Antonio Calafati  
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LA COSTRUZIONE SOCIALE DI UN DISASTRO


Commento al libro di Andy Horowitz



Antonio Calafati


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I. Quando, il 30 agosto 2005, l’uragano Katrina ha raggiunto New Orleans, in poche ore è svanita l’illusione che la città avesse una sufficiente capacità di resistenza. E si è materializzata una catastrofe così grande “that made people ask if this really was America” (1): oltre 1.440 morti, devastazione della città fisica – tra 150 e 200 miliardi di dollari di danni economici –, caos e sofferenze nei confusi e lunghi giorni dell’emergenza. Un evento catastrofico – un’inondazione, un terremoto, un incendio, un bombardamento – segna una cesura nella storia di una città: c’è un ‘prima’ e c’è un ‘dopo. Quando il focus della narrazione è sul ‘dopo’, la descrizione della catastrofe identifica le ‘condizioni iniziali’ del processo di ricostruzione, e l’attenzione si sposta sulla capacità di ri-organizzazione della città – sulla sua capacità di ricomporre il caos generato dallo shock esogeno, sulla sua resilienza. L’analisi comparata della resilienza delle città è il tema di un importante libro pubblicato nel 2005, l’anno di Katrina: The Resilient City. How Modern Cities Recover from Disaster (2). Si presentano criticamente casi emblematici di riorganizzazione – di rinascita, in alcuni casi – di città che hanno subìto un evento catastrofico. Berlino, Dresda e Varsavia dopo le distruzioni della Seconda guerra mondiale, Guernika e Beirut dopo le distruzioni delle guerre civili, Los Angeles dopo la rivolta sociale del 1992 sono alcuni dei casi trattati. Il focus sulla capacità di resilienza è inevitabile, ma non si dovrebbe dimenticare che la capacità di resilienza è inscindibile dalla capacità di resistenza. Certo, ci sono shock rispetto ai quali la questione della capacità di resistenza del sistema che li subisce neppure si pone. Berlino, Varsavia, Dresda, Guernika, Hiroshima – gli esempi sono innumerevoli – non avrebbero potuto resistere a bombardamenti distruttivi come quelli subiti. E nessuna modifica della città fisica avrebbe potuto aumentare la resistenza al tipo e all’intensità dello shock subìto. Diversamente, ci sono shock rispetto ai quali un sistema si può preparare – e si prepara – aumentando la propria capacità di resistenza: New Orleans, nel corso della sua breve storia, ha costantemente declinato il tema di come prepararsi alla prossima inondazione – di come proteggersi dagli effetti di un uragano, di una tempesta tropicale o di una piena del Mississippi.

La descrizione di un evento catastrofico può essere il punto di partenza per identificare una strategia di riorganizzazione della città, ma può essere anche il punto di partenza di una riflessione sul ‘prima’, sulle ragioni dell’insufficiente capacità di resistenza mostrata dalla città. Ed è questo il tema della riflessione che Andy Horowitz conduce in un libro di grande interesse metodologico e teorico: Katrina. A History, 1915-2015 (Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 2020). La storia lunga un secolo che si richiama nel titolo, e che il libro ripercorre per comprendere la catastrofe, non è naturalmente la storia dell’uragano, bensì la storia della città fisica di New Orleans dopo il 1915. La storia delle scelte collettive che hanno determinato lo sviluppo spaziale della città, che hanno fatto sì che New Orleans avesse quelle caratteristiche, quella specifica capacità di resistenza quando è stata colpita da Katrina, che l’uragano causasse una così grande catastrofe. La storia che Horowitz racconta inizia nel 1915, l’anno in cui avviene la più grave delle 98 inondazioni che la città aveva subìto dalla sua fondazione nel 1718, e anche l’anno in cui New Orleans inizia una nuova traiettoria di sviluppo spaziale ed economico. Nel libro Katrina è il nome della catastrofe, degli effetti dell’uragano sulla città, che secondo l’Autore sono spiegati dai caratteri della città fisica, dalla sua capacità di resistenza progressivamente indebolita dagli effetti del modello sociale ed economico scelto dalla città. La catastrofe è stata una lenta costruzione sociale: questa è la tesi centrale del libro.

