Paolo Ceccarelli  
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ADDIS ABEBA INSEGNA ANCORA


Commento al libro di Corrado Diamantini e Domenico Patassini



Paolo Ceccarelli


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Il libro Addis Ababa. At the roots of a disputed flower (ListLab, 2023) di Corrado Diamantini e Domenico Patassini è un inconsueto e importante contributo al dibattito scientifico e culturale sulla pianificazione urbanistica che vale la pena di leggere con attenzione. I due autori, infatti, con questo lavoro forniscono un contributo prezioso all’attuale ricerca di soluzioni appropriate per contenere gli effetti negativi del mutamento climatico sull’attuale habitat umano – e, in particolare, le grandi metropoli delle regioni in via di sviluppo – e ricreare un corretto rapporto tra ambiente costruito dall’uomo e ambiente naturale. Danno cioè il loro contributo analizzando la situazione e le vicende che portarono all’elaborazione del master plan dell’area metropolitana di Addis Abeba alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso: un’esperienza esemplare di pianificazione e gestione urbanistica di una delle più importanti città africane.

Quarant’anni fa Addis aveva 1,5 milioni di abitanti. Oggi ne ha 5 milioni e si sta trasformando in una enorme metropoli. In questa vicenda mi sono trovato coinvolto direttamente, essendo stato corresponsabile, in quanto Rettore dell’IUAV, della direzione dell’ufficio per il master plan, con l’Ing. Techeste Ahderom, ex Rettore dell’Università dell’Asmara. Fu per entrambi un’esperienza di ricerca e lavoro, ma anche di possibilità educative, che ha avuto un peso notevole nelle nostre vite.

Quanto fu fatto allora è del tutto superato e perso? In parte inevitabile? Quello che non è andato perso oltre ad alcune scelte di piano che hanno dato solida base alle successive trasformazioni è stato il lavoro svolto da AAMPO che è stato strumento di ricerca innovativa rispetto ai canoni accademici alla fine del XX secolo e luogo di formazione attraverso la diretta collaborazione e il confronto culturale di un notevole numero di docenti e ricercatori universitari e autorevoli professionisti italiani ed etiopici. Una risorsa intellettuale e di competenze teoriche che ancora oggi è importante per affrontare le sfide future.

Il testo è strutturato in cinque sezioni: 1 Addis Abeba, la rischiosa sfida della città Africana; 2 Modi di produzione e l’evoluzione di Addis Abeba, nel corso del ventesimo secolo; 3 Processi di modernizzazione e continuità della tradizione: una rassegna degli anni 1980; 4 La cultura della pianificazione ad Addis Abeba: esperienze e contatti dalla sua fondazione agli anni 1980; 5 Il Master Plan dal 1983 al 1985. Mi sembra che una lettura del libro, molto chiaro ed utile anche dal punto di vista didattico, consenta di capire la dinamica, ma anche il complesso sistema di rapporti tecnici, culturali e umani di un’operazione complessa come è stato il master plan dell’area metropolitana di Addis Abeba. Nella letteratura urbanistica attuale ci sono saggi monografici su esperienze di sviluppo urbanistico e di pianificazione per guidarlo e contenerlo relativi a varie città del mondo; non sono però molti i libri che raccontano la storia delle trasformazioni di una città in epoca contemporanea e mettono in luce i problemi che si incontrano nel tentativo di guidarli, creando città migliori. Questo tipo di approccio al caso di una complessa e importante città africana rende ancora più utile ed interessante il contributo di Addis Abeba. At a roots of a disputed flower.

In anni recenti il continente africano è stato oggetto di influenze internazionali da parte di paesi con culture, sistemi politici e fondamenti economici molto diversi; questo ha prodotto modelli di pianificazione urbanistica diversi tra di loro, con interpretazioni delle problematiche locali talvolta più influenzate dagli interessi di chi forniva l’aiuto tecnico per pianificare che dalla realtà complessa delle città considerate. È questa una nuova pagina degli studi sul territorio e le città africane che sarà opportuno sviluppare. Negli anni 1980 invece i modelli di riferimento erano ancora in larga misura quelli dei poteri coloniali Inglese, Francese, Belga e Portoghese con qualche iniziale influenza degli USA e dei paesi socialisti. In questo senso l’esperienza italiana di elaborazione di un piano importante rappresentava un caso particolarmente interessante, anche per il tipo di impostazione proprio della progettazione architettonica e urbanistica del nostro paese.

Il lavoro di Diamantini e Patassini permette ai lettori (che si spera siano sia giovani etiopici ed africani, sia italiani) di capire le problematiche complesse del trasferimento di modelli culturali da una regione all’altra del mondo. Nel caso dell’Etiopia il problema era ulteriormente arricchito dal fatto che Addis Abeba era, ed è ancora, una città ricca di diverse componenti etniche dell’Africa Sud Orientale. Si pensi, infatti, alla estrema eterogeneità etnica del paese, con le sue ottanta e più etnie presenti, in cui dominano gli Amara, gli Oromo, i Tigrini e i Somali, per il 70% del totale facendone un caso quasi unico nel panorama mondiale.

Il piano fu elaborato in un momento particolare della politica internazionale. L’Etiopia si appoggiava all’URSS e ai paesi del blocco socialista per marcare le proprie differenze in materia di interessi politici ed economici rispetto agli altri Paesi del Corno d’Africa. Questa scelta era però abbastanza fragile e di fatto il master plan di Addis, avviato sotto il governo di Mengistu Haile Mariam, diventò legalmente operativo quando la situazione politica locale era totalmente cambiata, in seguito ad un colpo di stato. Credo che questa situazione sia importante per far capire la precarietà di molti strumenti di piano e quanto alle volte certe scelte vengano confermate, mentre altre spariscono e magari, dopo anni, si cerca di ripescarle.

In sostanza ritengo il lavoro fatto da Diamantini e Patassini, oltre ad un eccellente contributo di ricostruzione di una importante vicenda storica e di conferma della memoria di suoi risultati positivi, un utilissimo testo per capire come affrontare i nuovi problemi che il sistema urbano di Addis Abeba affronterà nei prossimi anni e di stimolo a trovare soluzioni innovative rispetto al mutamento climatico e alle trasformazioni socio-economiche pur conservando principi, elementi fondativi e valori connessi alla tradizione del Paese.

