Francesco Ventura  
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EDIFICI, CITTÀ E PAESAGGI BIODEGRADABILI


Commento al libro di Vezio De Lucia



Francesco Ventura


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L’Italia era bellissima? Questo il titolo del nuovo libro di Vezio De Lucia (L’Italia era bellissima. Città e paesaggio nell’Italia repubblicana, DeriveApprodi 2022). L’interrogativo è una mia aggiunta dovuta al fatto che quel titolo interroga: è un invito alla riflessione. De Lucia «allude al rammarico per le cose perdute» e il testo è un viaggio tra «storia e ricordo» che però – precisa l'Autore – è stato «scritto per riflettere sui problemi di oggi e di domani» e «sulla legge del 1942 che […] continua e definire forma e contenuto del [...] mestiere» dell'urbanista (pp. 15-16). Sembra cioè rientrare in quelle narrazioni in cui il “rammarico delle cose perdute” è rintracciabile anche in culture tra loro distanti. Come quella politica, per esempio. Da qualche decennio non c'è formazione che possa dirsi autenticamente nel nostro tempo. In tutte, dall'estrema destra all'estrema sinistra, quasi fossero assalite dal timore dall’attualità, serpeggiano volontà conservatrici, un appigliarsi a ciò che appare "perduto", una "bellezza" deturpata, perché mala tempora currunt et peiora parantur, perciò da redimere, possibilmente in forza di diritto.

Belle erano le città incastonate nei loro paesaggi e relativamente bella anche se non perfetta, ma eternamente perfettibile, è la legge del 1942 che - osserva l'Autore - «nonostante la sua longevità […] è ormai soltanto un evanescente paravento che non nasconde il disastro» (p. 17) cui l’hanno ridotta riprovevoli pratiche volte a «piegare le norme alle circostanze», mentre sono stati «rari, ma indimenticabili, gli esempi di buongoverno» (p. 17). In quattro capitoli, sul filo di una memoria lucida e insieme passionale, De Lucia ripercorre i disastri e i rari lampi di luce della pianificazione italiana, sperimentati in parte in prima persona, negli ottant’anni che ci separano dall’emanazione della legge urbanistica fondamentale. Una testimonianza generosa e preziosa da meditare a fondo. Le riflessioni sono per lo più lasciate al lettore. Il libro offre il materiale sollecitante sul quale meditare. E i libri che fanno pensare, lo sappiamo, sono i migliori. L’Autore si cura di indicarne il senso di fondo, ossia il suo pensiero: «avviare una riflessione sull’assoluta necessità di un aggiornamento nella lettura e nell’uso dell’apparato normativo di cui disponiamo, chiudendo definitivamente con le prospettive di crescita, promuovendo viceversa lo studio, l’impegno, i magisteri per ricomporre l’esistente» (p. 14). È un atto di fede nella redenzione. Chiusa definitivamente la stagione della «crescita», l’«esistente» secondo l’autore si può ricomporre, utilizzando l’apparato normativo in vigore, ossia quei piani il cui diritto urbanistico è fondato proprio sulla legge del 1942, aggiornandone, nel senso pertinente, l’interpretazione (la «lettura») e le modalità di applicazione.

 

Norme di legge e pianificazione

Riflettiamo allora. Cosa si evince, di primo acchito, dalle vicende brillantemente esposte? Che la pianificazione operata in forza di quella legge ha prodotto massicciamente il “brutto” e ben poco il “bello”, una bellezza fragile e incline a un rapido sfiorire. Ciò appare una conferma: che sì le norme di quella longeva e gloriosa legge sono effettivamente pieghevoli. Si sono rivelate malleabili nelle mani di chi, di volta in volta, ha conquistato il potere – il diritto – di usarle, così come si arriva a possedere e utilizzare un’arma potente. E allora si potrebbe anche pensare che l’obiettivo adesso sia conquistare questo potente apparato normativo e indirizzarlo con decisione verso il “bello”, il “buono”, il “bene comune”. Il ché implicherebbe potenziare la capacità di battere l’avversario, in modo da togliere dalle sue mani quell’apparato e metterlo nelle mani giuste. Una riflessione questa che si riduce ai soli rapporti di forza tra formazioni politiche e indirizzi culturali avversi. Una lotta che forse con questo libro si vorrebbe contribuire a suscitare, ma di cui attualmente non si vedono tracce significative, né semi da far germogliare in un terreno che non sembra presentare fertilità idonea al nobile fine. Forse perché è diffusamente avvertito, sebbene sottotraccia, che l’apparato normativo di cui disponiamo non è propriamente appetibile. Così, però, l’auspicata riflessione sulla legge del 1942 – che dovrebbe essere soprattutto sulla sua originaria natura – nemmeno si pone, si dà per scontato che è più o meno idonea all’utilizzo voluto: basta leggerla nel modo giusto e indirizzarla nel senso che si vuole. È quantomeno bizzarro constatare di fatto e insieme lasciar passare di fatto che un apparato normativo possa essere indirizzabile in sensi opposti, compiacente e cedevole ai voleri di chi riesce a impossessarsene.