 

II. Quando si afferma che New Orleans è stata colpita da numerosi uragani nel corso della sua storia non si sta affermando che a essere colpita è stata la stessa città. Le città, come gli individui, sono ‘sistemi progressivi’, sistemi che nel tempo cambiano scala (si espandono, si contraggono) e struttura (i caratteri della loro morfologia sociale ed economica, ad esempio). E come gli individui, pur cambiando scala e struttura mantengono nel tempo il loro nome, la loro identità. I caratteri delle città, come di qualsiasi altro sistema progressivo, sono contingenti – e di conseguenza lo sono anche la loro capacità di resilienza e capacità di resistenza. Le città seguono traiettorie evolutive determinate da una costellazione di forze, legate da relazioni di interdipendenza – e ogni shock che le colpisce di fatto colpisce città ‘diverse’. Raccontare come e perché è cambiata nel tempo la città fisica (e sociale) di New Orleans è il tema centrale del libro di Horowitz. Ma cosa intende l’Autore per ‘città fisica’? La prospettiva metodologica che egli propone di utilizzare per definirla apre uno scenario tragico per New Orleans – ma è lo scenario del nostro tempo, per questa e altre città.

La città fisica è artefatto e natura: la città costruita (artefatto) non si può dare senza uno spazio geografico (natura) che la contiene e con il quale è in una relazione di interdipendenza. Nel tempo la città costruita si espande, si contrae e si trasforma nella morfologia spaziale e nelle architetture. Ma nel tempo anche lo spazio geografico in cui la città costruita è incastonata cambia. Può farlo per effetto di dinamiche proprie, secondo una scansione temporale ‘naturale’; può farlo nei tempi storici come esito dell’attività antropica esercitata in quello stesso spazio; può farlo, infine, per gli effetti locali di attività antropiche esercitate alla scala globale. Per spiegare la catastrofe e la devastazione prodotta da Katrina – per spiegare la capacità di resistenza di New Orleans nel 2015 – l’Autore propone la seguente tesi: la città ha seguito una traiettoria di sviluppo economico che non ha tenuto conto delle relazioni di interdipendenza tra la dinamica del sistema spaziale e la dinamica del sistema geografico. Non ne ha tenuto conto per ragioni sospese tra incapacità di pensare in modo sistemico e hubris nei confronti della natura. Per comprendere il “disastro” che l’uragano Katrina ha causato a New Orleans si deve raccontare – nella loro interdipendenza – la storia della città costruita e la storia dello spazio geografico che la contiene. È necessario farlo per capire come New Orleans sia giunta ad avere quella specifica capacità di resistenza quando Katrina l’ha colpita. Per capire perché, ad esempio, è stato costruito l’Industrial Canal che collega il Mississippi al Lago Pronchartrain, e perché quando il canale collassa sotto l’onda di piena causata dall’uragano ad essere completamente sommersi sono i quartieri edificati dopo il 1915, su aree paludose e al di sotto del livello del mare.

 