A questo punto mi sembra utile per il lettore integrare queste considerazioni sul libro con alcune considerazioni sull’esperienza diretta di elaborazione del master plan, sia nei suoi aspetti scientifici e culturali che in quelli politici e di rapporti umani tra chi collaborò intensamente per molti mesi. Queste considerazioni si basano su quanto mi ricordo, ma anche su due brevi saggi che scrissi a metà degli anni ottanta in un volume di scritti in onore di Giuseppe Samonà, allora rettore dell’IUAV, morto nel 1983.

 

L’antefatto

L’esperienza della pianificazione urbanistica di Addis Abeba inizia con un classico comportamento della politica italiana. Nel quadro degli accordi di collaborazione e di cooperazione allo sviluppo tra Governo italiano e Governo etiopico, nel 1981 rientra il progetto di pianificazione urbanistica di Addis Abeba, capitale e maggiore città del paese, in fase di crescita e punto di riferimento per varie istituzioni politiche africane.

A Roma si decide di affidare un incarico esplorativo a Mario Fiorentino noto architetto romano. Fiorentino va ad Addis, visita i luoghi, segnati anche dal breve periodo di dominio coloniale italiano e negli incontri con i politici e tecnici locali propone soprattutto interventi architettonici, mentre la città ha bisogno di proposte relative all’assetto spaziale di grande scala, a nuove infrastrutture e servizi a politiche di miglioramento delle condizioni abitative e soluzioni relative ai servizi ed alle infrastrutture che tengano conto della sua complessità multietnica, con tutte le tensioni e i conflitti che ne conseguivano. La missione si conclude di fatto con una dichiarazione di disaccordo e la sospensione momentanea della parte etiopica della richiesta di assistenza da parte dell’Italia.

A questo punto l’allora ministro degli esteri Andreotti decide di non ricorrere più agli incarichi ad personam, ma di verificare la possibilità di utilizzare il contributo delle facoltà di architettura italiane per l’elaborazione del piano regolatore con l’appoggio operativo di società di ingegneria e architettura con esperienza internazionale. Lo IUAV è una delle facoltà selezionate. Una delle società del gruppo Foster Wheeler, la Fosweco, contatta lo IUAV e propone un incontro riservato a Roma. Vado all’incontro e, sorpresa, mi trovo di fronte ad una delegazione del governo etiopico che aveva contatti con la Foster Wheeler che a sua volta conosceva l’attività dello IUAV.

Mi spiegano i loro problemi, ne discutiamo a lungo insieme e alla fine mi assicurano il loro appoggio se decidessimo di accettare un eventuale incarico del MAE. Lasciamo l’appartamento vuoto, in una strada anonima di Roma e penso che tutto sia finito lì. Partecipiamo comunque, anche se poco convinti, viste le tradizioni romane in materia di decisioni importanti. Passano alcune settimane, poi d’improvviso arriva la comunicazione formale del MAE che l’incarico per il piano di Addis era stato dato allo IUAV e FOSWECO con l’approvazione del governo etiopico. Eravamo mobilitati per un paio d’anni.

 

Principali problemi

L’Etiopia è stata ed è un paese anomalo in Africa. È stato molto a lungo indipendente, di religione cristiana in un continente dominato dall’Islam e dalle tradizioni animiste, legato anche alla storia di Israele (ricordate la regina di Saba e Re Salomone?). Improvvisamente si scontra con il colonialismo improvvisato, violento e senza scrupoli italiano.

La prima visita ad Addis è assolutamente contraddittoria. La città è affascinante; proprio per il suo non essere città fatta di piccole costruzioni, i suoi quartieri tradizionali, grandi spazi verdi incontaminati. Addis era nata come capitale di una società semi nomade, fondata dal Re Menelik nel 1881, suddivisa in aree di influenza dei vari Ras della Corte Imperiale, con alcune abitazioni di stile occidentale per le nuove élites locali, pezzi costruiti da architetti italiani su modelli ufficiali del regime fascista (restano famosi i voli in aereo di Cesare Valle per immaginare la città futura), alcuni interventi di architetti francesi ed il piano di Abercrombie nell’immediato dopoguerra. Addis era una lezione vivente per una cultura architettonica e urbanistica italiana ancora tutta centrata su quello che avveniva nello stivale nonostante il mondo intorno a noi fosse cambiato e noi per molti aspetti fossimo già in quel mondo. La frammentazione spaziale dell’insediamento corrispondeva anche ad un’altra caratteristica della struttura sociale della capitale dell’Etiopia. Nella città abitavano immigrati appartenenti alle diverse etnie presenti nel paese che tendevano a tenersi separate tra loro avendo culture e modi di vita diversi quando non rapporti conflittuali.

Ma chi di queste cose parlava nelle nostre aule universitarie e nei primi centri di ricerca e regionale?

Nonostante le violenze e le stragi del periodo coloniale (si pensi alle uccisioni di massa ordinate da Graziani, Governatore italiano dell’Etiopia) i rapporti tra singole persone dei due paesi erano rimasti corretti e spesso amichevoli, questo per motivi diversi tra cui i rapporti nati tra ragazzi italiani, mandati a fare una guerra senza senso e coetanei etiopici, contadini come loro. Ad Addis, la prima volta che ci andai, fui portato ad un piccolo cimitero di guerra italiano, dove c’era la tomba di un parente di uno dei componenti della missione. Era tenuta molto bene e i custodi erano veterani dell’esercito coloniale, una singolare isola di tolleranza e rispetto reciproco. La visita ai cimiteri e il rispetto per alcune opere di architetti italiani erano dimostrazioni di affetto tra persone con parti della loro cultura in comune, spesso praticati dall’imperatore Haile Selassiè cacciato dai fascisti, ma alla fine risultato vincitore.

