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  Enzo Scandurra  
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DALLE AREE INTERNE UN'INEDITA MODERNITA'


Commento al libro di Lidia Decandia



Enzo Scandurra


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Parafrasando il libro di Anna Maria Ortese – Il mare non bagna Napoli – potremmo dire che il mare non bagna la Sardegna nonostante sia un’isola. Il mare, la Sardegna e i sardi l’hanno scoperto con l’arrivo del turismo diventato, nel tempo, di massa; prima di allora era una terra immobile, popolata da gente terragna. Gran parte della letteratura dedicata a questa isola è di natura tragica: Grazia Deledda con Canne al vento, Michela Murgia con Accabadora, Gavino Ledda con Padre padrone. Dice Vittorini in Sardegna come un'infanzia: “Tutta Tempio, tranne quella solitaria chiesa barocca, pare di duemila anni fa. Fosse una città di nuraghi sarebbe lo stesso” (Vittorini, p. 28). A questo immobilismo si abbandonavano anche i suoi abitanti che – sempre secondo Vittorini – “malgrado tutto, quando seduti sopra un sasso, meditano, assonnati, e nulla da fare li occupa, essi sono nella vita. Gli altri che lottano, no, se si lasciano occupare del tutto, nella loro coscienza, dalla lotta e dal moto, e non intendono altro piacere che quello del magazzino colmo” (Vittorini, p. 73).

Il libro di Lidia Decandia – Territori in trasformazione. Il caso dell’Alta Gallura (Donzelli, 2022) – è un affresco (ben oltre una semplice descrizione) intriso insieme di malinconia, di stupore e del fascino e amore spesso disincantato, di questo mondo composito, fiero, aspro, indomabile: la terra di Gallura, un tempo terra di sugheri, alberi che “somigliano all’ulivo, dal fogliame un po’ più canuto, un po’ più arruffato, ma hanno tronchi che sanguinano” (Vittorini, p. 25). Anche questo è un segno tragico di quella terra. Al centro si erge il Limbara che “occupa metà dell’universo intorno. E crepita, si affila al sole” (Vittorini, p.21); una montagna rosa, il colore, da lontano, del granito. Se è vero che ogni libro è un libro autobiografico, allora questo è un racconto appassionato di scoperta delle proprie origini, dalle quali l’Autrice costantemente fugge e poi ritorna come in un ciclo chiuso. Un racconto che è anche una scoperta di una nuova geografia e un’esperienza anch’essa nuova di sé. Come a dire: adesso vi racconto chi sono, come sto e “vedo” la mia Sardegna. Una fatica della scrittura che è al tempo stesso fatica autentica del vivere in questa terra.

Decandia come un bravo archeologo, sulle orme di Benjamin (che non cercava di capire il mondo ma, sempre, cosa stava per diventare il mondo), è affascinata, nel presente, dagli indizi di mutazioni possibili: “È lì che agiscono, anche se in maniera inapparente, le forze creative e generative che dischiudono nuove possibilità […] È lì che si aprono buchi, talvolta contraddizioni, conflitti e lacerazioni…” (p. 9). I “territori dell’osso”, secondo la felice definizione di Rossi Doria, sono quelli su cui ella posa lo sguardo, “lontano dalle invenzioni moderne come la Costa Smeralda, il magnete che ha prodotto, nelle aree interne, “buchi” di silenzio, sia pure densi di natura e di storia (p. 8). Così che i territori vuoti dell’Alta Gallura, ad uno sguardo attento ma anche non privo di affetto e amore, appaiono come “territori brulicanti, altamente diversificati e in continuo movimento nei quali sottotraccia spingono forze ed energie che non si vedono, ma che lavorano continuamente per produrre un incessante cambiamento” (p. 13).

Decandia crede in una “forza antica”, una sacralità che la sua terra possiede e che solo conoscendola possano dischiudersi possibili futuri non effimeri, non banali, verso forme nuove e inedite di modernità. Ma cosa autorizza l’Autrice ad affermare che in questi territori abbandonati da uno sviluppo perverso sulle coste, sono possibili mutamenti che potrebbero cambiare la loro storia futura, nonostante anche in questa terra sono all’opera poteri estrattivi e di spoliazione che tenderebbero a fare ciò che è già avvenuto in altri parti d’Italia? La Gallura ha una bassissima densità abitativa che l’ha preservata da insediamenti turistici devastanti e da grandi estensioni di superfici non produttive. Un territorio vuoto, insomma, che però presenta un grande patrimonio di biodiversità, una grande varietà di habitat e microhabitat terrestri e una fitta rete di acque sotterranee e superficiali. Quest’ultima ha consentito, diversamente da altre parti della Sardegna, una forma di abitare dispersa nella campagna condizionando le stesse forme di organizzazione del territorio.