III. Alcune centinaia di chilometri più a nord di New Orleans, lungo il Mississippi si conduce dagli anni Sessanta un grandioso esercizio di controllo della natura da cui dipende la sopravvivenza stessa di New Orleans. Poco lontano dal Mississippi, a circa 20 chilometri a ovest, per un breve tratto del suo corso scorre il fiume Atchafalaya, che ha dimensioni e portata molto inferiori al Mississippi. A un certo punto della sua storia, il Mississippi modifica il proprio corso, formando una grande ansa verso ovest che ‘cattura’ l’Atchafalaya. Lo cattura a nord dell’ansa per poi lasciarlo poco dopo, a sud dell’ansa stessa. Questa grande ansa allunga e rallenta la navigazione, e si decide di ‘tagliarla’ scavando un canale rettilineo che connette l’inizio e la fine dell’ansa. In questo canale verrà fatta confluire parte delle acque del Mississippi, tanto quanta ne basta per permettere alle navi di navigarlo (il resto delle acque continua il proprio corso, entra nell’ansa e ritorna nell’alveo del Mississippi più a valle). La natura, tuttavia, continua a seguire il suo corso, e lentamente si forma un dislivello tra il letto del Mississippi, che è più in alto, e quello dell’Atchafalaya, con la conseguenza che nell’alveo dell’Atchafalaya defluisce una quantità di acqua del Mississippi via via maggiore. Il dislivello tra i due fiumi continua ad aumentare, e a un certo punto diventa chiaro che l’Atchafalaya ‘catturerà’ il Mississippi completamente. Sarebbe un evento che sconvolgerebbe l’organizzazione territoriale dell’intera Louisiana, e si inizia a realizzare una complessa infrastruttura per evitare che accada. Un esercizio di controllo della natura imponente: il Mississippi è il più grande fiume degli Stati Uniti (uno dei grandi fiumi del mondo) e il suo bacino idrografico raccoglie un terzo delle piogge che cadono nel territorio statunitense. Il completo spostamento del Mississippi nell’alveo dell’Atchafalaya sarebbe un evento catastrofico irreversibile: nessun intervento umano riuscirebbe a riportare le acque dell’Atchafalaya nell’alveo del Mississippi. Avrebbe costi sociali incommensurabili, che giustificano gli imponenti investimenti necessari per realizzare le infrastrutture che dovrebbero evitarlo. A un grandioso tentativo di ‘controllo della natura’, dagli esiti incerti, effettuato alcune centinaia di chilometri più a nord – che John McPhee racconta in modo affascinante in Il controllo della natura (1989)(3) – dipende il futuro di New Orleans. Ma il futuro di questa iconica città dipende anche dagli esiti, persino più incerti, di un ancor più grandioso esercizio di controllo della natura che si conduce nello spazio geografico nel quale essa è incastonata.

 

IV. Il sistema geografico all’interno del quale si trova New Orleans è stato creato dai detriti trasportati dal Mississippi. È un territorio ancora geologicamente instabile, sostanzialmente paludoso – wetlands –, con ampie parti, tra cui anche alcuni quartieri della città, situate al di sotto del livello del mare. Questo sistema naturale entra molto presto nell’Antropocene, la fase nella quale l’azione dell’uomo modifica profondamente la sua evoluzione. Il titolo del primo capitolo del libro di Horowitz – “How to sink New Orleans. Controlling foods, oil, and State’ rights, 1927-1965” – esprime nella sua semplicità il drammatico dilemma di New Orleans.

New Orleans entra nell’Antropocene a metà Ottocento quando la navigazione si espande, e si appresta a diventare una grande città portuale (a un certo punto della sua storia, sarà uno dei porti più grandi degli Stati Uniti). Per farlo sono necessari interventi infrastrutturali che modificano profondamente la traiettoria evolutiva del sistema naturale in cui la città è incastonata. Allo scopo di facilitare la navigazione in entrata e in uscita dall’Oceano Atlantico, il tratto finale del fiume viene canalizzato per accelerare il deflusso delle acque e impedire che i detriti trasportati si depositino nell’ultimo tratto del suo corso. La canalizzazione li spinge negli abissi del Golfo del Messico. Come effetto collaterale della sua canalizzazione, però, si riducono le aree temporaneamente invase dalle acque di piena del Mississippi, e i detriti che le inondazioni depositavano sulla terra ferma diminuiscono. Le aree regolarmente inondate – e il conseguente deposito di detriti – si riducono anche per un’altra ragione: la costruzione e/o innalzamento degli argini del fiume, interventi necessari ad abbassare il rischio di inondazioni del sistema insediativo esistente e anche a rendere abitabili nuove aree, in particolare quelle situate al di sotto del livello del mare. Questi primi esercizi di controllo della natura fanno entrare New Orleans in una traiettoria di sviluppo economico e sviluppo spaziale inconciliabile con i caratteri del sistema geografico dal quale è ‘ospitata’. Da una parte, lo spazio su cui sorge è soggetto a una subsidenza naturale determinata dal compattamento del suolo che si stabilizza – come tipicamente accade ai suoli giovani formatisi per accumulo di detriti –, e ha pertanto bisogno di un continuo apporto di detriti – quindi, di inondazioni – per non scendere sotto il livello del mare. Ma, dall’altra, la mera esistenza della città sulle sponde di un fiume il cui alveo si alza per effetto dei detriti che continuamente vi si depositano, l’espansione della città costruita, la traiettoria di crescita economica scelta (il ruolo assegnato all’attività portuale) richiedono interventi che riducano le inondazioni.