Ogni tanto nel corso delle nostre ricerche sul territorio ci veniva segnalato che in un villaggio vicino c’era un italiano che faceva il meccanico o allevava animali. Erano vecchi e autorevoli capi di grandi famiglie locali, avevano disertato da giovani soldati, erano stati accolti dai parenti della ragazza di cui si erano innamorati e fatto nel tempo un gran numero di figli, diventando amati patriarchi e non più stranieri. Nei nostri consolati se ne aveva traccia. Questi vecchi disertori si presentavano per avere notizie dei loro paesi e magari di lontani parenti. Venivano invitati a lasciar perdere: i loro nomi apparivano spesso nei monumenti ai caduti dei loro paesi in Italia e figuravano tra gli eroi morti in battaglia (meglio dimenticare). D’altra parte lo stesso Imperatore Haile Selassiè, nemico in guerra dell’Italia, era poi di fatto amico ed estimatore di vari italiani, tra cui l’Architetto Arturo Mezzedimi, che aveva operato a lungo in Eritrea, a cui aveva dato l’incarico di progettare e realizzare la sede dell’Unione Africana.

Negli anni ’80 in Etiopia c’erano molti eritrei che avevano lasciato il loro paese per scelta politica (i rapporti tra Eritrea e Etiopia sono sempre stati difficili per una grande varietà di motivi, portando a continue e lunghissime guerre; non per niente Abiy Ahmed Ali, attuale presidente dell’Etiopia, ha avuto il Premio Nobel per la pace proprio per aver chiuso una guerra trentennale). Molti di questi espatriati erano parte dell’élite intellettuale del paese, i più vecchi parlavano bene in italiano visto il lungo rapporto coloniale dell’Italia con l’Eritrea (si pensi all’Asmara, Patrimonio dell’Umanità UNESCO, anche grazie all’essere ricca di architetture razionaliste italiane); anche nelle conversazioni familiari ricorrevano spesso battute e modi di dire italiani (con accenni razzisti nei confronti degli etiopici cristiani, poco amati dagli eritrei musulmani).

 

Alcune questioni di fondo

I molti problemi che dovevamo affrontare erano particolarmente complessi e difficili, sia a causa della loro natura sia per le caratteristiche della nostra cultura urbanistica e architettonica. Addis era apparentemente una città senza forma, fatta di pezzi slegati tra loro, che sembravano appoggiati senza una logica chiara sulle pendici di varie colline e nelle pianure sottostanti. Come diceva un poco benevolo detto eritreo: mentre Asmara era una vera, anche se relativamente piccola città, Addis era rimasta solo un grosso villaggio. Come si poteva dar struttura e forma attraverso un piano regolatore a un insediamento urbano del genere? Un insediamento urbano così disarticolato, le reti delle infrastrutture e degli impianti tecnici, i sistemi di trasporto, la distribuzione dei servizi, risultano molto più difficili da realizzare, progettare e gestire in modo efficiente. Lo stesso vale per vari aspetti della vita sociale e della sicurezza.

Un secondo ordine di difficoltà è creato da una serie di valori fondativi della cultura etiopica. La concezione dello spazio, del suo uso, del rapporto con il costruito e di spazi diversi tra loro è ancora legata alle tradizioni di seminomadismo della società etiopica con tutte le declinazioni possibili. L’idea di tessuto urbano e con le caratteristiche e il significato che società stanziali danno a questa componente della città non esiste. Altrettanto vale per la conservazione di cosa resta e deve essere mantenuto e cosa invece può dissolversi. È il principio della “cera e oro” e il concetto di Kené, presente in molti aspetti della tradizione culturale etiopica. È inutile sottolineare quanto una concezione così fluida del contesto fisico e territoriale metta in crisi molti dei principi su cui si fondano progettazione urbanistica e strumenti di pianificazione di origine occidentale. Come risolvere la frammentazione spaziale di Addis se l’idea stessa di tessuto di rete strutturale di contesto non rientra nel suo linguaggio? Tentare di dare una risposta a questo problema mi impegnò molto. Trattai della questione nel saggio dal titolo ‘’Senza rete. Problemi del fare urbanistica in contesti estranei’’, pubblicato nel volume di scritti in onore di Giuseppe Samonà già citato.

Il terzo grosso problema era identificare e definire il ruolo che una città come Addis Abeba poteva avere nel futuro sia rispetto all’Etiopia, uno dei più importanti paesi africani, che dell’intero contiene. In quel momento storico l’Etiopia giocava un ruolo importante con il suo governo di sinistra nel confronto USA-URSS nel continente africano. Questo da un lato le dava un notevole potere contrattuale, ma dall’altro le produceva in partenza capacità di attirare imprese e grandi investimenti del mondo capitalista. L’Italia aveva fatto un notevole investimento in capitale umano e attrezzature per realizzare il master plan; possibili presenze di imprese italiane in grandi infrastrutture erano prevedibili, ma certamente era inimmaginabile una città snodo di importanti interessi multinazionali. Ovviamente non era affatto facile gestire una macchina del genere che contemporaneamente era al centro di interessi e pressioni politiche dei due governi coinvolti e delle loro rispettive esigenze e attese.

Su come il piano dovesse essere, cosa in particolare dovesse considerare come prioritario c’erano ovviamente mote diverse idee e proposte. Alcune erano di natura ideologica e corrispondevano a modelli di città dal forte disegno architettonico e la chiara forma fisica propria della cultura italiana, esemplificata dalle parti sviluppate negli anni di dominazione coloniale o rappresentati dall’asse “tipo Champs Elysees” dal municipio alla stazione ferroviaria, fatto dai francesi nel dopoguerra. Questa idea era stata presente nelle proposte di Fiorentino, rifiutate dagli etiopici che ancora serpeggiava nelle scuole di architettura italiane che avevano perso la gara per l’incarico del piano. Era ovviamente condivisa da alcuni interessi di costruttori italiani come l’Impresa Salini che ad Addis aveva di recente costruito un insieme residenziale chiamato Sal Cost.

