagioni. 1980-1998 (2021), Luoghi e paesaggi. 1961-2021 (2021), Nel blu. Collage 2013 (2022), Nel grigio. Collage 2016 (2022) editi da La Vita Felice.
Per Città Bene Comune ha scritto: Un pensiero argomentante, dialogico, sincretico, operante (2 giugno 2016); Museo e paesaggio: un'alleanza da rinsaldare (13 gennaio 2017); Coscienza dei contesti come prospettiva civile (9 febbraio 2018); In Italia c'è una questione urbanistica? (15 giugno 2018); Le ipocrisie della modernità (23 novembre 2018); La rivincita del luogo (25 luglio 2019); Le pratiche informali salveranno le città? (15 novembre 2019); Città: come rinnovarne l’eredità (20 novembre 2020); La coscienza di luogo necessaria per abitare (12 marzo 2021); Il passato come risorsa del progetto (10 settembre 2021); La bellezza come modo di intendersi (7 gennaio 2022), Una città visionaria per catturare l’incanto (7 luglio 2022).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri

R.R.

 


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30 SETTEMBRE 2022

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Luca Bottini
Oriana Codispoti
Filippo Maria Giordano
Federica Pieri

cittabenecomune@casadellacultura.it

iniziativa sostenuta da:
DASTU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Conferenze & dialoghi

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
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2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2021: V. Magnago Lampugnani | G. Nuvolati
locandina/presentazione
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Gli incontri

2021: programma/1,2,3,4
2022: programma/1,2,3,4
 
 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori
2019: Alberto Magnaghi

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021: online/pubblicazione
2022:

G. Amendola, Progettare il futuro della città impresa, commento a: G. Dioguardi, L’impresa enciclopedia (Guerini Next 2022)

G. Pasqui, Case pubbliche: una questione aperta, commento a: A. Delera, E. Ginelli, Storie di quartieri pubblici (Mimesis 2022)

C. Olmo, Per una progressive age, riflessione a partire da: D. T. Rodgers, Atlantic Crossings (Harvard University Press 1998)

R. Budini Gattai, Abitare le città storiche, patrimoni viventi, commento a: I. Agostini, D. Vannatiello, Une ville à habiter (Eterotopia France 2022)

G. Fossa, Urbanistica a Milano tra guerra e dopoguerra, commento a: R. Busi, 1944-1946 Piani per la Milano del futuro ovvero La solitudine del tecnico (Maggioli 2020)

A. di Campli, Forme ed ecologie della coesistenza, commento a A. Gabbianelli, La differenza amazzonica (LetteraVentidue 2021)

M. C. Ghia, Roma: una città reale, molte immaginarie, commento a: P. O. Rossi, La città racconta le sue storie (Quodlibet 2021)

G. Consonni, Una città visionaria per catturare l'incanto, commento a: N. Dal Falco, Un viaggio alla Scarzuola (Marietti 2021)

L. P. Marescotti, Pianificare è necessario, nonostante tutto, riflessione a partire dai libri di: F. Schiaffonati (Lupetti 2021), P. Portoghesi (Marsilio, 2019), G. Piccinato (Roma-Tre Press), et al.

L. Rossi, La cartografia come spazio di vita, commento a: D. Poli, Rappresentare mondi di vita (Mimesis 2019)

C. Tedesco, Una cultura urbana che riparta dal vissuto, commento a: C. Cellamare, F. Montillo, Periferia. Abitare Tor Bella Monaca (Donzelli 2020)

M. Barzi, Indagare i margini, ovunque si trovino, commento a: J. L. Faccini, A. Ranzini, L’ultima Milano (Milano, Fondazione G. Feltrinelli 2021)

C. Mazzoleni, Riaffermare il ruolo dell'Urbanistica, Commento a: C. Doglio, Il piano aperto, a cura di S. Proli (Elèuthera 2021)

A. M. Brighenti, Il fascino discreto dell'interstizio urbano, commento a: B. Bonfantini, I. Forino, (a cura di), Urban interstices in Italy (Lettera Ventidue 2021)

R. Pavia, Il porto come soglia del mondo, commento a: B. Moretti, Beyond the Port City (Jovis 2020)

S. Sacchi, Lo spazio urbano è necessario, commento a L. Bottini, Lo spazio necessario (Ledizioni 2020)

D. Calabi, La "costituzione" degli ebrei di Roma, commento a: A. Yaakov Lattes, Una società dentro le mura (Gangemi 2021)

F. Ventura, Memoria dei luoghi ed estetica dell'Ircocervo, riflessione a partire da: G. Facchetti, C’era una volta a San Siro (Piemme, 2021) e P. Berdini, Lo stadio degli inganni (DeriveApprodi 2020)

E. Scandurra, Il territorio non è una merce, commento a: M. Ilardi, Le due periferie (DeriveApprodi 2022)

A. Mela, Periferie: serve una governance coerente, commento a: G. Nuvolati, Alessandra Terenzi (a cura di), Qualità della vita nel quartiere di edilizia popolare a San Siro, Milano (Ledizioni 2021)

M. A. Crippa, Culto e cultura: una relazione complessa, commento a: T. Montanari, Chiese chiuse (Einaudi 2021)

V. De Lucia, La lezione del passato per il futuro di Roma, commento a: P. O. Rossi, La città racconta le sue storie (Quodlibet 2021)

M. Colleoni, Mobilità: non solo infrastrutture, commento a: P. Pucci, G. Vecchio, Enabling mobilities (Springer 2019)

G. Nuvolati, Una riflessione olistica sul vivere urbano, commento a: A. Mazzette, D. Pulino, S. Spanu, Città e territori in tempo di pandemia (FrancoAngeli 2021)

E. Manzini, Immaginazione civica, partecipazione, potere, commento a: M. d'Alena, Immaginazione civica (Luca Sossella 2021)

C. Olmo, Gli intellettuali e la Storia, oggi, commento a: S. Cassese, Intellettuali (il Mulino 2021); A. Prosperi, Un tempo senza storia (Einaudi 2021)

A. Bagnasco, Quale sociologia e per quale società?, commento a: A. Bonomi (a cura di), Oltre le mura dell’impresa (DeriveApprodi 2021)

R. Pavia, Le parole dell'urbanistica, commento a A. A. Clemente, Letteratura esecutiva (LetteraVentidue 2020)

G. Laino, L'Italia ricomincia dalle periferie, commento a: F. Erbani, Dove ricomincia la città (Manni 2021)

G. Consonni, La bellezza come modo di intendersi, commento a: M. A. Cabiddu, Bellezza. Per un sistema nazionale (Doppiavoce 2021)