L’altra qualità storica è quella rappresentata dagli stazzi il cui posizionamento nel territorio rispondeva a “precise logiche ambientali: le case venivano localizzate in luoghi sicuri e comodi in posizione baricentrica rispetto al fondo, in stretto rapporto con la dimensione del paesaggio che rappresentava la quinta naturale del sistema economico e produttivo” (p. 36). E sono propri gli stazzi, in questa cornice incantata di natura incontaminata, ad attirare quelli che l’Autrice chiama i “nuovi abitanti”, ex professionisti, manager, insegnanti stanchi di una vita artificiale svolta nelle grandi città diventate incubi urbani: “sciame di persone alla ricerca di nuove modalità di vivere ed abitare che riscopre in maniera inedita proprio quei buchi densi di natura e storia che lo spostamento della popolazione nel territorio aveva prodotto” (p. 52).

Di questi nuovi arrivi, di questi nuovi pionieri, l’Autrice raccoglie le voci e le esperienze che li hanno portati in questi luoghi abbandonati. Attraverso di loro viene alla ribalta una nuova etica ecologista volta alla ricerca di nuove forme di relazione tra uomo e ambiente. Così nel 1977, Fabrizio De Andrè insieme alla sua compagna Dori Ghezzi, si trasferisce in Sardegna e nel 1984 presenta alla comunità montana di Tempio la domanda per iscriversi all’albo dei produttori agricoli. Queste le sue parole: “Stando senza elettricità ho imparato a conoscere più cose di quanto avrei potuto apprendere con la luce e ho cominciato a capire che certe necessità potrebbero essere solo la proiezione di bisogni indotti” (De Andrè in Franchini, p. 37).

La catastrofe antropologica prodotta dall’invenzione della Costa Smeralda, nel modificare economie, mentalità e comportamenti, richiede ai nuovi arrivati di tentare di ricostruire proprio quelle forme perdute di sapere attraverso anche un lavoro sulla memoria storica. Questa tendenza al ripopolamento da parte di gente proveniente dalle grandi aree metropolitane di tutto il mondo non è senza contraddizioni: “mentre i vecchi pastori-contadini vivevano in un rapporto simbiotico con l’ambiente per supplire ai bisogni della vita quotidiana e strappare i mezzi per la stessa sussistenza, questi nuovi abitanti guardano questo ambiente non come luogo di produzione attraverso cui costruire una nuova economia, ma come paesaggio da contemplare o un luogo in cui ritrovare un benessere perduto grazie a un ritrovato rapporto con le componenti naturali” (p. 64).

Tra le speranze di rinascita di una nuova produzione economica, dopo decenni di abbandono e declino, ci sono quella vinicola e quella dell’olio, forme di produzione locali che “prendendo a prestito il successo ottenuto dalle aziende vitivinicole, stanno provando a dare risposta a nuovi bisogni che emergono e che sempre di più richiedono prodotti di qualità legati al territorio” (p. 169). Queste nuove produzioni sussumono antiche tradizioni e storie passate, come nel caso del vermentino Docg”. E proprio per questo – avverte Decandia – c’è il pericolo costante che i valori di una tradizione possano essere mercificati o banalizzati per estrarre valore da un patrimonio di tutti che poi può andare a finire nelle tasche di pochi” (p. 157). Accanto a queste nuove produzioni nascono occasioni festive e conviviali: “diversi sono i ‘calici di stelle’ estivi con degustazioni offerti per esempio a Tempio e a Berchidda; importante è il Vermentino Wine Festival che si svolge da qualche anno nella chiesa campestre di San Leonardo nel comune di Calangianus” (p. 163).

L’immenso lavoro di raccolta dati, interviste, documenti e perfino la produzione di un sito (Alta Gallura Atlante delle trasformazioni) svolto dall’Autrice sembrerebbe testimoniare che in queste aree interne “diventate marginali a seguito dello svuotamento della popolazione verso la costa determinato dalla costruzione di città delle vacanze, agiscano sottotraccia forze ed energie appena visibili ma che sono all’opera verso un cambiamento”. “Tombe dei giganti, nuraghi, chiese campestri, immerse in una natura che sembra aver ormai ripreso il sopravvento rispetto alla vita dell’uomo – scrive Decandia – stanno diventando oggetto di un rinnovato interesse mosso da un desiderio di passato che ha molte sfaccettature” (p. 308) e ambiguità.