Un’altra idea di piano era quella espressa dai tecnici della DDR che lavoravano su alcuni problemi di settore. Avevano l’incarico di riorganizzare le attività commerciali che in larga misura si svolgevano in mercati all’aperto. Addis aveva una straordinaria concentrazione di tali funzioni nell’enorme area centrale di Merkato, uno dei più grandi mercati all’aperto dell’Africa. Una struttura del genere, per quanto vivace fosse non era certamente ottima per una città come Addis; in più appariva contraria all’idea di ordine e uniformità propria del modello comunista della DDR. Così attraverso la proposta di realizzare una rete regolare di mercati del quartiere si suggeriva un piano di riordino e irrigidimento complessivo attraverso il master plan. Questo emergeva negli incontri con i tecnici della DDR prodighi di consigli. Infine, da parte di altri, in organismi internazionali si faceva riferimento ai principi della pianificazione anglosassone e semplificata dal piano di Abercrombie.

Pur essendo attenti a queste esigenze e suggerimenti si decise di procedere altrimenti partendo proprio dalla specifica identità di Addis Abeba, tra cui proprio l’essere “un grande villaggio”. Si decise di progettare in modo diverso per due ragioni principali: la prima era l’esperienza che alcuni dei componenti avevano fatto in occasione di ricerca e lavoro precedenti. L’esperienza di pianificazione che avevo fatto vent’anni prima in Libia e poi il lavoro svolto a Fez e a Kinshasa mi avevano insegnato ad essere dubbioso sull’uso dei modelli di piano prodotti dall’Occidente e imposti dal potere coloniale belga, francese, inglese o italiano. Altrettanto valeva per l’approccio USA in America Latina attraverso gli interventi della Banca Mondiale. Questi dubbi erano condivisi da altri del gruppo, anche se non da tutti. Valeva la pena di riflettere su altre ipotesi e suggestioni; tanto la struttura fisica della città e del suo contesto territoriale che la vita della società locale non apparivano facilmente adattabili a modelli precedenti importati da altri luoghi e creati per altre situazioni. In sostanza, era quindi meglio partire da un’attenta lettura del sito e di quanto c’era e vi avveniva che ricorrere a modelli interpretativi.

Il secondo elemento a favore di questo procedere per successive conoscenze era condiviso anche dal mio omologo etiopico, Tekeste Adherom. Tekeste era interessato a questo modo di ricercare e definire le soluzioni; rispettava l’identità della cultura locale e cercava di elaborare una strategia di piano basata su questa specificità e non su modelli estranei. Tekeste Adherom, oltre alla sua opinione personale, di fatto trasmetteva la posizione di buona parte del governo etiopico e della città e questo non poteva a sua volta che essere approvato dalla cooperazione italiana e dalla nostra ambasciata ad Addis Abeba. Anche i dirigenti più accorti della Fosweco, la società che ci faceva da supporto tecnico e gestionale, si mostravano soddisfatti di un approccio attento, riflessivo e tutto sommato promettente. In sostanza, il fatto che un gruppo di giovani intellettuali avesse scelto di considerare il piano che doveva fare non come frutto di proprie geniali trovate e ideologie precostruite, ma frutto di interazione tra una ricca e complessa situazione fisica e la società era un risultato inaspettato. I ragionamenti elaborati all’interno di un ufficio del piano molto composito, le istanze di identità specifica poste dalla classe politica che gestiva l’intero processo erano di per sé un fatto importante e nuovo sia dal punto di vista metodologico e dei contenuti; proprio la prova che “la città è un bene comune”.

Alla fine, non per nulla il master plan fu approvato con giudizio totalmente positivo dal governo etiopico.

 

La struttura dell’AAMPO

L’ufficio del piano era stato concepito come una struttura al tempo stesso in grado di produrre precise soluzioni tecniche, ma anche di formare nuove competenze e nuovi quadri, per la successiva gestione del processo di pianificazione. Questo approccio era giustificato dalla consapevolezza che Addis Abeba aveva numerosi problemi non facili da risolvere: problemi che richiedevano, come si è visto, strategie e metodi di analisi, di elaborazioni di proposte e di approvazione di soluzioni abbastanza complesse. Il gruppo di lavoro era di fatto paritetico nella composizione, con due corresponsabili di gestione del piano, me rettore dell’IUAV e Techeste Ahderom, ex rettore dell’Università dell’Asmara, esperti italiani ed etiopici di specifici problemi e giovani laureati di entrambi i paesi che sviluppavano le ricerche, le proposte, le procedure di realizzazione dei progetti. Questo gruppo era composto da diverse decine di persone.

Tra i giovani docenti e ricercatori alcuni avevano lavorato in Africa Settentrionale e vedevano questa nuova occasione africana con attenzione. Era un piccolo nucleo di persone che poteva garantire impegno ed entusiasmo oltre che un approccio culturalmente e scientificamente corretto ai problemi urbanistici di Addis, ma non bastava per realizzare e far funzionare in modo adeguato un grosso ufficio di piano. Un organismo che doveva lavorare per un paio d’anni, redigere il master plan, ma anche formare un buon numero di esperti tanto italiani che etiopici, in modo da garantire qualità e innovazione nei processi successivi. Alcuni di loro si innamorarono, si sposarono, ebbero figli; e da allora la loro vita è stata un po' qui e un po' in Africa, altri impararono cose che poi sono servite loro per diventare autorevoli studiosi.

Chi era Techeste Ahderom? Era il Rettore dell’Università di Asmara venuto in Etiopia perché in disaccordo politico con il governo eritreo. Molto bravo, metteva in gioco le sue idee pacifiste, il suo futuro, la collaborazione tra umani. Comunque, nonostante gli ottimi rapporti nati soprattutto tra noi due era un osso duro, un eritreo abituato ai difficili rapporti tra il Marocco e il Corno d’Africa. Ogni tanto litigavamo ma alla fine lo sforzo comune era riuscire a far sì che fosse utile, e che fosse anche intellettualmente un’esperienza in avanti. La vita dell’ufficio era vivace e complessa; di fatto un luogo di confronto, collaborazione, crescita insieme e talvolta, com’è naturale, anche di scontro. Oltre a Techeste Ahderom, e me, che eravamo al tempo stesso responsabili delle due componenti nazionali del progetto e dell’intero gruppo di lavoro (io avevo anche un mio vice non potendo essere permanentemente presente a Addis), c’erano alcuni esperti con competenze diverse, specialisti di alcuni settori, ricercatori e tecnici esecutivi, impegnati per tutta la durata del lavori e residenti a Addis (alcuni italiani anche con la famiglia); un certo numero di esperti, alcuni anche con competenze specifiche per periodi brevi.