Ma ancora di più, suscita perplessità il mancato invito a riflettere su cos’è la pianificazione, cosa significhi pianificare e se quegli atti normativi che la cultura urbanistica chiama “piani”, deliberati in forza di quella legge dalle maggioranze pro-tempore comunali a seconda delle loro convenienze politiche, siano autentifica pianificazione, oppure ne hanno solo abusivamente il nome e, dunque, finiscono per non pianificare alcunché, ma contribuiscono a incentivare un agire edificatorio per lo più dannoso agli interessi generali. Una riflessione indispensabile, non solo sull’apparato normativo esistente, che se guardato in profondità si scoprirebbe in gran parte da abrogare, ma sull’apparato normativo che manca, che è assente e che la cultura urbanistica non ha mai nemmeno provato a immaginare, perché forse non è propriamente nelle competenze del mestiere di architetto e di urbanista come fino ad adesso praticati all’ombra di quella “gloriosa” legge. Eppure, lo scopo primario che va per la maggiore nel nostro tempo, e che manca di un appartavo normativo idoneo a perseguirlo, è ben presente agli urbanisti, anzi sono soprattutto loro ad avanzarlo – anche se continuano a ritenere che si possa perseguire con i cosiddetti “piani”. Quello scopo eminente che De Lucia pone e considera come un’autentica svolta: chiudere «definitivamente con le prospettive di crescita», quindi: «tutela del paesaggio», «difesa del territorio», «protezione della natura» e fermo definitivo del «consumo di suolo». Nei riguardi dell’attività edificatoria porre questo impegnativo scopo, articolato e complesso al suo interno, implica, a differenza dei piani, necessariamente atti normativi, deliberati in forza di legge dalle amministrazioni comunali, in quanto sono le più prossime ai luoghi. Perché atti normativi? La funzione primaria delle norme è quella di proibire a tempo indeterminato tutte quelle attività – specificamente edificatorie – che usando e disponendo del suolo si ritiene, in base ai diversi saperi tecnico-scientifici fino a quel memento acquisti, possano ledere l’interesse generale dei cittadini: qualità dell’ambiente, protezione dai rischi naturali e tecnologici, tutela del patrimonio culturale. Occorre, invece, la pianificazione quando lo scopo è quello di fare qualcosa, sia direttamente da parte della pubblica amministrazione, quando del suolo da usare ne ha il diritto di proprietà, sia indirettamente, quando non ha il diritto di proprietà, incentivando il proprietario ad attivarsi, facendo sì che la proprietà privata svolga la sua “funzione sociale” in base alla Costituzione. Ma un piano è tale, e può svolgere effettivamente la sua funzione, se non si traduce in un atto normativo. Per due ordini di motivi.

Il primo. La pianificazione è potente e non inerme, se è consapevole di non poter essere altro che ipotetica, dunque smentibile e revisionabile. Le norme flessibili e piegabili in una direzione o nell’altra sono un controsenso. Il piano implica pensare al futuro, aprirsi al futuro probabile, e calcolare i mezzi per raggiugere il suo scopo in un determinato tempo. Se lo si traduce in norma, come si fa con i piani regolatori, quel pensiero aperto al futuro col quale si è progettato si congela in pensato, si irrigidisce nella sua presunta perfezione, si chiude nel passato perfetto, nella propria inerme identità, che è l’autentico senso della morte. Diventa fragile e crolla quando quell’altro da sé, celato nel futuro, dal piano escluso e non voluto vedere, irrompe vanificando il pensato. Il piano autentico non è solo il pensato, ma pensiero che continua a pensare, che continua ad agire: dal piano pensato e irrigidito in norme al piano che pensa, aperto all’altro che sopraggiunge e dotato della capacità di includerlo.

Il secondo. Il piano urbanistico, applicandosi a un suolo suddiviso in aree (particelle catastali) soggette al diritto di proprietà (per cui solo ed esclusivamente l’avente diritto può goderne e disporne) si ritorce contro i suoi scopi dichiarati, perché non può impedire al proprietario di rimanere inerte, e per giunta a tempo indeterminato, rispetto all’uso del suo suolo che il piano dice di volere. Mentre, come s’è detto, una norma specificamente ed esclusivamente volta a proibire determinate attività ha l’immediato effetto voluto nei confronti di qualsiasi cittadino, che sia proprietario o meno di suoli e di tutto ciò che vi sta sopra. D’altra parte, il piano traduce in norme le diverse quantità di edificazione che delibera sulle diverse particelle catastali contribuendo così a determinarne legalmente il valore venale e, anzi, a convertire qualsiasi cosa, ogni loro qualità là presente, in ciò che si può vendere. Il proprietario resta libero di disporre del bene e quindi di immetterlo sul mercato quando il valore è cresciuto in misura che a lui parrà conveniente, senza costruire alcunché e senza alcun uso né privato, né sociale. Allora, è chiaro che il piano urbanistico si presta molto bene, più di ogni altro uso, alla speculazione fondiaria. Ed è questa l’essenza del diritto urbanistico sancito dalla legge del 1942 e tuttora incredibilmente in vigore. Ed è questa l’originaria natura della legge già palese all’atto della sua approvazione: «“Basti pensare – come faceva rilevare […] Calza-Bini – che a parità di condizioni di suolo e di valore unitario a metro quadrato di area effettivamente utilizzata in ogni piano, una stessa area può salire da uno a diciotto, a seconda della destinazione urbanistica […]. E allora si comprenderà come basti ottenere dalla compiacenza del professionista che prepara i piani regolatori, o dall’ufficio tecnico che deve attuarli, un semplice cambiamento di destinazione per vedere moltiplicato per venti il proprio patrimonio! E ciò senza alcun merito di attività produttiva di un bene sociale […] da parte del proprietario che può essere stato ad aspettare con le braccia incrociate”. L’individualismo economico dunque era e, in tal modo, rimane trionfante» (1). Gli affetti concreti di questa legge tarlata irrimediabilmente da un mostruoso vulnus sono sotto gli occhi di chiunque voglia guardarli. Il film di Francesco Rosi Le mani sulla città, citato opportunamente da De Lucia, lo mostra nel modo più spettacolare insieme a molti altri fatti e testimonianze incluse quelle raccolte nel libro in discussione.