Il dilemma diventa ancora più complesso nel corso del Novecento, quando si inizia ad estrarre petrolio su larga scala. L’attività estrattiva cresce costantemente, e all’inizio degli anni 2000 “Lousiana had the highest concentration of petrochemical plants in the United States…” – e anche “the highest rates of several forms of cancer”(4). Per la logistica dell’attività estrattiva è infatti necessario costruire canali di connessione tra gli impianti petroliferi e l’Oceano Atlantico. Questi canali velocizzano il deflusso delle acque verso il mare, riducendo i detriti che si depositano localmente. L’estrazione di petrolio accelera il processo di subsidenza sia direttamente – sottraendo materia al sottosuolo – che indirettamente – per l’erosione cui sono soggetti i canali stessi. L’estrazione di petrolio attiva un processo di subsidenza che si somma al processo di subsidenza naturale. A New Orleans si manifesta uno dei paradossi economici della modernità, che Horowitz richiama: the resource curse. Le società – non solo le società capitalistiche – perdono l’orientamento, dimenticano i vincoli che la natura pone, non riescono più a bilanciare i costi e i benefici dell’interferenza con i processi naturali che l’estrazione di materia-energia genera. Disporre di risorse naturali diventa una “maledizione” per l’hubris che genera e che offusca il pensiero collettivo.

Il Novecento è anche il secolo di grandi interventi infrastrutturali nel sistema territoriale di New Orleans. Come la costruzione dell’Industrial Canal, un canale navigabile lungo 9 km che collega il Mississippi al lago Pontchartain tagliando in due il sistema insediativo della città – che a est del canale è molto al di sotto del livello del lago (e del mare). Un’opera consapevolmente e orgogliosamente grandiosa, completata nel 1923. Inoltre, per facilitare l’accesso delle navi commerciali all’Industrial Canal dal Golfo del Messico viene realizzata (e completata nel 1968) un’altra opera ingegneristica, anch’essa consapevolmente e orgogliosamente grandiosa: il Mississippi River-Gulf Outlet, un canale di circa 100 chilometri che si interseca nel centro della città con l’Industrial Canal. Progettato per essere ampio circa 200 metri, per effetto dell’erosione raggiunge in pochi anni l’ampiezza di 800 metri. Ed è attraverso questo canale, tenuto attivo da continui drenaggi, che l’onda di piena generata da Katrina, risalita dalla costa della Louisiana verso nord, ha raggiunto l’area centrale della città causando la rottura dei suoi argini. Ma l’onda di piena generata da Katrina ha raggiunto New Orleans anche attraverso il Gulf Intercostal Waterway, un altro grandioso canale navigabile tra terra e mare realizzato nel 1949 che dalla Florida raggiunge New Orleans per poi proseguire fino al Texas.

New Orleans fa un altro deciso passo nell’Antropocene nel XXI secolo, quando agli effetti dell’azione locale dell’uomo sul sistema geografico in cui è incastonata si sommano gli effetti dei cambiamenti climatici globali: l’innalzamento delle acque dei mari e la maggiore frequenza di eventi atmosferici estremi – a soli 16 anni da Katrina New Orleans (e la Louisiana) è stata colpita dall’uragano Ida, il secondo uragano per intensità dopo Katrina nella storia della città. New Orleans sta sprofondando, per la subsidenza indotta localmente dall’azione dell’uomo, mentre si alza il livello del mare. Una parte molto ampia del suo sistema insediativo potrebbe già essere sommersa entro il 2050 – e, come ci ricorda Nathaniel Rich, tra fatalismo e realismo, se New Orleans “… survives the century, it may be as a true island, detached from the Gulf Coast…”(5).