L’ufficio del piano era così di fatto un luogo di formazione in cui si imparava ad affrontare problemi nuovi, spesso difficili e a farlo collaborando con altri anche di cultura diversa. Non per nulla da questa scuola sono poi usciti cinque professori ordinari di urbanistica e vari professori associati e ricercatori di università italiane e un notevole numero di docenti e ricercatori etiopici.

 

Cosa ci insegna l’esperienza dell’AAMPO

Per noi la lezione fu molto importante, anche perché in questi due anni di lavoro avevamo imparato anche altre cose. La prima era stata accettare le critiche – anche quelle più infondate e strane – come un’opportunità per riflettere e far meglio. Techeste veniva da una società come quella eritrea e del Mar Rosso, abituata da sempre alla contrattazione in base alla quale, per contrattare con forza e speranza di successo, bisogna mettere la controparte in condizioni di difficoltà. Di conseguenza, quando voleva tenessimo conto di particolari esigenze operative o di contenuto non del tutto condivise, partiva all’attacco su una cosa qualsiasi accusandoci di nefandezze o inadempienze. All’inizio ci restavamo male, ci arrabbiavamo; si litigava anche duramente e poi si cercava una soluzione, che in genere era molto semplice. Una volta, dopo un assolutamente ingiustificato attacco a uno dei nostri più seri ricercatori, fino a farlo piangere per la palese falsità delle accuse, presi Techeste da parte e gli chiesi ragione di tanta stupida cattiveria; mi guardò sorpreso, come se non avesse fatto nulla e mi disse che stimava chi pochi minuti prima aveva accusato d’essere un cialtrone e con candore disse: “ma da noi si fa così”. Da allora si moderò, ma anche da parte nostra non si dette più tanto peso a quello che diceva gridando.

Di fatto Techeste Ahderom era ed è una persona del tutto pacifica: è un Bahai, la religione indiana per la non violenza. Imparammo così a capire meglio anche noi stessi e i nostri comportamenti culturali che ci sembravano ovvi, ma agli altri spesso appaiono negativi e pericolosi. Un’altra cosa che si imparò fu di riuscire a far bene le cose, a capire la costanza di certi processi, a identificare possibili soluzioni anche in assenza di molti dati dettagliati e numerose informazioni attendibili. Certamente non si può teorizzare che dati buoni e ricchi siano superflui, ma la carenza di informazioni costringe a far lavorare di più e più attentamente il cervello, a non essere dogmatici per eccesso di sicurezza e tutto questo è molto positivo anche quando si ha sottomano una massa di dati opulenta, modelli ineccepibili che sono falliti per non aver capito o voluto capire cosa stava succedendo su una scala territoriale più ampia, a processi politici in corso, a mutamenti climatici profondi.

Infine, c’è una terza cosa capita dall’esperienza di Addis: il fatto che nonostante la distanza, la cultura e molte abitudini diverse oltre alla lingua parlata, siamo di fatto eguali e stando insieme e collaborando su problemi importanti impariamo a capirci e a rispettarci reciprocamente. Anche questo fu occasione di un altro mio scritto di quegli anni intitolato ‘Addis siamo noi’.

Ripensando all’esperienza dell’AAMPO, anche di quanto ho poi fatto in giro per il mondo (e ne ho fatte tante) mi sembra che gli aspetti più importanti dal punto di vista teorico e metodologico siano vari, interessanti e tuttora validi. Un primo contributo è la ricerca e l’elaborazione dei principi su cui fondare il progetto e il processo di piano sulle specifiche caratteristiche del luogo e le esigenze della società che ci vive e non su modelli e teorizzazioni precedenti. Partendo da una attenta e approfondita lettura delle varie componenti di Addis e dei loro problemi, per modesti che fossero, si arriva a cogliere l’essenza stessa di quell’habitat e a fornire le necessarie, corrette indicazioni per migliorarlo, svilupparlo, conservarlo. Le terapie generiche di massa non curano bene alcun paziente così come le cure standard per crescere robusti, spesso fanno più guasti che benefici. Purtroppo, quanto è avvenuto a Addis Abeba negli ultimi anni non ha tenuto conto di questa lezione.

Un secondo importante dato è l’aver indicato come le diverse culture influenzano in modo profondo, anche se talvolta, non in forma evidente, concezione e modi di usare lo spazio, il modo di abitare, le forme di relazione tra persone, il rapporto con la natura e così via. Questo segna profondamente caratteristiche, forme di utilizzo, significato delle componenti di un habitat umano e il suo funzionamento. L’indifferenza per il contesto in cui si colloca un edificio proprio di una società originariamente nomade o seminomade non è un dato marginale da cancellare nel corso del tempo, ma è un valore di diversità che stimola a cercare nuove soluzioni. Lo stesso vale per le diverse concezioni dello spazio pubblico o per la conservazione della memoria del passato. Nelle immense aree urbane che stanno invadendo il pianeta, la compresenza di profonde diversità culturali, sarà un dato di fatto e non un elemento negativo da cancellare a tutti i costi.

Sono passati quarant’ anni da quando iniziò l’attività dell’AAMPO. Quarant’anni sono un’era geologica per un piano urbanistico. Questo è ancora più vero se riguarda una grande e complessa città come Addis in un periodo di grandi trasformazioni politiche, economiche e sociali dell’Etiopia e del continente africano. Poco dopo aver consegnato il piano approvato pienamente dal governo ci fu un profondo mutamento politico e Mengistu Haile Mariam dovette lasciare il paese. Seguirono anni difficili in cui profondi cambiamenti della politica etiopica modificarono la collocazione internazionale del paese e aprirono la porta a nuove alleanze con nuovi obiettivi. L’Etiopia divenne una pedina interessante della strategia di penetrazione in Africa di nuovi paesi come la Cina e la Russia ma anche di investimenti capitalistici e del mondo arabo. Questo ha prodotto nel corso di vari decenni nuove opere, nuovi investimenti, nuovi tipi di attività.