 

L’autentico senso del diritto urbanistico

La legge del 1942, se ci si pensa con attenzione, se la si guarda in profondità, liberi da incrostazioni culturali e pregiudizi ideologici, non contiene norme che si possono piegare in una direzione e in quella opposta. Con questa legge è stato sancito al livello nazionale un diritto urbanistico già in origine deliberatamente inclinato nella direzione della speculazione fondiaria. La sollecita motu proprio e la legalizza, è docile e proficuo mezzo per far danaro col danaro (essenza del capitalismo): comprare terreni formalmente agricoli di basso valore per venderli valorizzati dalle destinazioni del piano urbanistico. Il piano urbanistico è un elargitore di edificabilità e dunque di valori di mercato fondiario a beneficio dei proprietari di immobili, siano essi persone fisiche, imprese o enti pubblici. Non è un atto normativo che possa essere usato per impedire l’attività edificatoria, al contrario: la incentiva. È chiaro che se un determinato piano dice che il suolo “A” è edificabile, il suolo “B”, magari ad esso adiacente, non lo sarà, proprio perché altrimenti non sarebbe conveniente speculare sul suolo “A”. E non è una questione di quantità, l’area “B” più vasta dell’area “A”, è lo scopo edificatorio che determina il senso dell’atto di piano e delle sue innumerevoli varianti. Lo scopo primario del piano urbanistico è la deliberazione che sancisce l’edificabilità del suolo “A”, non la sorte residuale del suolo “B”, che peraltro è destinata ad essere provvisoria, deve solo aspettare il suo turno, che prima o poi verrà per le pressioni di mercato e le conseguenti ambizioni politiche. Che fanno allora le “anime belle”, pervicaci nella volontà di piegare il piano urbanistico in direzione opposta all’inclinazione speculativa che le è propria? Occultano la scelta primaria, l’edificabilità del suolo “A”, la lasciano in ombra ed enfatizzano l’inedificabilità residuale del suolo “B” come incarnazione della salvaguardia del territorio e come un obiettivo eroicamente raggiunto. Disponiamo di un apparato normativo potente solo per l’agire speculativo e non idoneo a perseguire interessi generali che siano primari rispetto a quelli di mercato. La legge del 1942 dà forza di legge nazionale a una pianificazione che costituisce l’originario consumo di suolo, perché sancisce e legalizza, conferendogli il primato, la sua identità venale, sacrificando a questa ogni altro suo possibile significato.

 

L’esproprio: atto di nascita del mestiere di urbanista

L’istituzione di un diritto urbanistico così orientato non è stata una levata d’ingegno del legislatore del Ventennio. Nei primi anni dell’Italia unificata, quando ancora l’urbanistica non aveva un nome, si diceva esplicitamente nelle aule parlamentari che per ammodernare e ampliare le città era necessario favorire la speculazione. Si trattava di liberare il mercato immobiliare dai lacci e lacciuoli del vecchio regime gravato da retaggi medioevali. Nell’epoca premoderna – come sanno gli storici del diritto – l’istituto della proprietà era “complesso e concreto” (tanto che andrebbe declinato al plurale), mentre quello del nostro tempo è “semplice e astratto”(2). Diciamolo in forma schematica, lo stato assoluto premoderno aveva, per concessione divina, la sovranità del territorio e il potere incondizionato di distribuire una complessa pluralità di diritti, privilegi d’uso e sfruttamento in relazione alle concrete caratteristiche naturali di ciascun suolo: su ogni sua porzione potevano essere esercitati più diritti con contenuti diversi in capo a soggetti diversi. La rivoluzione moderna, di cui quella francese è emblema, ha trasferito l’assolutezza della sovranità statale premoderna al singolo cittadino proprietario, di qui la dizione “proprietà privata”. Ecco perché la proprietà moderna ha il senso dell’assolutezza, solo ed esclusivamente chi ne ha il diritto può godere e disporre del bene e dunque anche stabilire, come il sovrano, concessioni ad altri. La proprietà privata è, insieme, astratta dalle concrete caratteristiche dei diversi suoli, perché il valore del bene è commisurato all’astrattezza del danaro, al suo volubile prezzo sul mercato. Il valore primario di ogni suolo è quello venale (‘che si può vendere’, ‘vendibile’). Per raggiungere in concreto questo scopo, ossia quello di innescare l’avvio del libero mercato immobiliare, è stato necessario ricorrere all’istituto dell’esproprio per pubblica utilità. Una vendita forzata compensata con danaro, per liquidare le vecchie “proprietà” e ogni loro diritto, trasferendola alla moderna proprietà imprenditoriale, il cui scopo primario è il profitto: comprare a X e vendere a X+. Questo spiega perché l’istituzione dei primi piani regolatori e di ampliamento delle città, non ancora chiamati urbanistici, è stata affidata alla legge (opportunamente menzionata da De Lucia) sulla espropriazione per pubblica utilità del 1865. Ottenuto con l’esproprio il diritto di proprietà, l’amministrazione comunale non è condizionata da alcunché nel godimento e nella disposizione dei suoli. Ha il diritto di cederli a quei soggetti privati che si impegnino legalmente a realizzare, entro un determinato tempo, il piano regolatore e di ampliamento, con le sue stringenti e inderogabili prescrizioni, redatto dall’amministrazione comunale: un piano di interesse pubblico che giustifica e legittima l’esproprio.