 

V. Sin dalla sua fondazione New Orleans si è confrontata con la certezza delle inondazioni e il rischio che esse fossero ‘eccessive’ rispetto alla capacità di resistenza della città fisica, sia delle infrastrutture artificiali di difesa dall’innalzamento delle acque (argini e sistemi di pompaggio) che delle infrastrutture naturali (le paludi con la loro vegetazione, che svolgono una importantissima funzione di mitigazione delle ondate di piena causate dagli uragani). E, in effetti, la capacità di resistenza della città è stata continuamente accresciuta – ma, alla prova dei fatti, non in misura sufficiente – all’aumentare del rischio del verificarsi di inondazioni più gravi. Rischio che aumentava perché la natura era in transizione verso un equilibrio incompatibile con gli insediamenti umani stabili lungo il Mississippi, con la presenza di città come New Orleans e di infrastrutture necessarie a un territorio che si era intensamente antropizzato.

Il tema della resistenza è sempre stato al centro del progetto urbano di New Orleans. Nel corso della sua breve storia, non vi è mai stato un momento in cui come prepararsi all’inondazione successiva – come proteggersi dagli effetti di un uragano o di una tempesta tropicale o dell’innalzamento dell’alveo del Mississippi – non fosse nell’agenda politico-amministrativa della città. Ma, nel caso di New Orleans, come è stato concettualizzato e svolto il tema della ‘sufficiente resistenza della città fisica’? Secondo il paradigma ingegneristico, portato ai suoi estremi.

New Orleans decide di entrare in una traiettoria di crescita economica che avrebbe determinato un intenso sviluppo spaziale. Ma lo spazio fisico in cui edificare gli insediamenti residenziali, le piattaforme produttive e logistiche associate alla crescita estensiva della città era ad elevato rischio di inondazioni. Un rischio che, è importante sottolineare, sarebbe stato aggravato dalla realizzazione stessa delle infrastrutture logistiche richieste dalla crescita economica della città – si pensi, ad esempio, al fatto di considerare l’attività portuale un settore rilevante della base economica della città. La società locale non ‘vede’ che parte delle infrastrutture a difesa delle inondazioni è il tentativo di controbilanciare l’aumento del rischio di inondazioni determinato dalle infrastrutture necessarie alla sua crescita economica.

Mentre New Orleans seguiva la sua traiettoria di crescita economica, l’espansione del sistema insediativo avveniva in aree localizzate al di sotto del livello del fiume e rese edificabili attraverso opere di drenaggio e di difesa da corpi acquiferi che si trovavano ‘più in alto’: questi erano i suoli disponibili. Il soddisfacimento di un rischio ‘accettabile’ – ritenuto socialmente ‘accettabile’ – lo si è raggiunto innalzando gli argini lungo il Mississippi, e attraverso sistemi di aperture per realizzare inondazioni controllate in caso di estremo pericolo e sistemi di pompaggio (in questa città, dalla quale il fiume non è visibile data l’altezza degli argini, è in funzione il più grande sistema di pompaggio al mondo). Una sistematica ingegnerizzazione del territorio, si era creduto, avrebbe permesso di raggiungere una capacità di resistenza ‘sufficiente’.

Il dilemma di New Orleans appare oggi ancora più drammatico. La traiettoria di sviluppo spaziale della città – la sua espansione – è avvenuta in uno spazio geografico che non può essere abitabile, dato il rischio di inondazioni distruttive, e lo diventa solo con interventi infrastrutturali che, tuttavia, nel lungo periodo aumentano il rischio stesso di inondazioni. Inoltre, lo spazio geografico che ospita New Orleans viene modificato dalle infrastrutture richieste dal tipo di base economica che la città sceglie, le quali rendono a loro volta questo spazio più soggetto a inondazioni. E tutto ciò avviene mentre gli effetti locali della crisi climatica globale aggrava ulteriormente il rischio di inondazioni.