Nonostante queste profonde trasformazioni, alcune proposte del piano e alcuni degli indirizzi su cui era basato, sono sopravvissuti e restano ancora validi per politiche di sviluppo sostenibile. In questi anni comunque Addis ha continuato a crescere e oggi si discute di come sarà e che problemi porrà la futura metropoli. È evidente che Shaggar City dovrà affrontare problemi del tutto nuovi sia per la sua dimensione, struttura fisica, composizione sociale e base economica; dovrà anche tener conto delle nuove situazioni ambientali. Molte idee e proposte per questa nuova e importante fase della storia urbana e dell’Etiopia e per altre esperienze africane, saranno elaborate e suggerite da ragazzi che lavorarono all’AAMPO e impararono a capire e ad affrontare, in modo intelligente e non programmatico, i loro problemi. In fondo finanziare da parte della Cooperazione Italiana l’elaborazione del master plan e impegnarsi da parte dello IUAV nella sua elaborazione furono un buon investimento.

Altro insegnamento importante viene dal metodo seguito nell’elaborazione del piano. La composizione mista del gruppo di lavoro a tutti i livelli, faceva del confronto dialettico tra due culture diverse l’elemento portante e produttivo di proposte e soluzioni. A questo si aggiungevano i momenti di confronto più formale tra le posizioni ufficiali della componente etiopica destinataria del piano e quella italiana più direttamente responsabile della parte tecnica. Spesso su alcune scelte non c’era un immediato accordo, ci si arrivava dopo discussioni lunghe e accese. Questa forte interazione tra le parti portatrici di interessi non sempre coincidenti ed espressione di ruoli diversi nel processo di elaborazione del piano, di fatto garantiva un prodotto solido e ben verificato; un risultato che molto spesso piani poco sottoposti al vaglio di pareri diversi non raggiungono.

Infine, è importante il ruolo educativo di un’esperienza del genere. Fa effetto sentirsi dire, dopo tanti anni, da un importante architetto etiopico: “non so se si ricorda di me, sono il ragazzo che colorava le tavole del master plan; o di leggere le parole affettuose dell’altro responsabile del progetto con cui non facevamo che litigare. Ed è inutile ricordare che quaranta anni dopo Corrado Diamantini e Domenico Patassini che avevano scritto un libro poco dopo la conclusione del lavoro, hanno avuto la forza di ricordare una storia così complessa e importante. A quarant’anni di distanza suscitano nuovi entusiasmi e aprono a nuove prospettive di sviluppo di un “grosso villaggio” divenuto ormai una grande e complessa metropoli.

Paolo Ceccarelli

 

 

 

N.d.C. - Paolo Ceccarelli, professore emerito di Urbanistica, è titolare della cattedra UNESCO in Pianificazione urbana e regionale per lo sviluppo locale sostenibile dell'Università di Ferrara. È Presidente dell’International Laboratory of Architecture end Urban Design, ILAUD, con cui sta realizzando una serie di programmi di ricerca/formazione in vari paesi del mondo. Di recente in Cina ha condotto uno studio di rivitalizzazione di aree dismesse nel centro di Shangay finalizzato alla produzione agricola urbana con la partecipazione di pensionati e altri soggetti marginali. In Marocco è stato sviluppato un progetto per la sopravvivenza dell’Oasi storica di Figuik colpita dalla grave siccità dell’area Sahariana. In Italia sta lavorando a un progetto sulla crisi climatica della Val Padana che coinvolge vari dipartimenti delle Università presenti nell’area del bacino del Po; il progetto è in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna. Sono inoltre allo studio progetti relativi al territorio agricolo in Cina e al risanamento urbano ad Addis Abeba in Etiopia. Negli anni passati con la Cattedra UNESCO ha dato vita alla Mediterranean UNESCO Chairs Network, MUNCH e al Centre for Sustainable Haritage Conservation SHeC. Ha lavorato a lungo in America Latina: in Brasile, a Curitiba e nel Parana, collaborando con Jaime Lerner; in Cile ha Valparaiso, nell’area del vecchio porto; in Uruguay per il piano strategico della Ciudad Vjea e in Equador a Quito-Guappulo. Negli anni 1980 è stato co-direttore dell’AAMPO responsabile del Master Plan di Addis Abeba. Dal 2005, in qualità di presidente dell’ILAUD ha organizzato programmi di ricerca e workshop a Buenosaires, Shahjanabad-Old Delhy, Curitiba Guangzhou, Suzou, Kanazawa e Shangay, Figuik.

In Italia ha condotto per le Partecipazioni Statali numerose ricerche e progetti su problemi di sviluppo del Mezzogiorno: acciaierie di Taranto, Alfa Sud a Pomigliano d’Arco, porto di Gioia Tauro. È stato responsabile dei PRG di Perugia e di Fermo, di Massa Marittima; del Piano strategico di Lucca, del Piano del centro storico di Vicenza. Ha lavorato al Piano paesaggistico della Regione Valle d’Aosta e al piano della provincia autonoma di Trento. Ha condotto vari studi territoriali per la Regione Lombardia e la provincia di Parma.

Negli anni 90 è stato Preside della nuova facoltà di Architettura dell’Università di Ferrara, dopo essere stato negli anni 80 rettore dello IUAV. Ha insegnato Urbanistica al Politecnico di Milano (1979-1981). È stato presidente della Red Alvar Patrimonio Y Proyecto che riuniva facoltà di Architettura dell'America Latina ed europee, ed è stato più volte visiting professor al Massachussets Institute of Technology e all'Università di California, Berkeley e Santa Cruz; ha svolto attività di ricerca presso il CES della Harvard University e il Joint Center for Urban Studies Harvard University e MIT. Ha insegnato alla Waseda University di Tokyo, in numerose Università europee e ha tenuto lezioni e seminari in università latinoamericane, africane, asiatiche e australiane.