Si può dire che la legge sull’esproprio segni anche l’atto di nascita del mestiere dell’urbanista. La configurazione dello spazio abitato è l’arte dell’architetto. Quella legge, e leggi simili negli altri paesi, hanno offerto l’opportunità di articolare quest’arte in una specializzazione: quella idonea a configurare forma e ordine della città moderna, non apparendo più adeguata alle nuove esigenze della vita la forma e le dimensioni delle città ereditate. Ma una volta liberato il mercato dai vecchi vincoli, l’uso dell’esproprio si è circoscritto alla sua funzione primaria: l’acquisizione dei suoli destinati alle opere pubbliche che, a loro volta, costituiscono la concreta valorizzazione dei terreni per scopi edificatori privati. Al mestiere nascente dell’urbanista è venuto a mancare la disponibilità pubblica dei suoli che lo aveva generato. La ristrutturazione e gli ampliamenti delle vecchie città per parti circoscritte, in tempi dominabili e col diritto di proprietà dei suoli nelle mani dell’amministrazione comunale hanno illuso l’architetto-urbanista di aver trovato, garantito dalla legge, un nuovo mestiere ricco di avvenire. Liberato il mercato immobiliare dai vecchi vincoli, progressivamente cresciuto l’afflusso di popolazione dalle campagne alla città accompagnato dal continuo aumento della popolazione del pianeta, gli urbanisti di mestiere hanno rilanciato, ambendo a configurare la totalità dello spazio abitato in un sol colpo con l’apparato normativo del cosiddetto “piano”, ma senza la disponibilità dei suoli nelle mani dell’amministrazione pubblica. L’immaginaria forma della città, che voleva essere moderna, si è dissolta nell’urbanizzazione continua. Sicché questa, confrontata con le città ben formate da una lunga storia – considerate “belle” proprio per la loro gloriosa vetustà – è apparsa qualcosa di informe, di profano, contribuendo così alla sacralizzazione e al culto del patrimonio urbano, battezzato “centro storico”. Questi nuclei urbani di antica formazione sopravvissuti, che erano le città di un tempo, sono ormai ridotti a non-città, perché o spopolati, o non più abitati da una qualche forma di comunità civica, o totalmente nel dominio dello sfruttamento dell’economia turistica. Sono città morte di bellezza. Eppure, si crede che questi relitti di antiche città siano l’autentica realtà, l’identità che non può e non deve conoscere alterazione alcuna e di cui va difesa l’integrità fisica: la bellezza che non deve essere perduta e che va redenta.

 

Il consumo di suolo

Conservare, limitare la crescita e il consumo di risorse e di patrimonio, dunque, è un sentire forte, diffuso, in varie forme è rintracciabile in una moltitudine di orientamenti culturali. È genuino? È sufficientemente ponderato? Se si pensa che si possa perseguire con la pianificazione fondata sul diritto urbanistico esistente, non si possono che nutrire grossi dubbi. Limitiamoci qui a fare un esempio, uno scopo semplice e chiaro: “fermare il consumo di suolo”. Scopo che il prefatore del libro, Enzo Scandurra, ha segnalato come centrale. De Lucia nel capitolo finale, il quinto, dichiara «che non va bene» semplicemente contenerlo, come si legge nel decreto emanato dal Ministro Giovannini nel 2021 con il quale ha istituito l’ennesima commissione di studio per la riforma dei principi della pianificazione urbanistica e sul quale De Lucia fa un laconico commento ironico: «Benissimo, vasto programma avrebbe detto il generale De Gaulle» (p. 117). Un’ironia in cui traspare una giustificata insofferenza verso l’abitudine di affogare questo problema, come molti altri, in vasti programmi di là da venire, mentre – ribadisce De Lucia – è «urgente azzerare risolutamente e subito il consumo di suolo» (p. 117). Allora, dobbiamo chiederci come sia possibile continuare a pensare che si possa perseguire questo «azzeramento» con i piani urbanistici, la cui funzione primaria è l’elargizione legale dell’edificabilità? E come si possa pensare che sia idoneo allo scopo il testo di un articolo di legge regionale che dice di volerlo perseguire quando, come in quella della Toscana lodata da De Lucia, è seppellito in centinaia di altri che rendono possibili elusioni e deroghe a quella norma in apparenza così lapidaria? (3) Peraltro, si tratta di leggi e piani, quelli regionali, con vastissimi programmi, smisurati, ambiziosissimi, che – punctum dolens – ordinano ai comuni di pianificare di nuovo con quello stesso diritto, nefasto per le sorti del suolo, istituito dalla legge del 1942. Se s’intende che è “consumo di suolo” il suo uso edificatorio e si vuole un mezzo pertinente e subito pronto per perseguirne il suo “urgente azzeramento”, allora occorre una legge nazionale di un solo articolo che, con una ventina di parole, inequivocabili e senza ambiguità, dica: «Fuori dal perimetro urbano è fatto divieto ai Comuni di apportare varianti allo stato di diritto urbanistico dei suoli qualora comportino nuova edificazione». Che è come dire: non fate più piani perché incentivano il consumo di suolo, potrete farli solo quando è strettamente necessario e solo dove il consumo non è vietato. Mi rivolgo agli amici Vezio ed Enzo, facciamo un esperimento. Lanciamo una petizione per questa legge e vediamo se verrà ignorata, se seppelliranno la proposta con una grossa risata, se susciterà un qualche dibattito, o anche solo un minimo di approfondimento. Un buon test direi, altrimenti ci si deve accontentare di agitare lo scopo fino alla noia come bandiera ideologica e qualche volta vederlo inserire in convegni, documenti, promemoria, oppure provare la rara ebrezza di vederlo effigiato, come imitazione pittorica senza vita di un vivente, in leggi regionali monstre dalle norme pieghevoli come canne al vento, dove quello scopo, ritenuto primario e urgente dai proponenti, trova posto nella folla degli articoli, relazionato agli altri molteplici fini della legge, quindi inoffensivo, ininfluente e del tutto secondario.