Se questi processi in nuce fossero guidati e governati, si potrebbe aprire una nuova stagione per le aree interne della Gallura, e così per tante altre dell’Italia. Resta – quello di Decandia – un racconto politico di come potrebbero essere una rinascita delle aree interne che in questo contesto geopolitico sarebbero condannate ad essere abbandonate con grave danno dell’economia nazionale. Immense ricchezze ambientali, produttive, sociali, ora marginali, potrebbero essere messe in circolo contrastando l’agricoltura industriale, lo spopolamento dei piccoli centri, l’inautenticità della vita sulle coste per ricchi. La sola agricoltura industriale, per fare un esempio, contribuisce con una percentuale tra il 30-50% all'effetto serra, consuma il 70% delle risorse idriche del pianeta. Un consumo dissipativo che nasce da un modello preciso di agricoltura capitalistica, quella della Rivoluzione verde, inaugurata dagli USA. Un’economia, dunque, che distrugge le basi stesse della propria produttività. Purtroppo, governanti e politici appaiono insensibili a preziose storie dei territori come quella di Decandia; in tutt’altre faccende affaccendati loro stessi contribuiscono con la loro inerzia e ignavia al declino di immense risorse racchiuse.

Di fronte a questo grande e bellissimo affresco di una Sardegna che il turista distratto neppure percepisce, mi permetto di sollevare una sola obiezione, peraltro non di rilievo. Trasportata inevitabilmente da un grande amore per la sua terra natale, Decandia, alla fine del libro, si lascia andare a una ipotesi quantomeno azzardata e priva di robuste basi teoriche: la possibile nascita di una nuova forma di città, una città-natura immersa nell’ambiente che abolisce la storica contrapposizione tra città e campagna. È un’ipotesi che non toglie nulla alla grandezza del libro ma che rischia di attirare la sua attenzione su un bersaglio mobile ancorché improbabile. Se mi è consentito l’uso di una metafora biologica, è lo stesso errore che fece Darwin quando, in prossimità della pubblicazione del suo libro rivoluzionario, L’origine della specie (1859), volle introdurre, sconsigliato da quello che fu soprannominato “il suo mastino”, ovvero, Thomas H. Huxley, che l’evoluzione dovesse avvenire sempre in modo lento e graduale (Natura non facit saltus). Un particolare che non aggiungeva nulla alla sua grande teoria sull’evoluzione, ma che fu poi smentita successivamente (cento anni dopo) dalla moderna biologia evolutiva che ammetteva la variazione discontinua come forma di mutazione.

Enzo Scandurra

 

 

Bibliografia
G. Deledda, Canne al vento, Garzanti, 2002
G. Ledda, Padre padrone, Feltrinelli, 1975
M. Murgia, Accabadora, Einaudi, 2009
A. M. Ortese, Il mare non bagna Napoli, Adelphi, 2008
E. Vittorini, Sardegna come infanzia, Editoriale La Nuova Sardegna, 2004

 

 

N.d.C. - Enzo Scandurra, saggista, scrittore, già professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica, ha insegnato Sviluppo Sostenibile per l'Ambiente e il Territorio all'Università La Sapienza di Roma. Nello stesso ateneo è stato direttore del Dipartimento di Architettura e Urbanistica e coordinatore del Dottorato di Ricerca in Ingegneria per l'Architettura e l'Urbanistica. È tra i soci fondatori della Società dei Territorialisti/e onlus, membro del comitato scientifico della rivista “Luoghi comuni” e collabora a "il manifesto".

Tra i suoi ultimi libri: Vite periferiche (Ediesse, 2012); con Giovanni Attili (a cura di), Il pianeta degli urbanisti e dintorni (DeriveApprodi, 2012); con Giovanni Attili, Pratiche di trasformazione dell'urbano (FrancoAngeli, 2013); Recinti urbani. Roma e luoghi dell'abitare (Manifestolibri, 2014); con Ilaria Agostini, Giovanni Attili, Lidia Decandia, La città e l'accoglienza (manifestolibri, 2017); Fuori squadra (Castelvecchi, 2017); con Ilaria Agostini, Miserie e splendori dell'urbanistica (DeriveApprodi, 2018); Exit Roma (Castelvecchi, 2019), La disgrazia (Castelvecchi, 2020); con Ilaria Agostini e Giovanni Attili, Biosfera, l'ambiente che abitiamo. Crisi climatica e neoliberismo (DeriveApprodi, 2020); con Tiziana Drago, a cura di, Contronarrazioni. Per una critica sociale delle narrazioni tossiche (Castelvecchi, 2021); con Piero Bevilacqua, a cura di, Roma. Un progetto per la capitale (Castelvecchi, 2021); La svolta ecologica. Ultima chance per il pianeta e noi (DeriveApprodi, 2022).