 

VI. È stato sufficiente ciò che Katrina ha causato per convincere New Orleans – e gli Stati Uniti – a mettere in discussione il paradigma ingegneristico che ha guidato l’evoluzione della città dalla sua fondazione, e in particolare dal 1915? A prendere consapevolezza di avere intrapreso una traiettoria di crescita economica dimenticando dove si trova, in quale luogo in quale tempo? Prendere concretamente atto delle relazioni di ‘causalità circolare’ tra la traiettoria di crescita economica e la traiettoria evolutiva della nicchia geografica nella quale New Orleans si trova condurrebbe un radicale cambiamento del modello economico e spaziale della città, che non sembra affatto profilarsi all’orizzonte politico – e, forse, è comunque tardi. E nel dibattito pubblico locale e nazionale – sottolinea Horowitz – resta celata la drammaticità dello scenario che New Orleans ha difronte. (Resta celato dietro gli argini del Mississippi anche il disperato ammonimento che viene dai ‘river rats’, gli abitanti della piccola colonia Southport che vivono in palafitte sospese fino a sette metri di altezza lungo gli argini che degradano verso il fiume. Invisibili alla vista dall’interno della città e ignorati dalla città, con la loro forma di vita primitiva i ‘river rats’ testimoniano in modo estremo ma paradigmatico del significato dei vincoli che l’ecosistema di New Orleans pone alle forme dell’attività antropica: loro sembrano sapere dove sono.)

Ci si deve chiedere – seguendo Horowitz – quali siano gli ostacoli psicologici, epistemologici e politici che impediscono a New Orleans di vedere i limiti tragici del paradigma che ha governato la sua traiettoria di crescita economica nell’ultimo secolo. Una domanda chiave per interpretare il nostro tempo – quella che Horowitz pone –, perché gli ostacoli che si manifestano a New Orleans sono gli stessi che impediscono di realizzare la transizione ecologica e sociale dalla quale dipende il nostro futuro comune.

Antonio Calafati

 

 

Note
1) Lyster, R. (2021). Diary: Lousiana Underwater. London Review of Books, 43(19).
2) Campanella, T. J., & Vale, L. J. (Eds.). (2005). The Resilient City. How Modern Cities Recover from Disaster. Oxford University Press.
3) McPhee, J. (1995, ed.inglese 1989). Il controllo della natura. Adelphi.
4) Horowitz, A. (2020). Katrina. A History, 1915-2015. Harvard University Press.
5) Rich, N. (2021). Rolling Along. The New York Review of Books, 7, 4-6.

N.d.A. - Ho condiviso con Francesca Mazzoni l’attività di ricerca all’origine di questo testo.

N.d.C. - Economista di formazione, Antonio Calafati ha studiato e a lungo insegnato alla Facoltà di Economia "Giorgio Fuà" (Ancona), che ha lasciato nel 2013 per assumere l’incarico di coordinare – nei primi tre anni sperimentali – l'International Doctoral Programme in Urban Studies del Gran Sasso Science Institute (L'Aquila). Dal 2016 al 2020 è stato professore di Studi urbani all’Accademia di architettura di Mendrisio. Ha inoltre avuto incarichi di insegnamento all'Università di Macerata (1992-1995) e all'Università "Friedrich Schiller" di Jena (2000-2009). Ha trascorso lunghi periodi di studio presso il St. Antony's College (Oxford), l'Università di Freiburg i.B. e il Max-Planck-Institut di Economia di Jena. Ha condotto studi e ricerche, tra gli altri, per la Commissione Europea, la Banca Europea per gli Investimenti, l'OCSE e il Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica.

Ha recentemente curato i volumi: Milano: città e territorio. Uno studio di caso (Mendrisio Academy Press 2020), Un'agenda urbana per l'Italia (Donzelli 2014) e Le città della Terza Italia (FrancoAngeli 2011) – e redatto le monografie Economie in cerca di città. La questione urbana in Italia (Donzelli, 2009) e, con F. Mazzoni, Città in nuce nelle Marche (FrancoAngeli 2008).

Il suo sito web è: www.antonio-calafati.it

Per Città Bene Comune ha scritto: Neo-liberali tra società e comunità (30 settembre 2017); Il declino di Torino: una lezione per le città (22 ottobre 2021)

N.b. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.


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17 FEBBRAIO 2023

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