 

Cosa significa consumare

Ora, se una tale legge nazionale, nei termini crudi con cui l’ho formulata (ma logicamente conseguenti allo scopo posto, tra gli altri, da De Lucia e Scandurra), non è stata mai disegnata – potrei sbagliarmi, se lo è stata non ho contezza che abbia avuto né esito né eco – dovremmo essere indotti a riflettere su cos’è “consumo”, ossia cosa significhi consumare in relazione al vivere. Forse la proibizione bruta che dice “non consumare” (che, come il plurimillenario comandamento di “non uccidere”, ha una sequela infinta di eccezioni al punto che l’eccezione è norma e la norma è eccezione) suona come qualcosa di contrario alla vita. Non è questo il luogo per sviluppare la riflessione come merita. Tuttavia, poiché sto studiando e riflettendo, non so tirarmi indietro da esporre sommariamente alcuni modesti spunti da approfondire. Tutti i giorni noi (quantomeno quelli di noi che agevolmente se lo possono permettere e che sono una minoranza nel mondo) per vivere, per sussistere, consumiamo cibo, aria, acqua, energia, suolo. Tutte le forme di vita consumano per vivere. E, se un po’ ci riflettiamo con mente aperta, dovremmo concordare con la tesi di Giordano Bruno (finito così al rogo), che tutto ciò che è vive, quindi anche ciò che chiamiamo “suolo”, non solo quegli esseri che usiamo chiamare, distinguendoli da altri, “organismi”. Il sole, per esempio, per vivere consuma idrogeno. Anche per via scientifica stiamo raggiungendo questa consapevolezza (4). Nell’Antico Testamento “consumare cibo” è lo stesso che “vivere”. Se ne trovano testimonianze anche nel linguaggio. Sono, a esempio, foneticamente simili i termini greci βίος, “vita” e βιός, “arco”, l’arma con la quale si uccide l’animale per nutrirsi consumandolo.

Ogni vivente è un uccisore, un consumatore. E se tutto ciò che è vive, ogni vivente assimila l’altro vivente consumandone l’alterità. L’assimilazione spezza il legame con l’altro. Una volontà violenta anima la necessità di vivere, ovvero sopravvivere (senza sopravvivenza non c’è vita); questa parola è rivelatrice: “vivere sopra gli altri” (5). La differenza tra la nostra forma di vita e le altre è in ordine alla potenza della volontà di sopravvivere. Siamo dotati, a quanto ci consta, del più alto grado di volontà di potenza. Sebbene non conosciamo ancora a fondo le altre forme di vita, abbiamo però esperienza anche di un’altra nostra caratteristica strettamente connessa alla precedente, che probabilmente ci distingue dalle altre forme. Fin dai primordi, almeno fin da quando l’uomo ha dipinto gli animali nelle caverne (le prime espressioni artistiche finora scoperte), è apparso che l’atto uccisorio con il quale si esplica la volontà di sopravvivere è insieme, e inscindibilmente, l’atto col quale ci si priva di quell’altro senza il quale non si può vivere: l’animale, il cibo assimilato, lo si vuole ancora in presenza dipingendolo. Per vivere consumiamo quell’altro costituito dal brulicante complesso di esseri viventi chiamato “suolo”, sopprimendone l’alterità, violentando la relazione che all’altro originariamente ci lega, ma siamo consapevoli che senza questo altro che è il suolo, di cui ci priviamo agendo per sopravvivere, non possiamo vivere. Ciò che vien meno nell’agire per vivere sono le condizioni del vivere stesso. Da tempo immemorabile alla nostra forma di vita questa situazione è apparsa come una contraddizione che genera profonda angoscia, non per la sorte dell’altro, ma per la perdita delle condizioni di esistenza dell’uccisore stesso che col suo atto ha consumato l’altro necessario alla sua vita. L’anelito a vivere sempre, sforzandosi di lenire l’angoscia, di uscire dalla contraddizione è il fondamento del fare artistico dell’uomo: determinare ad arte, con crescente potenza, le condizioni della vita. Limitarsi semplicemente a cercare, trovare e consumare cibo e riparo non garantisce che lo si trovi ancora, che continui a sussisterne la disponibilità. Ci si è ingegnati a produrre, per tenerle in potere, le condizioni di vita con le nostre facoltà artistiche: coltivare, allevare, costruire. Ma anche le condizioni della produzione ad arte non sono garantite in senso assoluto: è sempre necessario altro da consumare per produrle. La volontà di uscire della contraddizione angosciosa del vivere di cui si ha concreta esperienza si è rivolta a una onnipotenza generativa che è separata dalla vita del mortale, in quanto scevra dall’uccisione: l’assolutamente altro, l’incondizionato, che sussiste in sé stesso perché non ha niente al di fuori di sé, l’inconsumabile, la forma suprema di esistenza che non conosce alterazione alcuna, l’identico, il bello in sé, chiamato “Dio”. Per Canetti «Dio è Il più grande atto di superbia dell’uomo» (6). SI tratta di allearsi con questa onnipotenza eterna. Il sacro arcaico è il prodromo, dove però il rapporto con la concretezza dell’uccisione è mantenuto nei riti sacrificali, di cui nelle attuali religioni restano residui simbolici, come, a esempio, il sacramento della comunione cristiana, dove il mortale consuma l’ostia, simboleggiante il corpo e il sangue di cristo, ossia il sacrificato una volta per tutti.

 