Tra i suoi libri: con Miro Allione e Bernardo Secchi, I piani intercomunali. 1, Pianificazione economica e pianificazione urbanistica (ILSES, 1962); con Giancarlo De Carlo e Elio Tarulli, Studio dell'assetto e dei caratteri della proprietà fondiaria pubblica e privata nell'area milanese. Note metodologiche per il rilevamento dei caratteri patrimoniali e urbanistici delle aree (ILSES, 1963); (a cura di) con Bruno Gabrielli e Renato Rozzi, Traffico urbano: che fare? Problemi e soluzioni nell'esperienza degli Stati Uniti, dell'Inghilterra, della Francia e dell'Italia (Marsilio, 1968); (a cura di), La costruzione della città sovietica 1929-31 (Marsilio, 1970); (a cura di), con Francesco Indovina, Risanamento e speculazione nei centri storici(FrancoAngeli, 1974); (a cura di), Ideologia e tecnica dell'organizzazione razionale del territorio (FrancoAngeli, 1975); La crisi del governo urbano. Istituzioni, strutture economiche e processi politici nelle città del capitalismo maturo (Marsilio, 1978); con Techeste Ahderom, Addis Ababa Master plan project. Project final report, Addis Ababa (Fosweco - IUAV, 1986); I collegi universitari (ETAS, 1987); (a cura di), con Carlo Monti e il Servizio riqualificazione urbana della Regione Emilia-Romagna, Riqualificazione urbana in Emilia-Romagna. Esperienze e linee di azione futura (Alinea, 2003); con Gastone Ave e Federico Bervejillo, La rivitalizzazione della città vecchia e centro di Montevideo. Studio di prefattibilità (IILA, 2003); con Emanuela De Menna, La ciudad histórica como oportunidad. Recuperación urbana y nuevos modelos de desarrollo en América Latina, (Instituto italo-latino americano, 2006); con Emanuela De Menna, Conservacion del patrimonio. Orientaciones de las Escuelas de Arquitectura en America Latina (Alinea, 2006); con Gastone Ave, La pianificazione strategica partecipata in Italia, a cura di Giuseppe Gioioso (Formez, 2006); con Etra Occhialini, Jericho Master Plan. A Model for Sustainable Development(Cooperazione Italiana per lo Sviluppo, 2014); Yesterday-Tomorrow. 50 years of urban conservation and innovation in Italy (China Architecture and Building Press, 2015); con Ada Becchi, Cristina Bianchetti, Francesco Indovina, La città del XXI secolo. Ragionando con Bernardo Secchi (FrancoAngeli 2015); con Giulio Verdini (a cura di), Creative Small Settlements. Culture-based solutions for local sustainable development (XJTLU, 2016); Global and Local Challenges in Non-Western Heritage Conservation, Guest editor, special issue of "Built Heritage", Vol. n° 3, September 2017.

Per Città Bene Comune ha scritto: Rappresentare per conoscere e governare (2 febbraio 2018); De Carlo a Catania: una lezione per i giovani (2 novembre 2018).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

15 DICEMBRE 2023

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Annamaria Abbate
Gilda Berruti
Elena Bertani
Luca Bottini
Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

iniziativa sostenuta da:
DASTU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Conferenze & dialoghi

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2021: V. Magnago Lampugnani | G. Nuvolati
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

 

 

Gli incontri

2021: programma/1,2,3,4
2022: programma/1,2,3,4
2023: programma/1,2,3,4
 
 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori
2019: Alberto Magnaghi
2022: Pier Luigi Cervellati

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021: online/pubblicazione
2022: online/pubblicazione
2023:

A. Delera, Una periferia metropolitana (privata), commento a: A. Di Giovanni e Jacopo Leveratto (a cura di), Un quartiere mondo (Quodlibet, 2022)

A. Grimoldi, Scienze storiche e dell'architettura, commento a: Abitare da principe (Gangemi, 2020)

G. C. Maestri, Lo spazio e le forme, commento a: C. Torricelli, Dell’organizzazione dello spazio (Nottetempo, 2023)

L. Tozzi, Milano, un'altra storia, commento a L. Tozzi, L’invenzione di Milano (Cronopio, 2023)

G. Lanza, Città (e territori) oltre l'automobile, commento a: P. Coppola, P. Pucci e G. Pirlo (a cura di), Mobilità & città. Verso una post car city (il Mulino, 2023)

L. Zevi, Verso una sacralità non convenzionale, commento a: A. I. Lima, La dimensione sacrale del paesaggio (Palermo University Press, 2023)

F. Adobati, Conoscere attraverso il progetto, commento a: E. Colonna Di Paliano, S. Lucarelli, R. Rao, Riabitare le corti di Polaggia (FrancoAngeli, 2021)

M. C. Tosi, Urbanistica? Raccontiamola in positivo, commento a: A. Clementi, Alla conquista della modernità (Carocci, 2021)

A. Petrillo, Satellite: cronaca di un fallimento, commento a: A. Di Giovanni e J. Leveratto, (a cura di), Un quartiere-mondo (Quodlibet, 2022)

P. Colarossi, Le città sono fatte di quartieri e di abitanti, commento a: L. Palazzo, Orizzonti dell’America urbana (Roma TrE-Press, 2022)

M. Agostinelli, Sufficienza? Un antidoto alla modernità, commento a: W. Sachs, Economia della sufficienza (Castelvecchi, 2023)

A. Lazzarini, I luoghi sono un'enciclopedia, commento a: G. Nuvolati (a cura di), Enciclopedia sociologica dei luoghi (Ledizioni, 2019-2022)

G. Laino, Napoli oltre i luoghi comuni, commento a: P. Macry, Napoli. Nostalgia di domani (il Mulino, 2018)

G. Zucconi, Complessità nella semplicità, commento a: G. Ciucci, Figure e temi nell’architettura italiana del Novecento (Quodlibet, 2023)

R. Tognetti, Altre lingue per il "muratore che ha studiato latino", commento a: L. Crespi, Design del non-finito (Postmedia books, 2023)

M. A. Crippa, Il paesaggio (in Sicilia) è sacro, commento a: A. I. Lima, La dimensione sacrale del paesaggio (Palermo University Press, 2023)