Per Città Bene Comune ha scritto: La strada che parla (26 maggio 2017); Dall'Emilia il colpo di grazia all'urbanistica (19 ottobre 2017); Periferie oggi, tra disuguaglianza e creatività (18 ottobre 2019); Nel passato c’è il futuro di borghi e comunità (5 marzo 2021); Roma, e se non capitasse niente? (16 luglio 2021); Il territorio non è una merce (25 marzo 2022).

Sui libri di Enzo Scandurra, v. i commenti di: Giancarlo Consonni, In Italia c’è una questione urbanistica? (15 giugno 2018); Francesco Indovina, Non tutte le colpe sono dell’urbanistica (14 settembre 2018); Renzo Riboldazzi, Agostini e Scandurra a Città Bene Comune. Le ragioni di un incontro (3 maggio 2019); Carlo Cellamare, Roma tra finzione e realtà (18 luglio 2019); Graziella Tonon, Città: il disinteresse dell’urbanistica (11 ottobre 2019); Mario Agostinelli, Più ecologia, meno disuguaglianze (18 novembre 2022).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

20 GIUGNO 2023

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Luca Bottini
Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

iniziativa sostenuta da:
DASTU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Conferenze & dialoghi

2017: Salvatore Settis
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2018: Cesare de Seta
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2019: G. Pasqui | C. Sini
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2021: V. Magnago Lampugnani | G. Nuvolati
locandina/presentazione
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Gli incontri

2021: programma/1,2,3,4
2022: programma/1,2,3,4
2023: programma/1,2,3,4
 
 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori
2019: Alberto Magnaghi
2022: Pier Luigi Cervellati

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021: online/pubblicazione
2022: online/pubblicazione
2023:

M. Brusatin, Parlare al non-finito & altro, commento a: L. Crespi, Design del non-finito (Postmedia, 2023)

H. Porfyriou, L'urbanistica tra igiene, salute e potere, commento a: G. Zucconi, La città degli igienisti (Carocci, 2022)

G. Strappa, Ogni ricostruzione è progetto, note a partire a: E. Bordogna, T. Brighenti, Terremoti e strategie di ricostruzione (LetteraVentidue, 2022)

L. Bifulco, Essere preparati: città, disastri, futuro,
commento a: S. Armondi,
A. Balducci, M. Bovo,
B. Galimberti (a cura di), Cities Learning from a Pandemic: Towards Preparedness (Routledge, 2022)

A. Bruzzese, Una piazza per ogni scuola, commento a: P. Pileri, C. Renzoni, P. Savoldi, Piazze scolastiche (Corraini, 2022)

C. Sini, Più che l'ingegnere, ci vuole il bricoleur, commento a: G. Pasqui, Gli irregolari (FrancoAngeli, 2022)

G. De Luca, L'urbanistica tra politica e comorbilità, commento a: M. Carta, Futuro (Rubbettino, 2019)

F. Erbani, Una linea rossa per il consumo di suolo, commento a: V. De Lucia, L’Italia era bellissima (DeriveApprodi, 2022)

F. Ventura, L'urbanistica fatta coi piedi, commento a: G. Biondillo, Sentieri metropolitani (Bollati Boringhieri, 2022)

E. Battisti, La regia pubblica fa più bella la città, commento a: P. Sacerdoti, Via Dante a Milano (Gangemi, 2020)

G. Nuvolati, Emanciparsi (e partecipare camminando), commento a: L. Carrera, La flâneuse (Franco Angeli, 2022)

P. O. Rossi, Zevi: cinquant'annidi urbanistica italiana, commento a: R. Pavia, Bruno Zevi (Bordeaux, 2022)

C. Olmo, La memoria come progetto, commento a: L. Parola, Giù i monumenti? (Einaudi, 2022); B. Pedretti, Il culto dell’autore (Quodlibet, 2022); F. Barbera, D. Cersosimo, A. De Rossi (a cura di), Contro i borghi (Donzelli, 2022)

A. Calafati, La costruzione sociale di un disastro, commento a: A. Horowitz, Katrina. A History, 1915-2015 (Harvard University Press, 2020)

B. Bottero, Città vs cittadini? No grazie, commento a: M. Bernardi, F. Cognetti e A. Delera, Di-stanza. La casa a Milano (LetteraVentidue, 2021)

F. Indovina, La città è un desiderio, commento a: G. Amendola, Desideri di città (Progedit, 2022)

A. Mazzette, La cura come principio regolatore, F. C. Nigrelli (a cura di), Come cambieranno le città e i territori dopo il Covid-19 (Quodlibet Studio, 2021)

P. Pileri, La sostenibilità tradita ancora, commento a: L. Casanova, Ombre sulla neve. Milano-Cortina 2026 (Altreconomia, 2022)

A. Muntoni, L'urbanistica, sociologia che si fa forma, commento a: V. Lupo, Marcello Vittorini, ingegnere urbanista (Gangemi, 2020)