Sacralizzazione della storia

Il «sacro si oppone al profano», è «una realtà» separata, fino a giungere alla separazione radicale, assoluta, sciolta da ogni relazione col proprio altro, «che non appartiene al nostro mondo […] “naturale” e “profano” […]. Il sacro equivale a potenza e […] alla realtà per eccellenza». Esso interrompe «l’omogeneità dello spazio», rivela «una realtà assoluta» opposta «alla non-realtà […] che la circonda». Quando gli oggetti del nostro mondo vengono visti come ierofanie (manifestazioni del sacro), diventano «un'altra cosa». La sacralizzazione configura lo spazio: «nella distesa omogenea ed infinita, senza punti di riferimento né possibilità alcuna di orientamento» il sacro «rivela un “punto fisso” assoluto, un “Centro”», che «equivale alla creazione del mondo», perché «Per vivere nel Mondo, bisogna fondarlo» (7). La volontà di sacro e di sacralizzazione dello spazio non è scomparsa con l’allontanamento dai riti sacrificali, con l’occultamento dell’uccisione cruenta (la carne-cibo, senza la vista del sangue, e il vegetale-cibo, senza la vista della falce, simbolo di morte, che l’ha recisa dalla terra, noi oggi li troviamo al supermarket già confezionati per il pranzo); né col progressivo crepuscolo dell’uomo religioso e l’affermarsi del pensiero tecnico scientifico che comunemente si ritiene abbia «desacralizzato il cosmo». L’agire tecnico-scientifico ha – più o meno sottotraccia – come scopo supremo la creazione, così come è stata pensata quella di dio, dal niente, che non abbia più necessità del proprio altro da consumare. Nell’arte della configurazione dello spazio (architettura e urbanistica), di cui qui ci occupiamo, la permanenza dell’ordine sacro ha due volti strettamente connessi, l’uno essenziale all’altro. Partecipano entrambi della tendenza alla sacralizzazione della storia, che è un’evoluzione del mito, corroborata dal metodo scientifico. L’Origine non è più, come nel mito, in illo tempore, ma in un determinato tempo. Il culto contemporaneo del patrimonio è una delle incarnazioni. Architetture, Città e Paesaggi istituiscono uno spazio sacro, un’autentica realtà separata dall’altro da sé, dal profano (l’irreale urbanizzazione del nostro tempo) lasciato fuori dal suo consacrato confine, a misura della potenza narrativa della loro storiografia (8). Il culto del patrimonio è un volto della volontà di sacralizzazione operante sul già costruito al quale si connette, l’altro volto costituito dalle nuove costruzioni. Nella contemporaneità, progettazione architettonica e pianificazione urbanistica sono animate anch’esse dalla stessa volontà di sacro (9). L’esclusione dallo spazio consacrato dal culto patrimoniale, la loro collocazione nell’estesa landa dell’urbanizzazione profana viene considerata, o meglio sperata, contingente. Il pensiero di progetti e piani include la brama alla consacrazione, si mira all’estensione spaziale del recinto sacro fino a comprendere le nuove opere, e perciò a promuovere la narrazione di sé stesse già in fase di progettazione, ben prima di essere realizzate. Consacrate dal culto del patrimonio sono le opere perfettamente adattate allo scopo di vita che le ha originate, la cui forma risulta attualmente chiusa all’altro che sopraggiunge, e che solo la volontà di conservazione della loro integrità fisica può far ancora sussistere in quanto adesso vien loro conferita l’identità patrimoniale “storico artistica” che prevale su ogni altro possibile significato. Una ripetizione che accresce il patrimonio inserendovi le opere attuali la cui forme vengono concepite con lo stesso criterio di perfetto adattamento a quegli scopi della concreta vita che, sopraggiunti, non trovano accoglienza nelle forme precedenti ormai relegate alla sacralità, forme che risulteranno poi chiuse all’altro celato dal futuro. In Italia questo accumulo è sancito dal Codice dei Beni Culturali. Quando un’opera ha più di settant’anni (in precedenza erano solo cinquanta) e l’autore è defunto, ci sono già i requisiti minimi perché possa, eventualmente, essere sottoposta a tutela e, se è di proprietà pubblica, scatta in automatico la salvaguardia fin quando il suo valore storico artistico sia o meno convalidato da un decreto ministeriale (10). Ma se si sacralizzano gli edifici, con la volontà di negare assolutamente qualsiasi loro alterazione in avvenire, e se edificare vuol dire consumare suolo, allora come si può sacralizzare il suolo con la volontà di negare assolutamente la sua alterazione (edificazione) in avvenire? Se ogni edificio è pensato con la volontà di negare assolutamente l’altro perché sussista a tempo indeterminato, in una vita che, in quanto voluta inalterabile la si considera perfetta, e lo stesso si pensa di ogni suolo, non ci sarebbe più niente da consumare, niente da volere. Ma se la vita concreta è consumo dell’altro, non avendo più nulla da consumare né da volere “riposeremmo in pace” (così si dice di chi è morto) in un cimitero di edifici e suoli. Una tale contraddizione appare solo dal punto di vista della volontà che vuole separarsi dall’altro mirando all’inalterabilità assoluta della propria identità. Una volontà che è violenta perché vuole l’impossibile, l'impossibile essendo appunto una tale separazione dall'altro. C’è abbastanza da meditare e approfondire, almeno spero.

 

Orche e Megattere: la bellezza della natura

Chiudo con una parabola sulla bontà e bellezza della natura, ossia della vita che è quell’agire che consuma l’altro oltrepassando la morte. Le Orche marine, chiamate anche “orche assassine”, scelgono la Megattera più debole, in un’ora e mezza di ripetuti attacchi le spezzano le costole, rendendole faticoso il respiro, la spingono a fondo dove affoga per mangiarne la sola lingua, tenera e nutriente. Orrore! Siamo portati a esprimere. E che spreco! Questa crudele uccisione per consumare la sola lingua! E invece No. Quest’agire, che è vita, vita concreta, oltrepassa quella morte, che noi tendiamo a vedere come “morte”, perché fissiamo lo sguardo sull’irenica e astratta identità della Megattera come se fosse assoluta, chiusa all’altro, la vogliamo pensare inalterabile (o, per chi ci crede, alterabile solo da dio, l’assolutamente altro, che dal niente l’ha creata e nel niente la risospinge, perché, appunto, dio non ha niente al di furi di sé, è irrelato all’altro – ciò è la radice di ogni nichilismo: l’insistenza dell’altro), mentre l’autentica concreta identità è relazionale. La Megattera, come tutte le forme di vita, sta in relazione non solo con le Orche ma con ogni altra vita, con tutto ciò che è. La Megattera continuerà a lungo a generare e nutrire innumerevoli forme di vita, inclusa quella delle altre megattere, e pure la nostra, tanto che la loro varietà sfugge alla volontà di conoscerne l’interezza. Ogni agire per vivere lascia tracce, anche quelle della Megattera possono essere rintracciate dopo milioni di anni, fornendo nutrimento alla vita della memoria, che è agire interpretativo del pensiero, tracce che possono essere anche esposte nei musei di storia naturale, senza la necessità di conservarne imbalsamata la forma corporea (11).