A. Petrillo, Dove va Milano?, commento a: L. Tozzi, L’invenzione di Milano (Cronopio, 2023)

A. Clementi, Cercasi urbanista responsabile, commento a: A. Belli, G. Belli, Luigi Piccinato (Carocci, 2022)

F. Visconti, L'ordine necessario dell'architettura, commento a: R. Capozzi, Sull’ordine. Architettura come cosmogonìa (Mimesis, 2023)

V. De Lucia, Natura? La distruzione continua..., commento a: A. Cederna, La distruzione della natura in Italia (Castelvecchi, 2023)

P. C. Palermo, Urbanistica? Necessaria e irrilevante, commento a: A. Clementi, Alla conquista della modernità (Carocci, 2020)

C. Merlini, L'insegnamento di un controesempio, commento a: A. Di Giovanni, J. Leveratto, Un quartiere mondo (Quodlibet, 2022)

I. Mariotti, Pandemie? Una questione anche geografica, commento a: E. Casti, F. Adobati, I. Negri (a cura di), Mapping the Epidemic (Elsevier, 2021)

A. di Campli, Prepararsi all'imprevedibile, commento a: S. Armondi, A. Balducci, M. Bovo, B. Galimberti (a cura di), Cities Learning from a Pandemic (Routledge, 2023)

L. Nucci, Roma, la città delle istituzioni, commento a: (a cura di) A. Bruschi, P. V. Dell'Aira, Roma città delle istituzioni (Quodlibet, 2022)

G. Azzoni, Per un'etica della forma architettonica, commento a: M. A. Crippa, Antoni Gaudì / Eladio Dieste. Semi di creatività nei sistemi geometrici (Torri del vento, 2022)

S. Spanu, Sociologia del territorio: quale contributo?, commento a: A. Mela, E. Battaglini (a cura di), Concetti chiave e innovazioni teoriche della sociologia dell’ambiente e del territorio del dopo Covid-19 ("Sociologia urbana e rurale", n. mon. 127/2022)

F. Camerin, La dissoluzione dell'urbanistica spagnola, commento a: M. Fernandez Maroto, Urbanismo y evolución urbana de Valladolid (Universidad de Valladolid, 2021)

M.Bernardi, Il futuro è nel glocalismo, commento a: P.Perulli, Nel 2050. Passaggio al nuovo mondo (il Mulino, 2021)

F.Ventura, Edifici, città e paesaggi biodegradabili, commento a: V. De Lucia, L’Italia era bellissima (DeriveApprodi, 2022)

M. Ruzzenenti, La natura? Un'invenzione dei tempi moderni, commento a: B. Charbonneau, Il Giardino di Babilonia (Edizioni degli animali, 2022)

G. Nuvolati, Il design è nei territori, commento a: A. Galli, P. Masini, I luoghi del design in Italia (Baldini & Castoldi, 2023)

C.Olmo, Un'urbanistica della materialità e del silenzio, commento a:C. Bianchetti, Le mura di Troia (Donzelli, 2023)

E. Scandurra, Dalle aree interne un'inedita modernità, commento a: L. Decandia,Territori in trasformazione (Donzelli, 2022)

M. Brusatin, Parlare al non-finito & altro, commento a: L. Crespi, Design del non-finito (Postmedia, 2023)

H. Porfyriou, L'urbanistica tra igiene, salute e potere, commento a: G. Zucconi, La città degli igienisti (Carocci, 2022)

G. Strappa, Ogni ricostruzione è progetto, note a partire a: E. Bordogna, T. Brighenti, Terremoti e strategie di ricostruzione (LetteraVentidue, 2022)

L. Bifulco, Essere preparati: città, disastri, futuro,
commento a: S. Armondi,
A. Balducci, M. Bovo,
B. Galimberti (a cura di), Cities Learning from a Pandemic: Towards Preparedness (Routledge, 2022)

A. Bruzzese, Una piazza per ogni scuola, commento a: P. Pileri, C. Renzoni, P. Savoldi, Piazze scolastiche (Corraini, 2022)

C. Sini, Più che l'ingegnere, ci vuole il bricoleur, commento a: G. Pasqui, Gli irregolari (FrancoAngeli, 2022)

G. De Luca, L'urbanistica tra politica e comorbilità, commento a: M. Carta, Futuro (Rubbettino, 2019)

F. Erbani, Una linea rossa per il consumo di suolo, commento a: V. De Lucia, L’Italia era bellissima (DeriveApprodi, 2022)

F. Ventura, L'urbanistica fatta coi piedi, commento a: G. Biondillo, Sentieri metropolitani (Bollati Boringhieri, 2022)

E. Battisti, La regia pubblica fa più bella la città, commento a: P. Sacerdoti, Via Dante a Milano (Gangemi, 2020)

G. Nuvolati, Emanciparsi (e partecipare camminando), commento a: L. Carrera, La flâneuse (Franco Angeli, 2022)

P. O. Rossi, Zevi: cinquant'annidi urbanistica italiana, commento a: R. Pavia, Bruno Zevi (Bordeaux, 2022)

C. Olmo, La memoria come progetto, commento a: L. Parola, Giù i monumenti? (Einaudi, 2022); B. Pedretti, Il culto dell’autore (Quodlibet, 2022); F. Barbera, D. Cersosimo, A. De Rossi (a cura di), Contro i borghi (Donzelli, 2022)

A. Calafati, La costruzione sociale di un disastro, commento a: A. Horowitz, Katrina. A History, 1915-2015 (Harvard University Press, 2020)

B. Bottero, Città vs cittadini? No grazie, commento a: M. Bernardi, F. Cognetti e A. Delera, Di-stanza. La casa a Milano (LetteraVentidue, 2021)

F. Indovina, La città è un desiderio, commento a: G. Amendola, Desideri di città (Progedit, 2022)

A. Mazzette, La cura come principio regolatore, F. C. Nigrelli (a cura di), Come cambieranno le città e i territori dopo il Covid-19 (Quodlibet Studio, 2021)

P. Pileri, La sostenibilità tradita ancora, commento a: L. Casanova, Ombre sulla neve. Milano-Cortina 2026 (Altreconomia, 2022)

A. Muntoni, L'urbanistica, sociologia che si fa forma, commento a: V. Lupo, Marcello Vittorini, ingegnere urbanista (Gangemi, 2020)