 

Mirare alla biodegradabilità

Ringrazio il lettore che si è sacrificato fin qui salutandolo con uno slogan che mi pare riassuma bene quanto affermato sopra: mirare alla biodegradabilità della configurazione dello spazio di edifici, città, metropoli, paesaggi. E' questa, a mio giudizio, la strada da intraprendere.

 

Francesco Ventura

 

 

Note
1) La citazione di Calza-Bini si trova in Giovanni Ortolani, La nuova disciplina urbanistica, Empoli 1943, p. 79.
2)
Paolo Grossi, La proprietà e le proprietà nell’officina dello storico, Editoriale Scientifica, Napoli 2006.
3)
Sono già intervenuto in merito su questo sito: Così non si tutela né il suolo né il paesaggio
4) Vedi a esempio, nel campo delle neuroscienze, la fondamentale opera di Antonio Damasio, in particolare Lo strano ordine delle cose, Adelphi 2018. Dove viene notevolmente ampliato, rispetto alla consapevolezza tradizionale, il numero di forme di vita che, in quanto sono aperte all’altro da consumare per vivere, sono senzienti, ossia in vari modi “pensano” includendo l’altro.
5)
«L’intenzione autentica del vero potente è, infatti, incredibilmente grottesca: egli vuole essere l’unico. Vuole sopravvivere a tutti, affinché nessuno sopravviva a lui». Elias Canetti, Potere e sopravvivenza, Adelphi 2018.
6)
«Dio è il più grande atto di superbia dell’uomo, e quando egli l’avrà espiato, non ne troverà mai uno più grande». Elias Canetti, La provincia dell’uomo. Quaderni di appunti 1942-1972, Adelphi 1978, p. 19
7)
Mircea Eliade, Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri 2013, pp. 14-20.
8) Molto significativo, tipico in questo senso, è, tra i tanti, il pensiero di Pier Paolo Pasolini sulla forma urbana antica: le città erano bellissime, costituiscono l’autentica realtà opposta al dilagare dell’irrealtà del nostro tempo. Ecco ciò che esprime in una scena del suo documentario, Le mura di San’a, un appello rivolto all’UNESCO perché inserisca nel patrimonio mondiale questa antica città, che allora, nel 1971, era ancora integra. Dopo aver mostrato la bellezza e segnalato i rischi di distruzione che sta correndo Sana’a, nella scena da 8:14 a 9:00, viene inquadrata Orte, il suo perfetto disegno sulla collina, che le costruzioni moderne limitrofe hanno già profanato (su Orte e Sabaudia, nel 1974, Paolini girerà un altro documentario per la RAI, La forma della città). Dice Pasolini (trascrivo, il corsivo è mio): «Ormai, del resto, la distruzione del mondo antico, ossia del mondo reale, è in atto dappertutto. L’irrealtà dilaga attraverso la speculazione edilizia del neocapitalismo. Al posto dell’Italia bella e umana, anche se povera, c’è ormai qualcosa di indefinibile che chiamare brutto è poco». Dopodiché passa a intervistare un uomo della strada:

Senta, osservi il panorama di Orte, il disegno della città sopra la collina… l’osservi un momentino. Lei non trova niente da ridire, niente da criticare su quel panorama?
Su quel… sulla collina o il paese?
Il paese, il paese…

Beh… a Orte fanno bono il prosciutto… Perciò, el prosciutto… s’è bono il prosciutto penso che è bono pure il disegno del paese

La risposta dell’intervistato non va liquidata come folcloristica, al contrario, è profonda e rivelatrice. Lega, mostrandone l’inscindibilità, la bontà del cibo, il sacrifico del maiale, l’uccisione necessaria al concreto vivere, alla bontà del disegno della città, che così non viene isolata nella perfetta, incontaminata bellezza da preservare, astratta dalla vita (questa sì realmente concreta) con cui la vede, la vuol vedere, la volontà sacralizzante propria del culto contemporaneo del patrimonio.
9)
Su questo argomento sono già intervenuto insieme a Emanuele Lago in altra occasione su questo sito: La casa che pensa
10) Vedi un mio intervento in altra occasione su questo sito: Memoria dei luoghi ed estetica dell’ircocervo
11) Al centro di una delle sale del Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Firenze è allestito lo scheletro fossile di una balenottera vissuta tre milioni di anni fa. Il fossile, lungo dieci metri, rinvenuto e scavato nel 2007 nelle colline di Orciano Pisano (PI), è stato oggetto di un innovativo allestimento di tipo immersivo che ha dato vita alla sala “Storie di una balena”. Il visitatore può osservare lo scheletro e i resti degli animali che si sono nutriti dei suoi tessuti in decomposizione: squali, razze, granchi, gasteropodi, ricci di mare, bivalvi e vermi mangia-ossa. Al di sopra del visitatore la suggestione di vivere nel mare è accresciuta dalla proiezione di grosse megattere che nuotano e cantano, immerse nel blu.

 

N.d.C. - Francesco Ventura, già professore ordinario di Urbanistica all'Università degli Studi di Firenze, ha pubblicato tra gli altri: L'istituzione dell'urbanistica. Gli esordi italiani (Libreria Alfani Ed., 1999); Statuto dei luoghi e pianificazione (Città Studi Edizioni, 2000); Sul fondamento del progettare e l'infondatezza della norma, in P. Bottaro, et al. (a cura di), Lo spazio, il tempo e la norma (Ed. Scientifica, 2008); Una negazione del piano che si nega da sé, in Giuseppe De Luca, Discutendo intorno alla città del liberalismo attivo, Alinea 2008; La verità del falso ("Area, n. 105-2009); Il monumento tra identità e rassicurazione, in G. Amendola (a cura di), Insicuri e contenti (Liguori, 2011); La tutela e il recupero dei centri storici, in L. Gaeta, et al., Governo del territorio e pianificazione spaziale (Città Studi, 2013); La progettazione del passato ed il ricordo del futuro, in A. Iacomoni (a cura di), Questioni sul recupero della città storica (Aracne, 2014).

Per Città Bene Comune ha scritto: Urbanistica: tecnica o politica? (14 febbraio 2016); Lo stato della pianificazione urbanistica. Qualche interrogativo per un dibattito (1 aprile 2016); Urbanistica: né etica, né diritto (30 giugno 2016); Più che l'etica, è la tecnica a dominare le città (16 febbraio 2017); Antifragilità (e pianificazione) in discussione (28 luglio 2017); Così non si tutela né il suolo né il paesaggio (1 dicembre 2017); Su "La struttura del paesaggio": inutile le polemiche, riflettiamo sui contenuti (12 gennaio 2018); Sapere tecnico e etica della polis (28 settembre 2018); Per una critica dei principi territorialisti (13 settembre 2021); Memoria dei luoghi ed estetica dell’ircocervo (1 aprile 2022); L’urbanistica fatta coi piedi (24 marzo 2023).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.


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20 LUGLIO 2023

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Luca Bottini
Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

iniziativa sostenuta da:
DASTU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Conferenze & dialoghi

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2021: V. Magnago Lampugnani | G. Nuvolati
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

 

 

Gli incontri

2021: programma/1,2,3,4
2022: programma/1,2,3,4
2023: programma/1,2,3,4
 
 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori
2019: Alberto Magnaghi
2022: Pier Luigi Cervellati

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021: online/pubblicazione
2022: online/pubblicazione
2023:

M. Ruzzenenti, La natura? Un'invenzione dei tempi moderni, commento a: B. Charbonneau, Il Giardino di Babilonia (Edizioni degli animali, 2022)

G. Nuvolati, Il design è nei territori, commento a: A. Galli, P. Masini, I luoghi del design in Italia (Baldini & Castoldi, 2023)

C.Olmo, Un'urbanistica della materialità e del silenzio, commento a:C. Bianchetti, Le mura di Troia (Donzelli 2023)

E. Scandurra, Dalle aree interne un'inedita modernità, commento a: L. Decandia,Territori in trasformazione (Donzelli, 2022)

M. Brusatin, Parlare al non-finito & altro, commento a: L. Crespi, Design del non-finito (Postmedia, 2023)

H. Porfyriou, L'urbanistica tra igiene, salute e potere, commento a: G. Zucconi, La città degli igienisti (Carocci, 2022)

G. Strappa, Ogni ricostruzione è progetto, note a partire a: E. Bordogna, T. Brighenti, Terremoti e strategie di ricostruzione (LetteraVentidue, 2022)

L. Bifulco, Essere preparati: città, disastri, futuro,
commento a: S. Armondi,
A. Balducci, M. Bovo,
B. Galimberti (a cura di), Cities Learning from a Pandemic: Towards Preparedness (Routledge, 2022)

A. Bruzzese, Una piazza per ogni scuola, commento a: P. Pileri, C. Renzoni, P. Savoldi, Piazze scolastiche (Corraini, 2022)

C. Sini, Più che l'ingegnere, ci vuole il bricoleur, commento a: G. Pasqui, Gli irregolari (FrancoAngeli, 2022)

G. De Luca, L'urbanistica tra politica e comorbilità, commento a: M. Carta, Futuro (Rubbettino, 2019)

F. Erbani, Una linea rossa per il consumo di suolo, commento a: V. De Lucia, L’Italia era bellissima (DeriveApprodi, 2022)

F. Ventura, L'urbanistica fatta coi piedi, commento a: G. Biondillo, Sentieri metropolitani (Bollati Boringhieri, 2022)

E. Battisti, La regia pubblica fa più bella la città, commento a: P. Sacerdoti, Via Dante a Milano (Gangemi, 2020)

G. Nuvolati, Emanciparsi (e partecipare camminando), commento a: L. Carrera, La flâneuse (Franco Angeli, 2022)

P. O. Rossi, Zevi: cinquant'annidi urbanistica italiana, commento a: R. Pavia, Bruno Zevi (Bordeaux, 2022)

C. Olmo, La memoria come progetto, commento a: L. Parola, Giù i monumenti? (Einaudi, 2022); B. Pedretti, Il culto dell’autore (Quodlibet, 2022); F. Barbera, D. Cersosimo, A. De Rossi (a cura di), Contro i borghi (Donzelli, 2022)

A. Calafati, La costruzione sociale di un disastro, commento a: A. Horowitz, Katrina. A History, 1915-2015 (Harvard University Press, 2020)

B. Bottero, Città vs cittadini? No grazie, commento a: M. Bernardi, F. Cognetti e A. Delera, Di-stanza. La casa a Milano (LetteraVentidue, 2021)

F. Indovina, La città è un desiderio, commento a: G. Amendola, Desideri di città (Progedit, 2022)

A. Mazzette, La cura come principio regolatore, F. C. Nigrelli (a cura di), Come cambieranno le città e i territori dopo il Covid-19 (Quodlibet Studio, 2021)

P. Pileri, La sostenibilità tradita ancora, commento a: L. Casanova, Ombre sulla neve. Milano-Cortina 2026 (Altreconomia, 2022)

A. Muntoni, L'urbanistica, sociologia che si fa forma, commento a: V. Lupo, Marcello Vittorini, ingegnere urbanista (Gangemi, 2020)